Se la filantropia fosse la soluzione per la miseria,
la beneficenza sarebbe sovversiva.
La massa di miserabili nella società capitalista del secolo XXI supera gli scenari più pessimistici che, nel secolo XIX, si poteva immaginare. Miseria ancora più infame di fronte allo straordinario svilluppo delle forze produttive. L’elenco infinito di istituzioni pubbliche e private, sovranazionali, nazionali, regionali, comunali, ufficiali e non ufficiali, che realizzano e/o patrocinano, apparentemente senza risparmio di risorse finanziere e umane. Qualsiasi tipo di ricerche con lo scopo di diagnosticare la malattia sociale della miseria e della povertà e di suggerire terapie corrispondenti. Evidentemente, una volta definite, le terapie richiedono altrettante istituizioni a tutti i livelli e ambiti per metterle in pratica.
Già nel 1844, in un critico apprezzamento a un articolo pubblicato dalla rivista Vorwärts, è stato analizzato il fenomeno del pauperismo nel caso classico del capitalismo di quei tempi - l’Inghilterra. Anche se endemico nella società capitalista, il pauperismo, quando su scala epidemica, richiede con più urgenza un qualche tipo di comprensione (interpretazione) per la sua amministrazione e la sua gestione. Perciò, la mia critica ha messo a fuoco le forme di coscienze della borghesia inglese del pauperismo. Oggi, quando si assiste a una epidemia di pauperismo su scala globale, dovuta alla estensione mondiale delle relazioni capitalistiche, si può ugualmente analizzre le forme di coscienza sottointese nella vera moda universale degli studi sulla povertà.
Nel 1844 il pauperismo “classico” era quello inglese. Attualmente, il pauperismo “classico” è mondiale. Tuttavia sembra possibile analizzarlo prendendo in considerazione il “classico dei classici”, il pauperismo brasiliano, come suggerito dai diversi indicatori internazionali di disugualianza e dalla improvvisa compassione per i poveri che, in Brasile, anima gli interventi di un ampio spettro di tecnici, politici e imprenditori.
I lettori ci permetteranno di ricordare gli elementi centrali della nostra analisi del pauperismo nel XIX secolo e la critica alle forme di coscienza implicite nella gestione politico-amministrativa di questo male sociale.
Nell’articolo in questione, si criticava l’interpretazione data da Arnold Ruge sulla rivolta dei lavoratori dei telai della Silesia (4/6 giugno 1844), la prima grande lotta del proletariato tedesco. In virtù del registro politicista della sua interpretazione, l’autore vede nella reazione ufficale del governo prussiano all’insorgere dei lavoratori la natura apolitica della società tedesca. Ecco perché, per lui, la miseria dei distretti industriali - l’ingrediente principale della rivolta - non potè essere interpretata dalle autorità politiche se non come risultato di “un fallimento della amministrazione o della beneficienza”. In altre parole, il prussiano (Ruge) spiega questa falsa concezione tedesca della miseria dei lavoratori inquanto “peculiare di un paese apolitico” - la Germania. (MARX, 1978: 230) poichè l’Inghilterra era il paese del pauperismo e, indiscutibilmente, il paese politico per eccellenza, ci imponeva verificare se le concezioni inglesi della miseria non fossero ugualmente false.
Quindi ci si è chiesti “come la borghesia inglese, insieme al governo e alla stampa, interpretino il pauperismo”. In primo luogo, la borghesia inglese imputa il pauperismo ad una mancanza della poltica. I partiti politici (Tory e Whig) si incolpano reciprocamente della miseria. “Nessuno dei due partiti individua la causa del male nella politica in sè stessa, ma piuttosto soltanto nalla politica dell’altro partito e nessuno dei due si sogna alcuna riforma della società”. (ibid:231)
D’altra parte, la Economia politica inglese, la forma di conoscenza scientifica delle condizioni della “economia politica inglese”, costituisce “l’espressione più radicale” della concezione inglese (governo e borghesia) del pauperismo. Un gruppo di autori (Mac Culloch, per esempio) esalta semplicemente la capacità della scienza di intravedere, senza valutazioni, i dettagli ultimi della realtà sociale, naturalizzando così la miseria. Un secondo gruppo, coscienti del pericolo rappresentato dal pauperismo, “concepisce sia questo pericolo che i rimedi, in modo non solo peculare ma per dirlo francamente, infantile e ridicolo” (idid:232). Abbiamo illustrato quest’ultima concezione attraverso le formulazioni del Dr Kay, nelle quali tutto viene ridotto a una negligenza dell’educazione. Senza educazione, il lavoratore non comprenderebbe le “legge naturali del commercio” che, nel loro funzionamento, lo condurrebbero necessariamente alla miseria. Tale situazione di miseria motiverebbe la sua rivolta. Rivolta che disturberebbe la prosperità delle manifatture e del commercio inglese, scuoterebbe la mutua fiducia degli imprenditori e produrrebbe instabilità nelle istituzioni politiche e sociali. (Kay apud Marx, ibid: 232). Concezioni come queste, indicano fino a che “punto arrivava la superficialità della borghesia inglese e della stampa sul pauperismo, questa epidemia inglese”. Ibid)
In breve, la concezione inglese del pauperismo, tanto nella sua versione politico-partisana quanto nella sua forma di coscienza scientifica, si risolveva nella riduzione della miseria a insufficienza politico-amministrativa. Perciò ho potuto mostrare a Ruge che le misure contro il pauperismo rafforzate dalla borghesia “politica” inglese erano somiglianti alle proposte idealizzate nella apolitica Germania, vale a dire: politiche pubbliche filantropiche e/o amministrative.
