Noterelle sudiste: economia marginale, conflitto, repressione
Ernesto Rascato
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È un quadro abbastanza avvilente quello datoci dallo Svimez
(l’osservatorio ufficiale di studio sulle dinamiche del Mezzogiorno) in questi
giorni circa la messa al palo, nuovamente, dello sviluppo del Sud.
Prodotto fermo, investimenti in calo, occupazione bloccata:
ci ritroviamo nuovamente in un periodo di stagnazione come nell’81-’83,
periodi intervallati dalle riprese dell’84-’91 e del 1994- 2004, tutte
dipendenti da fatti politici o contingenze internazionali.
L’azione dell’asse Lega-Tremonti ha sconquassato l’assetto
del Paese.
Rigore finanziario, taglio di trasferimenti di capitale molto
mirato (e politico) hanno determinato un acuirsi del divario tra le due Italie.
Ad esempio è 100 la spesa pro-capite nel centro-nord e 90,8
quella del Mezzogiorno. Nella spesa per investimenti il rapporto è 73 su 100 a
sfavore del Meridione.
Altro dato qualificante è l’invecchiamento del Paese
(tutto), ma che investe ormai il Sud e con la ripresa dell’emigrazione interna
e la bassa ricettività dell’immigrazione straniera la forza lavoro attiva
diminuisce nuovamente.
Ovviamente la ricetta richiesta per l’inversione è il
rinnovo del flusso di investimenti, le infrastrutture, la formazione (con l’istruzione)
e deroghe contrattuali che non dovrebbero riproporre le gabbie salariali, ma
deroghe solo nei distretti, una flessibilità tutta territoriale, tutta la
filosofia che per mera combinazione ha ricevuto il netto rifiuto nelle lotte
operaie di Melfi.
Interessante è, sempre nel quadro Svimez, il riferimento dei
dati dei profitti delle imprese.
La quota dei profitti lordi sul valore aggiunto nel
Mezzogiorno è aumentata, nel suddetto periodo di crisi, più nel Sud che nel
Nord.
Un’ultima segnalazione è degna di riflessione: dopo la
tanto strombazzata lotta al sommerso, la Guardia di Finanza denuncia che ben un
quarto delle imprese del nostro Bel Paese sono irregolari e se al Nord incidono
dell’11%, al Centro per il 16%, il primato resta sempre al Sud con il 23%.
Utile sottolineare che le figure che più pagano lo scotto sono donne, giovani,
disoccupati ed immigrati nei settori dell’agricoltura, edilizia e vendita al
dettaglio.
Cosenza, Scanzano, Napoli, Melfi hanno scandito quello che da
qualche anno si era messo in previsione: un rifiuto del Sud ad essere
discriminato e considerato di scorta al cuore del capitale, della finanza e
della politica che sono al Nord. Tale lento sommovimento è stato visibile solo
in parte sul piano politico-istituzionale tant’è che corrisponde, per
esempio, al riappropriarsi da parte della mafia nuovamente di tutta la Sicilia
attraverso l’apparato che lo studioso Barbagallo in “Il potere della camorra”
chiama simil-mafioso, rappresentato dal partito di Forza Italia. Ma necessario,
se riflessione occorre fare sul meridione, è dare una scansione temporale alle
trasformazioni strutturali, alla vita dei movimenti reali e alle contraddizioni
generali che avviluppano e intersecano il tessuto sociale di tale parte del
nostro Paese.
Fondamentale è stato il passaggio da economia
prevalentemente agricola ad una forma agricola-industriale che ha segnato
attraverso l’intervento dell’ex Cassa del Mezzogiorno (e vari istituti
connessi) il primo stravolgimento strutturale del nostro Mezzogiorno. Il
relativo sviluppo, con i poli industriali, che si sono poi rivelati cattedrali
nel deserto, e la loro crisi a cavallo degli anni ’80/’90 sono di svolta e
inversione di tendenza. Saltano in questo decennio il polo telematico in
Campania, chimico in Basilicata e Sicilia, i tradizionali dell’industria
pesante siderurgica a Napoli e Taranto, si blocca Gioia Tauro e si ridimensiona
la componentistica Alfa, Fiat e Indesit.
L’agricoltura e l’edilizia, settori trainanti, vanno in
crisi (nonostante la ricostruzione politica del post terremoto) perché le
risorse umane con esperienza di lavoro sono dirottate altrove.
