Rubrica
Osservatorio meridionale

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Ernesto Rascato
Articoli pubblicati
per Proteo (5)

Argomenti correlati

Questione meridionale

Nella stessa rubrica

Meridione e dominio ideologico
Pecorella Vincenzo

Noterelle sudiste: economia marginale, conflitto, repressione
Ernesto Rascato

L’imbarazzante questione del diritto d’asilo. I rifugiati e le frontiere meridionali dell’Europa
Paolo Graziano

La lucrosa “impresa” dell’usura in Campania
Ignazio Riccio

 

Tutti gli articoli della rubrica "Osservatorio meridionale"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Noterelle sudiste: economia marginale, conflitto, repressione

Ernesto Rascato

Formato per la stampa
Stampa

È un quadro abbastanza avvilente quello datoci dallo Svimez (l’osservatorio ufficiale di studio sulle dinamiche del Mezzogiorno) in questi giorni circa la messa al palo, nuovamente, dello sviluppo del Sud.

Prodotto fermo, investimenti in calo, occupazione bloccata: ci ritroviamo nuovamente in un periodo di stagnazione come nell’81-’83, periodi intervallati dalle riprese dell’84-’91 e del 1994- 2004, tutte dipendenti da fatti politici o contingenze internazionali.

L’azione dell’asse Lega-Tremonti ha sconquassato l’assetto del Paese.

Rigore finanziario, taglio di trasferimenti di capitale molto mirato (e politico) hanno determinato un acuirsi del divario tra le due Italie.

Ad esempio è 100 la spesa pro-capite nel centro-nord e 90,8 quella del Mezzogiorno. Nella spesa per investimenti il rapporto è 73 su 100 a sfavore del Meridione.

Altro dato qualificante è l’invecchiamento del Paese (tutto), ma che investe ormai il Sud e con la ripresa dell’emigrazione interna e la bassa ricettività dell’immigrazione straniera la forza lavoro attiva diminuisce nuovamente.

Ovviamente la ricetta richiesta per l’inversione è il rinnovo del flusso di investimenti, le infrastrutture, la formazione (con l’istruzione) e deroghe contrattuali che non dovrebbero riproporre le gabbie salariali, ma deroghe solo nei distretti, una flessibilità tutta territoriale, tutta la filosofia che per mera combinazione ha ricevuto il netto rifiuto nelle lotte operaie di Melfi.

Interessante è, sempre nel quadro Svimez, il riferimento dei dati dei profitti delle imprese.

La quota dei profitti lordi sul valore aggiunto nel Mezzogiorno è aumentata, nel suddetto periodo di crisi, più nel Sud che nel Nord.

Un’ultima segnalazione è degna di riflessione: dopo la tanto strombazzata lotta al sommerso, la Guardia di Finanza denuncia che ben un quarto delle imprese del nostro Bel Paese sono irregolari e se al Nord incidono dell’11%, al Centro per il 16%, il primato resta sempre al Sud con il 23%. Utile sottolineare che le figure che più pagano lo scotto sono donne, giovani, disoccupati ed immigrati nei settori dell’agricoltura, edilizia e vendita al dettaglio.

Cosenza, Scanzano, Napoli, Melfi hanno scandito quello che da qualche anno si era messo in previsione: un rifiuto del Sud ad essere discriminato e considerato di scorta al cuore del capitale, della finanza e della politica che sono al Nord. Tale lento sommovimento è stato visibile solo in parte sul piano politico-istituzionale tant’è che corrisponde, per esempio, al riappropriarsi da parte della mafia nuovamente di tutta la Sicilia attraverso l’apparato che lo studioso Barbagallo in “Il potere della camorra” chiama simil-mafioso, rappresentato dal partito di Forza Italia. Ma necessario, se riflessione occorre fare sul meridione, è dare una scansione temporale alle trasformazioni strutturali, alla vita dei movimenti reali e alle contraddizioni generali che avviluppano e intersecano il tessuto sociale di tale parte del nostro Paese.

Fondamentale è stato il passaggio da economia prevalentemente agricola ad una forma agricola-industriale che ha segnato attraverso l’intervento dell’ex Cassa del Mezzogiorno (e vari istituti connessi) il primo stravolgimento strutturale del nostro Mezzogiorno. Il relativo sviluppo, con i poli industriali, che si sono poi rivelati cattedrali nel deserto, e la loro crisi a cavallo degli anni ’80/’90 sono di svolta e inversione di tendenza. Saltano in questo decennio il polo telematico in Campania, chimico in Basilicata e Sicilia, i tradizionali dell’industria pesante siderurgica a Napoli e Taranto, si blocca Gioia Tauro e si ridimensiona la componentistica Alfa, Fiat e Indesit.