In verità, contro l’interpretazione di Ruge, ho potuto dimostrare un panorama che mi permetto di compendiare, qui che le azioni implementate in Inghilterra per affrontare il pauperismo non differivano in assoluto da quelle accennate dal governo prussiano. Infatti, ho evidenziato che la legislazione inglese sui poveri, del secolo XVI, istituiva un apparato ufficiale, centrato sulle parrocchie e destinato a sostenere i lavoratori poveri sotto gli auspici della Tassa dei Poveri. In altre parole, durante i due secoli in cui questa legislazione ebbe corso, l’Inghilterra ha affrontato il pauperismo attraverso “la beneficenza per via burocratica”. Alla fine dello secolo XVIII, davanti “al terribile incremento del papuerismo”, il parlamento inglese ha considerato imperativo riformare la legislazione. La povertà epidemica venne attribuita immediatamente ad una “deficienza amministrativa”. Da ciò la riforma nell’amministrazione della Tassa dei Poveri, che ha determinato un apparato burocratico così formidabile che “ il capitale controllato per tale amministrazione praticamente corrisponde al costo dell’esercito francese”. Davanti alla enormità delle somme coinvolte, il parlamento inglese, nel 1834, ando aldilà di una riforma formale dell’amministrazione” del pauperismo. Da questo momento in poi, il parlamento vede nella propria legge dei poveri (Poor Law) “la fonte principale della situazione estrema del pauperismo inglese”.
In verità il parlamento ha scoperto che “il rimedio legale contro il male sociale, la beneficenza, alimenta il male sociale”. (Conclusione fondata certamente sulle idee di Malthus, per il quale i poveri hanno la lamentevole inclinazione a moltiplicarsi più velocemente dei mezzi di sussistenza1. Secondo questa interpretazione la beneficenza sarebbe una pazzia perchè rappresenterebbe uno stimolo pubblico alla miseria. (Malthus apud Marx, ibid: 233). Il parlamento inglese associa la “filantropica” teoria di Malthus con l’“opinione per cui il pauperismo è disgrazia di cui sono colpevoli i lavoratori stessi”. Da ciò ne consegue che la miseria, “non deve essere prevenuta come una disgrazia, ma deve essre punita e castigata come un crimine”. Ispirato da tali idee, che consideravano la miseria come una colpa morale dei miserabili, il parlamento ha eliminato qualsiasi protezione per i lavoratori ad eccezione dei lavoratori nelle workhouses, concepite per scoraggiare i “miserabili a cercare lo sfogo contro la morte per fame”. Nelle workhouses, “la beneficenza fu intelligentemente combinata con la vendetta della borghesia sul povero che si è apellato alla sua beneficenza”. (ibid: 233-4)
In breve, in Inghilterra, così come in Germania, il pauperismo, venne considerato come il risultato ora della mancanza, ora dell’eccesso di beneficenza, e perciò gestito con misure filantropico-amministrative. In entrambi i casi, mai si è considerato come conseguenza necessaria delle relazioni sociali di produzione, in particolare della industria moderna. La politica Inghilterra, a differenza di ciò che pensa Ruge, cocepisce il pauperismo semplicemente come il risultato dello sviluppo che, a dispetto di tutte le misure amministrative, si è convertito in una istituzione nazionale, che richiede un apparato amministrativo massiccio e complicato. Tale apparato non ha più il fine di sradicare il pauperismo ma di gestirlo. Così facendo, l’Inghilterra politica naturale lo perpetua e abbandona ogni pretesa di eliminarlo. Questa amministrazione ha smesso di cercare di sradicare attraverso “mezzi positivi la fonte del pauperismo, limitandosi a scavargli una tomba con tenerezza poliziesca, ogni volta che emerge sulla superficie della vita pubblica”. (ibid: 234)
Per non essere accusato di realizzare una analisi unilaterale, si è anche introdotto nella discussione le sventure della borghesia francese con il pauperismo. Abbiamo ricordato il tentativo inutile di Napoleone di eliminare istantaneamente la mendicità. Avendo incaricato le autorità di svolgere progetti sociali a questo fine Napoleone ha ricevuto uno scarso ritorno. Per questa ragione spedisce al ministro degli interni un ultimatum: la mendicità deve finire entro un mese. Il formidabile risultato di tale ordinanza, superata la scadenza imperiale, è stato l’imprigionamento dei poveri. Così L’Imperatore evita, secondo un suo adulatore, al Paese ufficiale “lo sgradevole spettacolo delle infermità e della vergognosa miseria”. Questa incapacità di Napoleone mostra ancora una volta che la miseria non è eliminabile attraverso azioni amministrative di un Imperatore tanto potente. Ciò vale ugualmente per le misure amministrative filantropico-educazionali richieste da Ruge al Re di Prussia. Eliminare il pauperismo tedesco attraverso “la educazione di tutti i bambini abbandonati” come vuole Ruge, in verità pressupone niente altro che “la soppressione del proletariato. Per educare i bambini bisogna alimentarli e liberarli dal lavoro salariato. L’alimentazione e l’educazione dei bambini, vale a dire l’alimentazione di tutto il proletariato in crescita significherebbe l’eliminazione del proletariato e del pauperismo”. (ibid: 234-5)
Nemmeno la Convenzione [assemblea francese del 1792-1795] ha avuto successo nel combattere al pauperismo, nonostante le diverse misure prese. È necessario riconoscere che almeno ha tentato di abolire il pauperismo, anche se non immediatamente. Ha affrontato il problema con un approccio investigativo: ha commissionato piani e proposte ad un comitato che ha analizzato le “estensive inchieste dell’Assemblea Costituente sullo stato della miseria in Francia”; e, su questa base si è proposto un decreto sulla carità nazionale etc. Tutte queste razionalizzazioni non hanno portato a niente altro che a un decreto in più nel mondo... “Un anno più tardi donne affamate hanno assediato la Convenzione”. (ibid: 235-236).
Non ci si deve sorprendere di questo misero risultato, anche considerando che la Convenzione, come ho segnalato, “ha rappresentato il massimo di energia, potere e comprensione politica”. Lo Stato non può agire in altra maniera. Sempre gli Stati che si occuparono del pauperismo, si sono limitati alle misure amministrative e di beneficenza. Tale regola, naturalmente, richiede delle spiegazioni.