Regge invece tutta la miriade di fabbrichette manifatturiere
con lavoro nero annesso e connesso. Gli ultimi interventi dello Stato alla fine
degli anni ’80 si risolvono con migliaia di ore pagate in cassa integrazione
guadagni e interventi della Ge.Pi. con strascichi di migliaia di operai che
ancora oggi in quasi 70.000 si spandono come lavoratori socialmente utili qua e
là nelle regioni Campania, Puglia e Sicilia. Questo è il quadro generale e
schematico che possiamo tracciare per dare un’introduzione alla nostra
riflessione sull’attuale situazione in tre punti: la trasformazione
strutturale, la situazione dei movimenti reali e le prospettive.
Una nuova composizione di classe, che già si era affacciata
nelle nostre analisi di anni fa, ora si va a collocare nel nuovo panorama della
società meridionale.
Chiuse le grandi fabbriche (le camuffate e foraggiate Fiat di
Melfi e Avellino sono di controtendenza) la classe operaia classica si è
ridistribuita sul territorio dove l’azione sindacale è pressoché nulla e
cede l’intervento solo all’azione legale non collettiva dei soggetti.
Il luogo sono piccolo-medi luoghi di produzione dove i
diritti generali, che ancora esistono, vengono continuamente schiacciati, gli
straordinari sono giornalieri e fuori-busta, i giovani con contratti a termine
sembrano essere gli apprendisti di una volta, direttamente ricattati dal
padrone.
Il lavoro nero è in parte svolto da immigrati e in parte
ancora a domicilio e nei sottoscala.
Infine è questo il modello-tipo, che al pari del nordest
viene difeso perché originale “Made in Italy” e particolarmente produttivo,
quasi una messa in discussione delle due Italie, a diversa velocità.
Un modello oggi in crisi, perché, finiti i finanziamenti
regionali ed europei, resta un’entità completamente schiacciata dalla
concorrenza straniera con i lavoratori a cui sono stati chiesti anni di
silenzio, accettazione, sacrifici, grazie all’azione concertativa, (a volte
proprio di cogestione) di strutture sindacali quiescenti.
Il panorama descritto è quello dei distretti o delle attuali
aree produttive del Meridione. Un esempio tipico è quello calzaturiero
aversano, in provincia di Caserta, tanto decantato da istituzioni locali, da
padroncini, dalla triplice sindacale e che oggi salta completamente grazie alla
concorrenza cinese. Un mestiere storico, che si è innervato da sempre nell’Agro
Aversano, tanto che negli anni ’60 i buoni-falsi delle scarpe con marchio
Varese venivano qui prodotti e che avrebbe potuto tallonare la produzione
specialistica veneta fatta a Montebelluna. Oggi è avviato tragicamente alla
scomparsa. Un tessuto produttivo di circa 40.000 addetti (dall’operaio in
regola alla giovane che cuce scarpe a casa) in un territorio di 400.000 abitanti
che scompaginerà nuovamente i settori sociali interessati. A questo comparto si
affianca un’edilizia (maggiormente privata) che con i suoi addetti è quasi al
cinquanta per cento al nero e maggiormente stanziale. Il cosiddetto popolo delle
partite IVA qui è composto da ex operai che hanno costituito l’impresa e si
imbarcano la domenica sera o il lunedì ad ore antelucane, per andare in Umbria,
Lazio o Emilia Romagna con due o tre manovali messi in regola e altrettanti al
nero pronti ad essere regolati in caso di controlli o incidenti. Una sfumatura:
nei lavori di una certa entità in edilizia o c’è direttamente il riciclaggio
della camorra o il pizzo da pagare dal 5% a salire. Il palese impoverimento del
territorio che si è citato prima e la conseguente crisi sempre meno strisciante
è tamponato da un rilevante ritorno della trentennale immigrazione interna che
si ripercuote positivamente nel reddito complessivo. Centinaia di bidelli,
parastatali, insegnanti, lavoratori dei servizi e operai di ogni genere, tornano
al sud come pensionati e sostengono così la pressione di rivendicazioni di
reddito.