L’agricoltura e l’edilizia, settori trainanti, vanno in crisi (nonostante la ricostruzione politica del post terremoto) perché le risorse umane con esperienza di lavoro sono dirottate altrove.

Regge invece tutta la miriade di fabbrichette manifatturiere con lavoro nero annesso e connesso. Gli ultimi interventi dello Stato alla fine degli anni ’80 si risolvono con migliaia di ore pagate in cassa integrazione guadagni e interventi della Ge.Pi. con strascichi di migliaia di operai che ancora oggi in quasi 70.000 si spandono come lavoratori socialmente utili qua e là nelle regioni Campania, Puglia e Sicilia. Questo è il quadro generale e schematico che possiamo tracciare per dare un’introduzione alla nostra riflessione sull’attuale situazione in tre punti: la trasformazione strutturale, la situazione dei movimenti reali e le prospettive.

Una nuova composizione di classe, che già si era affacciata nelle nostre analisi di anni fa, ora si va a collocare nel nuovo panorama della società meridionale.

Chiuse le grandi fabbriche (le camuffate e foraggiate Fiat di Melfi e Avellino sono di controtendenza) la classe operaia classica si è ridistribuita sul territorio dove l’azione sindacale è pressoché nulla e cede l’intervento solo all’azione legale non collettiva dei soggetti.

Il luogo sono piccolo-medi luoghi di produzione dove i diritti generali, che ancora esistono, vengono continuamente schiacciati, gli straordinari sono giornalieri e fuori-busta, i giovani con contratti a termine sembrano essere gli apprendisti di una volta, direttamente ricattati dal padrone.

Il lavoro nero è in parte svolto da immigrati e in parte ancora a domicilio e nei sottoscala.

Infine è questo il modello-tipo, che al pari del nordest viene difeso perché originale “Made in Italy” e particolarmente produttivo, quasi una messa in discussione delle due Italie, a diversa velocità.

Un modello oggi in crisi, perché, finiti i finanziamenti regionali ed europei, resta un’entità completamente schiacciata dalla concorrenza straniera con i lavoratori a cui sono stati chiesti anni di silenzio, accettazione, sacrifici, grazie all’azione concertativa, (a volte proprio di cogestione) di strutture sindacali quiescenti.

Il panorama descritto è quello dei distretti o delle attuali aree produttive del Meridione. Un esempio tipico è quello calzaturiero aversano, in provincia di Caserta, tanto decantato da istituzioni locali, da padroncini, dalla triplice sindacale e che oggi salta completamente grazie alla concorrenza cinese. Un mestiere storico, che si è innervato da sempre nell’Agro Aversano, tanto che negli anni ’60 i buoni-falsi delle scarpe con marchio Varese venivano qui prodotti e che avrebbe potuto tallonare la produzione specialistica veneta fatta a Montebelluna. Oggi è avviato tragicamente alla scomparsa. Un tessuto produttivo di circa 40.000 addetti (dall’operaio in regola alla giovane che cuce scarpe a casa) in un territorio di 400.000 abitanti che scompaginerà nuovamente i settori sociali interessati. A questo comparto si affianca un’edilizia (maggiormente privata) che con i suoi addetti è quasi al cinquanta per cento al nero e maggiormente stanziale. Il cosiddetto popolo delle partite IVA qui è composto da ex operai che hanno costituito l’impresa e si imbarcano la domenica sera o il lunedì ad ore antelucane, per andare in Umbria, Lazio o Emilia Romagna con due o tre manovali messi in regola e altrettanti al nero pronti ad essere regolati in caso di controlli o incidenti. Una sfumatura: nei lavori di una certa entità in edilizia o c’è direttamente il riciclaggio della camorra o il pizzo da pagare dal 5% a salire. Il palese impoverimento del territorio che si è citato prima e la conseguente crisi sempre meno strisciante è tamponato da un rilevante ritorno della trentennale immigrazione interna che si ripercuote positivamente nel reddito complessivo. Centinaia di bidelli, parastatali, insegnanti, lavoratori dei servizi e operai di ogni genere, tornano al sud come pensionati e sostengono così la pressione di rivendicazioni di reddito.