Prima di tutto, bisogna far presente che lo “Stato non scoprirà mai la causa dei mali sociali nello “Stato e nella organizzazione sociale”... Questa è una questione fondamentale. Neanche i partiti radicali e rivoluzionari, quando individuano nella forma dello Stato e non nella sua natura la causa dei mali sociali, riescono a comprenderla. Ecco la ragione per cui è essenziale fare una critica al registro politicista seguendo il quale tali questioni vengono interpretate. “Da un punto di vista politico, lo Stato è l’organizzazione della società sono una sola entità. Quando riconosce l’esistenza di difetti sociali, lo Stato li atribbuisce sia alle leggi naturali, che non sono controllabili dalle forze umane, sia alla vita privata, independente dallo stato, sia della disfunzione della amministrazione, da esso dipendenti”. Come abbiamo visto, l’Inghilterra crede che la miseria sia conseguenza della crescita della popolazione ad un tasso più veloce di quello dei mezzi di produzione. Una legge naturale: e che il pauperismo dipenda dalla cattiva volontà dei poveri. Per il Re di Prussia il problema risiede nella assenza di sentimento cristiano dei ricchi. La Convenzione, a sua volta addebitato alla attitudine contro-rivoluzionaria e sospetta dei proprietari. Quindi: “l’Inghilterra castiga i poveri, il Re di Prussia esorta i ricchi e la Convenzione ghigliottina i proprietari”. In finale tutti gli Stati vedono nei difetti della amministrazione la causa dei mali sociali. Correggere l’amministrazione sarebbe perciò la terapia corrispondente. “Giustamente perché l’amministrzione è l’attività organizzativa dello Stato”. (ibid: 236)
Tutti questi insuccessi nella gestione politico-amministrativa del pauperismo illustrano la natura contraddittoria dello Stato. “La contraddizione tra, da una parte, il carattere e la buona volontà della amministrazione e, dall’altro, i suoi mezzi e capacità, non possono essere superati senza che lo Stato superi sé stesso. Lo Stato è basato su questa contradizione tra vita pubblica e privata, tra gli interessi generali e particolari. Per questa ragione, l’amministrazione deve limitarsi ad una attività formale e negativa poiché il suo potere finisce laddove comincia la vita civile e il suo lavoro”. (ibid: 237)
Considerando l’ultima delle nostre morti - e qui ci riferiamo certamente alle morti spirituali, poichè quella fisica è una e definitiva - e la conseguente dissoluzione contemporanea della concezione critica della vita umano-sociale, alla cui formulazione crediamo di aver contribuito - la tradizione del pensiero socialista conformatasi almeno negli ultimi due secoli - siamo convinto che sarebbe necessario seguire ancora più nel dettaglio gli argomenti che fondano la mia critica verso coloro che assegnano allo Stato, indipendentemente dalla sua forma, tutte le speranze di costruzione di un mondo genuinamente umano. Questi argomenti costituiscono un copione, lontano e complesso, della mia concezione dello Stato e, in particolare, della concezione negativa del politico. La necessità di tale ricerca approfondita sarà oggi più comprensibile perchè, crollato l’impero del pensiero positivista che ha sedotto anche sinceri correligionari, tutti sanno che le teorie non descrivonno asetticamente soltanto i “fatti”, ma soppratutto attribuiscono loro un significato. Dunque, se oggi tutti sono pronti a ammettere che le teorie oltre che costruire un’immagine del mondo, un’ontologia, la presuppongono, allora nessuno si sorprenderebbe se io insistessi nella riaffermazione enfatica, come ho sempre fatto, non soltanto della natura esplicitamente ontologica delle mie formulazioni teoriche, ma nel carattere distintivo dell’ontologia dell’essere sociale che ho cercato di delineare nelle mie opere. Per dirlo nei termini di un’altra opera, La Questione Ebraica, le tracce essenziali della ontologia dell’essere sociale sono presentate, sotto la prospettiva della società umana, mentre l’ontologia, di solito velata, delle tradizioni teoriche che io critico, esprime l’ottica storicamente limitata della società civile. (Marx, 1977: 347-77).
La critica reciproca di teorie derivate da antologie radicalmente distinte è incomprensibile quando viene soppresso il riferimento ontologico che fornisce loro senso e sostegno. La critica ontologica, lontana dall’implicare il dialogo impossibile tra gli abitanti di mondi diversi, (assurde ipotesi della teoria del progresso scientifico che fioriscono nella vostra epoca), è la condizione ed il pressuposto delle dispute teoriche sostanziali. Dunque, se le teorie significano il mondo, il confronto teorico è un confronto di significazioni. E non si può essere indifferenti al risultato del conflitto, il quale vale come la rappresentazione più adeguata della realtà. Poiché se il mondo, tanto il naturale come il sociale, esiste indipendentemente dalle nostre rappresentazioni, ne consegue che la sua rappresentazione piu adeguata possibile è condizione per la soddisfazione dei nostri bisogni e desideri possibili. In questo senso, la questione del pauperismo ne offre una illustrazione esemplare. Come abbiamo visto non mancano mai, il desiderio, l’intenzione e le politiche pubbliche per eliminare la povertà. Ma poiché sono basate su una falsa rappresentazione della realtà sociale, non potrebbero mai trasformare il desiderio in realtà.