In Italia, dal Nord fino a Roma, il pensionato medio
sopravvive più o meno dignitosamente, al Sud il pensionato sostiene fasce
familiari indigenti. Parlando di quello che è rimasto di investimenti e dei
finanziamenti verso il Mezzogiorno, e in questo caso nel particolare territorio
che abbiamo velocemente messo sotto osservazione, la questione è risolta come
nella migliore tradizione democristiana. Buona parte di questo flusso di
capitali e finanziamenti regionali, nazionali ed europei, viene “filtrato”
da un apparato di solerti e corrotti funzionari, amici di famiglia, parenti e
conoscenti di area politico-sindacale che, nella maggioranza degli enti locali
dividono la polpa, mentre gli scarti vanno alle opposizioni. In questa perfida
ed elaborata trama c’è di tutto: manager, intellettuali, gruppi musicali,
ONLUS, Cooperative o “fantasmi” od onnipresenti, e tutto il variegato
sottobosco che sia Percy Allum descriveva in “Potere e società a Napoli nel
dopoguerra” che Gabriella Gribaudo nel suo testo basilare “Mediatori” e
persino nell’analisi di un collettivo rivoluzionario calabrese anni ’70.
Naturalmente questa rete di mediatori ha casacche diverse, forme e soggetti
hanno subito un’evoluzione, ma con stessa sostanza.
In questo quadro sociale che svela uno dei tanti e veri volti
del Mezzogiorno agli inizi di un nuovo millennio e solo 150 anni dopo la
cosiddetta unità italiana, al di là delle rivendicazioni di “sviluppo” di
amministratori o governatori e dei depliant patinati, il Sud ha un enorme
divario che ancora persiste con tutto il resto del paese sul piano della
sopravvivenza quotidiana, sulla qualità della vita, dei diritti, degli spazi di
libertà e degli altri.
Allora non devono stupire le rivendicazioni popolari che non
sono lotta di popolo solo per mancanza di prospettiva complessiva, di
rappresentanza collettiva di interessi di classe, di poli soggettivi che danno
indirizzi sulle vie da prendere.
I salotti del capoluogo partenopeo tendono a coprire l’ulteriore
servitù militare del territorio campano, le sane gestioni di piccoli comuni
della piana Crotonese sembrano essere il modello a cui riferirsi per un riscatto
della colonia sudista, mentre il resto del territorio è un enorme discarica
che, dopo aver accettato per decenni gli sversamenti (soprattutto tossici) del
Nord, a tutt’oggi non è stata capace di pensare ad un modello vincente di
raccolta integrata dei rifiuti e si pensa ai termodistruttori.
Dignità del lavoro, salute e reale gestione nel senso
sociale delle contrade sono gli oggetti a contendere che hanno scatenato le
popolazioni di Acerra, Scanzano ed altri piccoli centri scavando ancora di più
il fossato con lo Stato centrale o i suoi rappresentanti. Il tentativo di
criminalizzarle non è riuscito nonostante si sia tentato di farle passare come
infiltrate da elementi malavitosi. Chi coglie il nuovo e chi l’ha colto prima
comprende Scanzano e Termini Merese come una netta inversione rispetto alle
lotte operaie della FIAT di Termoli, a Campobasso, dove il paese tutto, dagli
studenti alle famiglie furono aizzati e mobilitati contro le giuste
rivendicazioni delle maestranze della fabbrica qualche anno fa. Le 30.000 pagine
con cui la Procura di Cosenza ha incriminato 13 militanti del Movimento
adducendo al Sud Ribelle (un’aggregazione di movimenti, gruppi, associazioni e
sindacati di base) una volontà sovversiva (non hanno trovato nemmeno un
acciarino per imputare la banda armata) sono ben più della volontà
persecutoria di DIGOS e ROS dopo le incriminazioni a Napoli per le violenze del
17 marzo 2001. Esse sono una sapiente azione preventiva per non far saldare alle
“insorgenze” delle genti del Sud quel minoritario, ma ben radicato movimento
di disoccupati, studenti, immigrati, precari e lavoratori, che a Napoli, a
Taranto, a Reggio e Palermo regge lo scontro sociale dalla fine degli anni ’80
e che ha stretti legami con tutti i resistenti delle metropoli e dei piccoli
centri sul territorio, che segue la lotta per l’ambiente di Acerra e critica
in convegni e in piazza gli accordi neo-coloniali dell’Euromed.
Bibliografia
“Rapporto Svimez 2004” Il Mulino
Barbagallo “Il potere della Camorra” Einaudi
Allum “Potere e società a Napoli nel dopoguerra”
Einaudi
Gribaudo “Mediatori democristiani” Rosenberg e
Sellier
Pirri “Scirocco” Collettivo Editoriale Scirocco