In Italia, dal Nord fino a Roma, il pensionato medio sopravvive più o meno dignitosamente, al Sud il pensionato sostiene fasce familiari indigenti. Parlando di quello che è rimasto di investimenti e dei finanziamenti verso il Mezzogiorno, e in questo caso nel particolare territorio che abbiamo velocemente messo sotto osservazione, la questione è risolta come nella migliore tradizione democristiana. Buona parte di questo flusso di capitali e finanziamenti regionali, nazionali ed europei, viene “filtrato” da un apparato di solerti e corrotti funzionari, amici di famiglia, parenti e conoscenti di area politico-sindacale che, nella maggioranza degli enti locali dividono la polpa, mentre gli scarti vanno alle opposizioni. In questa perfida ed elaborata trama c’è di tutto: manager, intellettuali, gruppi musicali, ONLUS, Cooperative o “fantasmi” od onnipresenti, e tutto il variegato sottobosco che sia Percy Allum descriveva in “Potere e società a Napoli nel dopoguerra” che Gabriella Gribaudo nel suo testo basilare “Mediatori” e persino nell’analisi di un collettivo rivoluzionario calabrese anni ’70. Naturalmente questa rete di mediatori ha casacche diverse, forme e soggetti hanno subito un’evoluzione, ma con stessa sostanza.

In questo quadro sociale che svela uno dei tanti e veri volti del Mezzogiorno agli inizi di un nuovo millennio e solo 150 anni dopo la cosiddetta unità italiana, al di là delle rivendicazioni di “sviluppo” di amministratori o governatori e dei depliant patinati, il Sud ha un enorme divario che ancora persiste con tutto il resto del paese sul piano della sopravvivenza quotidiana, sulla qualità della vita, dei diritti, degli spazi di libertà e degli altri.

Allora non devono stupire le rivendicazioni popolari che non sono lotta di popolo solo per mancanza di prospettiva complessiva, di rappresentanza collettiva di interessi di classe, di poli soggettivi che danno indirizzi sulle vie da prendere.

I salotti del capoluogo partenopeo tendono a coprire l’ulteriore servitù militare del territorio campano, le sane gestioni di piccoli comuni della piana Crotonese sembrano essere il modello a cui riferirsi per un riscatto della colonia sudista, mentre il resto del territorio è un enorme discarica che, dopo aver accettato per decenni gli sversamenti (soprattutto tossici) del Nord, a tutt’oggi non è stata capace di pensare ad un modello vincente di raccolta integrata dei rifiuti e si pensa ai termodistruttori.

Dignità del lavoro, salute e reale gestione nel senso sociale delle contrade sono gli oggetti a contendere che hanno scatenato le popolazioni di Acerra, Scanzano ed altri piccoli centri scavando ancora di più il fossato con lo Stato centrale o i suoi rappresentanti. Il tentativo di criminalizzarle non è riuscito nonostante si sia tentato di farle passare come infiltrate da elementi malavitosi. Chi coglie il nuovo e chi l’ha colto prima comprende Scanzano e Termini Merese come una netta inversione rispetto alle lotte operaie della FIAT di Termoli, a Campobasso, dove il paese tutto, dagli studenti alle famiglie furono aizzati e mobilitati contro le giuste rivendicazioni delle maestranze della fabbrica qualche anno fa. Le 30.000 pagine con cui la Procura di Cosenza ha incriminato 13 militanti del Movimento adducendo al Sud Ribelle (un’aggregazione di movimenti, gruppi, associazioni e sindacati di base) una volontà sovversiva (non hanno trovato nemmeno un acciarino per imputare la banda armata) sono ben più della volontà persecutoria di DIGOS e ROS dopo le incriminazioni a Napoli per le violenze del 17 marzo 2001. Esse sono una sapiente azione preventiva per non far saldare alle “insorgenze” delle genti del Sud quel minoritario, ma ben radicato movimento di disoccupati, studenti, immigrati, precari e lavoratori, che a Napoli, a Taranto, a Reggio e Palermo regge lo scontro sociale dalla fine degli anni ’80 e che ha stretti legami con tutti i resistenti delle metropoli e dei piccoli centri sul territorio, che segue la lotta per l’ambiente di Acerra e critica in convegni e in piazza gli accordi neo-coloniali dell’Euromed.

 

Bibliografia

“Rapporto Svimez 2004” Il Mulino

Barbagallo “Il potere della Camorra” Einaudi

Allum “Potere e società a Napoli nel dopoguerra” Einaudi

Gribaudo “Mediatori democristiani” Rosenberg e Sellier

Pirri “Scirocco” Collettivo Editoriale Scirocco