La falsa rappresentazione sottostante alle azioni contro il pauperismo, costruite nell’ottica della società civile, fa della “impotenza la legge naturale dell’amministrazione” nel trattare le “conseguenze che derivano della natura antisociale di questa vita borghese, di questa proprietà privata, di questo commercio, di questa industria, di questo mutuo saccheggio dei diversi settori borghesi... Questa frammentazione, questa viltà, questo schiavismo della società borghese è il fondamento naturale sul quale si basa lo Stato moderno, allo stesso modo che la società borghese dello schiavismo fu il fondamento naturale dello Stato antico. L’esistenza dello Stato e della schiavitù sono inseparabili. Lo Stato antico e la schiavitú di quell’epoca - antitesi classica e franca - non erano fusi tra di loro piu intimamente che il moderno Stato ed il moderno mondo degli affari - antitesi ipocrita cristiana. Se lo Stato moderno volesse porre fine all’impotenza della sua amministrazione, dovrebbe abolire l’attuale vita privata. Per abolire la vita privata, dovrebbe abolire sè stesso, poiché esso esiste soltanto in opposizione a essa. Però, non c’è uno essere vivente che creda che i difetti della sua esistenza dipendano dal suo principio vitale, nell’essenza della sua vita, ma piuttosto da circostanze esterne. Il suicidio è antinaturale. Allora, lo Stato non può credere nell’impotenza interna della sua amministrazione, ovvero di sè stesso. Può soltanto riconoscere difetti formali, accidentali e cercare di rimediarli. Tale modificazioni non risolvono niente? Allora il male sociale è una imperfezione naturale, indipendente dall’essere umano, una legge divina; o il desiderio delle persone private è depravato per incontrarsi con le buone intenzioni dell’amministrazione. E come sono perverse! Si lamentano quando il governo limita la loro libertà, mentre gli domandono che impedisca le conseguenze inevitabili di questa libertà.” (Marx, 1978: 237)
In questo modo, le apiorie della ragione politica sono espressione delle antinomie della società civile, della quale è una ragione necessaria. Perciò, “quanto più potere abbia lo Stato e perciò tanto più politico sia un Paese, tanto meno è disposto a cercare le ragioni dei mali sociali nei principi dello Stato - ossia, nella attuale organizzazione della società, di cui lo Stato è espressione attiva, ufficiale e conscia di sè e a comprendere che lo Stato è il principio universale di queste malattie. La ragione politica è tale perchè pensa entro i limiti della politica. Quanto più viva, quanto più attiva, tanto più incapace di comprendere i mali sociali... Il principio della politica è la volontà ogni volta più parziale, ossia, la piu perfetta ragione politica, tanto più se si crede nella onnipotenza della volontà. Dinanzi ai limiti naturali, e mentali della volontà, tanto più è incapace intanto di scoprire la fonte dei mali sociali”. (ibid: 237-8)
Come abbiamo suggerito all’inizio, paragoniamo le forme di coscienza politica e teorica, attraverso le quali il secolo XIX considerava il pauperismo, con le idee corrispondenti del secolo XXI. Intanto, si deve evidenziare che il pauperismo attuale viene aggravato dal disincantato riconoscimento che il capitale oggi, diversamente da ciò che è successo negli anni “dorati” del dopo guerra, non è capace di essere crescentemente inclusivo - come hanno preteso le teodicee della crescita economica. L’accumulazione di capitale negli ultimi decenni ha richiesto cambiamenti sostanziali nelle istituzioni che la hanno caratterizzata nei primi decenni del dopoguerra, tra le quali generalmente si sottolineano le seguenti: crescita della flessibilità di tutti i mercati, riduzione del ruolo diretto dello Stato nell’economia, indebolimento dello ruolo dei sindacati, ipertrofia della sfera finanziaria, ecc. Per contrasto con il periodo immediatamente precedente, questa tappa si caratterizza come controrivoluzione conservatrice.
Evidentemente, in queste circostanze la ragione teorica di ispirazione neoclassica era più che titolata a diventare la interpretazione per eccellenza dell’economia. Nessun’altra tradizione teorica potrebbe competere con essa nella esortazione delle qualità intrinseche del mercato e, pertanto nella celebrazione della riduzione del ruolo dello Stato e sindacati, e della deregolamentazione generale dei mercati. Perciò, questa interpretazione diventa la interpretazione egemonica delle nuove circostanze e esigenze di questo momento specifico dell’accumulazione del capitale in quanto significazione egemonica della “nuova” economia, è la fonte teorica delle politiche necessarie per la sua gestione.
Di seguito si presenta una sintesi di questa interpretazione della “nuova” economia in suo momento di sintesi, quando è già stata convertita, per sucessive depurazioni e semplificazioni, in strumenti ideologici maneggiati dagli organismi internazionali, gestori del capitale su scala globale (Banca Mondiale, OMC, FMI, ecc.). A questo punto, l’interpretazione si libera della sua veste teorica e assume la forma di direttive generali, norme di condotta, piani di intervento, obiettivi strategici, e così via. Come tale, funziona da pacchetto interpretativo, pacchetto di significazione - sotto forma di politiche economiche i cui obiettivi e valori non sono più soggetti a valutazione critica - vero nucleo rigido lakatosiano!
Si prenda, a titolo di illustrazione, la caratterizzazione della dinamica e degli imperativi della “nuova” economia elaborata da un autore non sospetto di tramare contro il mercato. Convinto dell’emergenza definitiva della “nuova” economia, Foxley ci aiuta a sintetizzare le concezioni di uno di questi organismi internazionali (Banca Mondiale). Dopo molti studi, la Banca Mondiale sembra aver scoperto i processi attraverso i quali i paesi devono inesorabilmente passare per conformarsi agli imperativi della “nuova” economia. I processi si compongono, presumibilmente, di tre fasi. La prima, legata alla crisi del debito dei paesi sottosvillupati, impone semplicemente la necessità di stabilizzare l’economia. La seconda fase inizia con una trasformazione strutturale (apertura dell’economia, processo di privatizzazione e... processo molto veloce di liberalizzazione finanziaria). Infine, nella terza fase, avendo completato con successo le precedenti, i paesi potrebbero essere in grado di aumentare sostanzialmente e soostenibilmente l’investimento e la produttività. (Foxley, 1996: 1)
Persino la ragione teorica borghese riconosce il nesso tra questo processo di irradiazione della “nuova” economia e il pauperismo. È un nesso riconosciuto e dimostrato dagli stessi apologeti della contro-rivoluzione conservatrice. I processi citati sopra presuppongono in verità delle trasformazioni che le economie sottosviluppate (economie emergenti, in svillupo, tra gli altri neologismi) dovrebbero per forza provare nel loro percorso verso la “nuova” economia. “Nuova” economia di cui le economie dei paesi svillupati sarebbero, per presupposto, l’incarnazione. Purtroppo ci viene detto che questa “modernizzazione” ha effetti collaterali drastici - temporanei, si spera - quali la disoccupazione, la riduzione dei salari, la precarietà del lavoro, insomma tutti fenomeni legati alla povertà. Da ciò, comprendiamo immediatamente la forma attuale di coscienza borghese del pauperismo, riassunta nella seguente equazione: la dinamica economica implica una incessante “modernizzazione” che, transitoriamente e in alcune aree, produce effetti perniciosi. Davanti a questo movimento praticamente naturale, sopratutto riguardo alla sua forma borghese, nulla viene lasciato alla coscienza se non il ruolo di alleviare i suoi inconvenienti eventuali.
Foxley descrive con ricchezza di dettagli e con notevole “impassibilità scientifica”, come la coscienza borghese della vostra epoca concepisce questo vincolo tra accumulazione di capitale e pauperismo. Secondo lui, il processo sopra menzionato produce i seguenti danni collaterali:
Fase 1: I programmi di stabilizzazione economica dopo la crisi del debito furono sempre sostenuti dalle organizzazioni economiche internazionali che proponevano, essenzialmente, un insieme di riforme politiche i cui risultati, almeno durante questa fase, consistevano in un rallentamento della crescita economica, una crescita della disoccupazione, una riduzione dei salari reali e una riduzione della spesa publica dove era piu facile, vale a dire nelle spese a favore dei settori sociali. Questo tipo di manovra non poteva che risultare nel deterioramento della distribuizione del reddito e, molto probabilmente, in un aumento del livello di povertá.
Fase 2: I due risultati possibili del processo di privatizzazione rinforzanno l’impatto negativo della distribuzione della rendita come visto nella fase precedente. Riassumendo, poiché la privatizzazione è spesso riferita ai servizi di pubblica utilità, Foxley vuole dire, anche se in maniera ambigua, che le compagnie privatizzate, aumentano i prezzi al di sopra della capacità di pagamento delle “famiglie a basso reddito”. D’altra parte la combinazione della privatizzazione con l’apertura della economia alla competizione internazionale risulta in una ridefinizione della struttura del reddito da parte del settore commerciale per “rafforzare” la propria capacità competitiva con effetti negativi sulla distribuzione del reddito.
Fase 3: con la conclusione del processo di privatizzazione e l’insufficiente investimento in infrastrutture necessario per produrre una crescita sostenuta della produttività, l’offerta della qualità e dei beni e servizi pubblici diventano una questiono critica per evitare lo strangolamento delle strade, dei porti, degli aereoporti, delle telecomunicazioni e così via. Ma diventa anche cruciale per il suo impatto sulla distribuizione del reddito o sulla qualità di vita per gli strati di reddito più basso della popolazione (idem: pp. 2-5. Italici aggiunti).
Il freddo distacco della cronaca, che osserva la miseria necessariamente prodotta dalla logica del capitale con la stessa distanza con cui gli scienziati naturali osservano il movimento dei corpi celesti, può forse essere spiegato, da una parte con la fede incondizionata nella naturalezza del mercato e, dall’altra, con la convinzione cristiana secondo cui il bene presuppone la purgazione del male.
Ad ogni modo, il vincolo tra la “nuova” economia e il pauperismo ha effetti pratici pregiudiziali per l’ordine stesso del capitale. La ragione teorica che constata questo vincolo è la stessa, naturalmente, che sa intravedere i tremendi problemi politici e sociali da esso generati, i suoi effetti negativi per la legittimazione ideologica della “nuova” economia. Dopotutto, migliaia di miserabili non spariscono miracolosamente attraverso semplici esortazioni pubblicitarie. Questa situazione richede, piuttosto, delle azioni concrete che diano almeno l’impressione della cura, dello zelo, e della compassione per i poveri. Le agenzie internazionali possono essere viste come istanze di questo “momento umanitario” della ragione teorica sul suo “braccio pratico”.
Da un’altra ottica, questo “momento umanitario” non sarebbe altro che un aspetto necessario, di fronte al pauperismo allarmante del “programma sistematico di insediamento e consolidamento del capitalismo su scala globale”. (Cammack, 2002: 127) L’apparente interesse nella cura dei poveri e dei non garantiti, come proclamato nelle direttive e nelle azioni degli organismi internazionali capitanati dalla Banca Mondiale, in verità dissimula le necessità del capitale. In altre parole:
L’agire intenzionale degli agenti umanitari, diretto all’istituzione della egemonia di una forma sociale particolare di organizzazione della produzione, viene presentato come se fosse il risultato naturale delle forze astratte i cui poteri superano la capacità di resistenza della humanità. (ibid: 132)
In una sezione intitolata Manifesto Capitalista, in allusione al nostro Manifesto Comunista, Commack condensa con estrema felicità le particolarità dell’accumulazione di capitale che caratterizzano la “nuova”economia. Il contesto richiesto da questa nuova offensiva diretta a allargare e approfondire il dominio delle relazioni mercantili capitalistiche, oggi per presupposto libere da alternative sociali praticabili implica una strategia destinata, tra l’altro, a proletarizzare i poveri del mondo, per estendere al massimo il raggio della produzione di mercato e progettare una matrice istituzionale al fine di promuovere lo scambio capitalista. Ovviamente, la praticabilità a lungo termine di questo progetto presuppone la messa a disposizione del capitale di un numero appropriato di persone con educazione e salute sufficienti per funzionare come lavoratori salariati, in grado di fornire la infrastruttura pubblica necessaria per la produzione capitalistica e, in aggiunta a ciò, la creazione di strutture istituzionali finalizzate, da una parte a garantire che il comportamento dei lavoratori rinforzi il sistema capitalista e, dall’altra, a fomentare la competizione intercapitalista e a indurre l’appoggio dei governi al capitale domestico e internazionale. Per ultimo, ma non meno rilevante, combinare tutto ciò con una offensiva ideologica finalizzata alla persuasione della popolazione mondiale che non c’è altra alternativa e che il sistema globalizzato di libero mercato costituisce l’unica soluzione al problema della povertà mondiale. (ibid: 127)
Strumento attivo e consciente di questo progetto, la Banca Mondiale ha cercato di impiantarlo con tutte le fantastiche risorse a sua disposizione, come dimostra Cammack nella sua sintesi di celebrati Rapporti sullo Sviluppo Mondiale, pubblicati da questa Organizzazione. Basta dare un’occhiata ai temi specifici di questi rapporti per verificare la sistematicità con cui la Banca Mondiale agisce per realizzare quel progetto. Il rapporto del 1990-91, intitolato Povertà, pretendeva niente di meno che la creazione del proletariato mondiale; quello del 1991-92 difendeva l’espansione orizzontale e verticale dei mercati, quello del 1992-93 era centrato sulla necessità di preservare la “ecostrutura” adeguata alla espansione della accumulazione; quello del 1993-94 proponeva meccanismi favorevoli al mercato che fornissero un proletariato pronto per il lavoro; quello del 1994-95 estendeva l’azione dell’iniziativa privata alla fornitura di infrastrutture.
Dopo aver prestato attenzione a tali requisiti macrostrutturali, la Banca Mondiale si è focalizzata nei suoi rapporti successivi, sulle strutture istituzionali ad essi accompagnate. Cosi, il rapporto del 1995-96 trattava delle condizioni che potrebbero facilitare lo sfruttamento illimitato del lavoro da parte del capitale mondiale. Il rapporto 1996-97, sotto il suggestivo titolo di From Plan to Market (Dal programma al mercato), focalizzava sui cosiddetti paesi post-comunisti che si trovavano nei guai, allo scopo di definire le strategie per la loro “transizione” e organizzare le istituzioni necessarie a una economia di mercato; nel rapporto 1997-98 si trattava di nuovo della questione del ruolo dello stato nel nuovo regime capitalista internazionale; nel rapporto 1998-99 si propone la Banca Mondiale stessa come depositaria globale e disseminatrice della capacità intellettuale dei paesi in sviluppo; in quello del 1999-2000 si ritrae la globalizzazione come una forza irrefrenabile che guida inesorabilmente gli stati e i popoli verso il mercato mondiale; e il localismo come una pressione dal basso che forzerebbe i governi ad amministrare le conseguenze secondo le necessità regionali. Finalmente, nel rapporto del 2000-01 la Banca Mondiale ha riassunto la sua “missione centrale”: Attaccare la povertà. In aggiunta, offriva il suo programma per l’espansione del capitalismo mondiale come unico modo possibile per affrontare la povertà. (ibid: 127)
Curioso ragionamento questo che sostiene e promuove un ordine sociale che produce miseria e contemporaneamente si propone di abolire la povertà. Curiosa istituizione questa in cui lo slogan Attaccare la Povertà è un crudele eufemismo per Attaccare i Poveri (ibid: 134). Curioso ragionamento scientifico (teoria economica) questa dottrina che, teoricamente celebra le relazioni economiche che producono il pauperismo e, più avanti, disinvoltamente e distrattamente si fa avanti per aiutare i poveri. Citando un critico perspicace “Che società è questa in cui la ragione scientifica si lancia in calcoli complessi per distribuire panini ai poveri e ai miserabili?” (Fiori, 2001: 20) Che società e questa in cui la ragione scientifica, occupata in una pletora di azioni filantropiche, funziona come vero parassita della miseria altrui.
Credo che ciò sia sufficiente per illustrare la drammatica natura ed il carattere internazionale del pauperismo attuale, le sue origini nelle trasformazioni del capitale e, allo stesso tempo, le forme regionali di coscienza borghese che presuppongono, promuovono e rafforzano questo contesto mondiale. Quando queste ragioni locali si confrontano con i propri poveri, sia in furti, mendicità o indigenza, dispongono già delle risorse analitiche, istituzionali e finanziarie per trattare il problema. Perciò, nelle analisi del caso brasiliano che segue, è indispensabile non dimenticare che la coscienza locale del pauperismo non è originale, ma piuttosto è in linea con il contesto intellettuale.
Il pauperismo oggi, come dimostrano le preoccupazioni della Banca Mondiale, è globale. Perciò il suo caso classico non si situa in un paese come in passato. Ciò nonostante, quando si tratta di pauperismo, si può ricorrere al “classico dei classici” - il Brasile. Questa condizione é riconosciuta da autori rinomati, quali Habermas e Lipietz. Ambedue denunciano la possibilità che i processi di trasformazione della società capitalista contemporanea conducano a gradi crescenti di concentrazione di ricchezza e concomitante esclusione sociale, anche nei cosiddetti paesi sviluppati.
Essi usano l’espressione brasilianizzazione del mondo per denotare tale possibilità. Quanto a ciò, gli indicatori internazionali di miseria, povertà e disuguaglianza sono indiscutibili, a dispetto dei loro criteri eufemistici. Secondo il cosiddetto rapporto sullo Sviluppo Umano del UNDP, il Brasile dispone dei seguenti indicatori sul rendimento, del capitalismo nel paese: 8ª economia del mondo in termini di Prodotto Interno Lordo (PIL); 54º in termini di reddito pro-capite; il 47% del reddito appartiene al 10% più ricco mentre l’1% del reddito va al 10% più povero. Dei 162 paesi presenti nella classifica il Brasile è uno degli ultimi quando il criterio è la voracità della borghesia (UNDP, 2001). Secondo stime ufficiali, brasiliane, ci sono nel paese 22 milioni di affamati (il 14% della popolazione) e 53% milioni di poveri (il 34% della popolazione) (Barros e altri, 2000:23) Una situazione così grande, quale quella descritta da queste statistiche, non sfugge nemmeno al più distratto degli uomini.
Naturalmente, il paese ufficiale non può pretendere che il problema non esista. Governo, partiti, chiese e stampa sembrano profondamente preoccupati della miseria brasiliana. La ragione scientifica, evidentemente, non potrebbe essere immune da sentimenti così elevati. Vediamo dunque come si manifesta. Henriques, nella presentazione di una estesa antologia di saggi sul tema, evidenzia “la vergognosa disuguaglianza storica brasiliana” che secondo lui, “non deriva da nessuna fatalità storica, nonostante la sgradevole naturalezza con cui la società la affronta...”. (2000: 2) Insieme ad altri autori, sottolinea anche la straordinaria persistenza delle disuguaglianze nella società brasiliana, che resistono immutabili a diverse trasformazioni strutturali e a differenti congiunture. (Barros e altri, 2000: 46). Ramos e Vieira, - e confesso che non sono sicuro di aver compreso completamente le loro ragioni - richiamano l’attenzione sull’importanza di raccontare il panorama di miseria del paese:
Molti autori hanno già evidenziato che la distribuzione del reddito in Brasile è caratterizzata da uno dei livelli di ineguaglianza più alti del mondo; con conseguenze diaboliche in termini di un significativo aumento della povertà, aggravato dal fatto che il reddito pro capite del paese non è sufficiente. Nonostante questo sia un problema conosciuto ha ancora una grande rilevanza, soprattutto in un’epoca in cui il paese sta affrontando difficoltà nella capacità di crescita mentre il mercato del lavoro non è stato in grado di creare posti sufficienti per i lavoratori esistenti, e il reddito dei lavoratori è diminuito progressivamente (2000: 159).
Forse Ferreira ci può aiutare a chiarire la rilevanza degli sforzi insuperabili per riportare e misurare il pauperismo brasiliano. Secondo l’autore, fa parte del compito del ricercatore cercare di comprendere le cause dell’ineguaglianza e isolare quelle cause che maggiormente la provocano. Questo non è una semplice curiosità accademica a patto che:
a) il Brasile è ancora il paese più iniquo del mondo e
b) questa disuguaglianza, oltre che rattrista, sembra avere effetti negativi sul generale rendimento dell’economia (2000: 155).
Davanti alla dimensione epidemica del pauperismo, la ragione scientifica fa cosa ci si aspetta da lei, come esorta Ferreira: cerca di capirne le cause. Ad ogni modo visto che le strutture sociali che producono il pauperismo brasiliano sono essenzialmente le stesse che hanno prodotto il pauperismo nel secolo XIX, è lecito presumere che la ragione scientifica ufficiale, oggi come in passato, brasiliana o meno, sia incapace di identificarne le cause. Resta ora da dimostrarlo empiricamente.
L’inquadratura teorica del pauperismo brasiliano non sfugge, e né potrebbe sfuggire ai riferimenti usati per descrivere il pauperismo nel passato. Le sue “cause” sono attribuite o alle leggi naturali, o alla vita privata, o alle deficienze amministrative e/o filantropiche.
Le leggi naturali oggi, quando tutto è considerato come capitale, si manifestano nella tradizione teorica sottostante gli studi sul pauperismo come, tra l’altro, “capitale geografico”, capitale “demografico” e - chissà - “capitale atmosferico”. Per non infastidire il lettore oltre il necessario, basta considererò solo i supposti effetti del “capitale geografico” sulla miseria.
Differenti livelli di “capitali geografici” quali clima, infrastruttura locale, accesso ai servizi di pubblica utilità, conoscenza della realtà fisica locale e tecnologie adeguate, influenzano l’uso del capitale privato.... I poveri tendono a vivere in regioni con cattive condizioni di approvvigionamento. Date le stesse caratteristiche personali, si troverebbero meglio se vivessero in regioni più ricche. (Azzoni e altri, 2000: 299).
Non meraviglia che tale aberrante concezione, che definisce come geografiche cose come l’accesso ai servizi pubblici, conoscenza della realtà fisica locale e tecnologie, possa attribuire alla geografia parte della colpa della povertà. Non ho intenzione di annoiare il lettore entrando nel merito del “capitale demografico”, poichè sono sicuro che i lettori noteranno che questa linea di pensiero, con la sua insuperabile libertà di creare categorie, varrebbe anche in questo caso.
Nelle loro considerazioni sulle particolarità della vita privata, le scuole teoriche sulla povertà ne individuano la causa in tratti perniciosi sia dei poveri che dei ricchi. Nel caso delle “elite”, si può far riferimento allo studio che, con l’intenzione di motivare le politiche pubbliche basate sull’esortazione e l’impegno delle elites, si propone di comprendere la loro visione sulla povertà. Nelle sue conclusioni, l’autore, a dispetto di segnalare diversi vizi privati delle elites brasiliane, scommette ancora sulla possibilità di manovrare le loro motivazioni a favore, se non dell’eliminazione della povertà, almeno della sua riduzione a dimensioni apparentemente tollerabili:
Non ci resta che concludere che anche se è così difficile ottenere l’appoggio per implementare politiche di lotta contro la povertà e la disuguaglianza, è ancora necessario ricorrere alla persuasione e/o alla coercizione per cambiare i risultati del mercato che ci sembrano inaccettabili per questioni etiche o pragmatiche. Sembra anche possibile concludere che se individuiamo le motivazioni delle elite, sarà più facile assicurarne l’adesione. Se riusciamo a identificare gli argomenti che toccano gli interessi di questi attori, estenderemmo la nostra conoscenza in modo da precisare meglio che tipo di incentivi selettivi possono essere amministrati per aumentare la cooperazione o almeno la condiscendenza delle elite (Reis, 2000: 500)
Sebbene sia possibile speculare sul fatto che l’educazione dipenda anche da particolarità della vita privata, quali la ridotta propensione dei poveri allo studio, l’educazione entra nella discussione principalmente come causa amministrativa della povertà. Seguendo la linea di pensiero del Dr. Kay - che al suo tempo non si poteva immaginare come precursore di un approccio prolisso - i teorici del pauperismo ripetono unanimamente la sua spiegazione “infantile” e “sciocca” che riduce tutto a una deficienza di educazione, vale a dire, una deficienza amministrativa nell’offerta dell’attività educativa. Sono sufficienti pochi riferimenti per mostrare dove certi autori cercano la “causa” della povertà;
La sostenibilità dello sviluppo socio-economico è direttamente associata alla velocità e alla continuità dell’espansione del processo educativo. Questa relazione diretta è inizialmente trasmessa da due meccanismi distinti. Da una parte, la espansione educativa aumenta la produttività del lavoro, contribuendo alla crescita economica, all’aumento dei salari e alla diminuzione della povertà. Dall’altra la espansione educativa promuove più eguaglianza e mobilità sociale, a patto che la sua condizione di “attività non-trasferibile” trasformi l’educazione in un’attività più facile di distribuzione della grande maggioranza delle attività fisiche (Barros e altri, 200: 406)
Con l’assistenza di Ferreira, apprendiamo del nesso tra educazione e ricchezza e di quello tra educazione e potere politico. Secondo lui,
... la grande disuguaglianza di reddito o ricchezza (prodotta dalla grande disuguaglianza educativa)... può implicare una distribuzione disuguale del potere politico, a patto che la ricchezza produca influenza sul sistema politico. La disuguaglianza di potere politico riproduce la disuguaglianza educativa, poiché i dirigenti politici stessi non utilizzano il sistema pubblico di educazione e non hanno interesse nella sua qualità. I più poveri invece non hanno né i mezzi finanziari, né l’accesso al credito per frequentare buone scuole private, né hanno il potere politico per influenzare le decisioni fiscali e di bilancio che potrebbero migliorare la qualità della scuola pubblica. (Ferreira 2000: 155)
Oggi altri problemi amministrativi sono spesso contemplati al fianco dell’educazione nella “spiegazione” della povertà: distribuzione della terra e del credito. Non sarebbe necessario illustrare con citazioni queste altre cause del pauperismo di solito evidenziate da tali studi. La matrice teorica del problema è facilmente individuabile: si tratta della teoria neoclassica marginalista dei cosiddetti fattori di produzione i cui ispiratori ho già definito come “economisti volgari”. La logica dell’argomento si basa sull’idea che qualsiasi proprietà sia potenzialmente una entrata. Con l’acquisizione della educazione, l’individuo ottiene un lavoro e, come risultato, un reddito. Con l’acquisizione della terra l’individuo produce “beni”, li vende e produce reddito. Con l’acquisizione del credito, l’individuo - adesso microimprenditore - compra “beni capitali” e guadagna profitto, cioè, reddito. Dunque, così come per le deficienze nella offerta di educazione, allo stesso modo la distribuzione inadeguata di altre “attività” o “capitali” - terra e credito - viene sentita come “causa di disuguaglianze. Insufficienze e imperfezioni che, considerate come deficienze amministrative, si trovano nell’ambito delle attribuzioni del governo e, di conseguenza, possono essere trattate come politiche amministrative. Dando voce a un acclamato difensore brasiliano di questo punto di vista:
... alti livelli di attività possono aumentare la capacità di produzione di reddito dei poveri, diventando essi stessi uno strumento potenziale per la riduzione delle misure standard di povertà. In termini di politiche di alleviamento della povertà, si devono separare i trasferimenti compensatori (ad esempio, il programma di imposte sul reddito negative, relative alla assistenza sociale e il sussidio di disoccupazione) da quelli che accrescono il reddito pro capite permanente degli individui attraverso il trasferimento di capitale (ad esempio, l’educazione pubblica, le politiche di micro-credito e la riforma agraria). La valutazione dei tassi di ritorno e l’utilizzazione dei diversi tipi di attività possono aiutare nel disegno di politiche di rinforzo del capitale per lo sradicamento della povertà. (Neri, 200: 503-4)
Apparentemente, c’è una differenza radicale tra il trattamento filantropico riservato al pauperismo nel secolo XIX e le nuove terapie. Per presupposto, queste ultime condividono una diagnosi moderna e attaccano le cause strutturali della povertà. La questione è sapere se queste interpretazioni sono in qualche modo diverse.
Come ho dimostrato all’inizio di questo testo, il massimo di coscienza che la borghesia del secolo XIX abbia raggiunto dopo una riflessione sulla epidemia del pauperismo fu che, dando per scontate le sue inaccessibili “cause” naturali e private, esso è una conseguenza del fallimento dell’apparato amministrativo dello stato. Essa non ha mai avvertito, né avrebbe potuto, come ho dimostrato, la possibilità che nelle relazioni sociali governate dalla logica del capitale risiedesse la vera causa del pauperismo. Non si è mai sospettato, e non si potrebbe, che in quelle relazioni risiedeva l’importanza dello stato davanti alla miseria. Per ripetere il mio argomento, lo stato non può trattare “le conseguenze che derivano dalla natura anti-sociale di questa vita borghese, di questa proprietà privata, di questo commercio, di questa industria, di questo saccheggio reciproco dei diversi circoli borghesi”. Il “prussiano” (Ruge), il cui testo ho considerato urgente criticare, richiedeva al re di Prussia l’educazione di tutti i lavoratori per porre fine al pauperismo. Gli ho mostrato l’assurdità di tale proponimento nella società borghese. Gli autori brasiliani contemporanei qui illustrati, “in una aberrazione della loro dottrina” - parafrasando Machado de Assis - quando domandano la distribuzione non solo della educazione (“capitale umano”), ma anche di tutti gli altri “capitali” (terra e credito).
Non esiste controsenso più grande che immaginare che lo stato possa disporre, oltre che della distribuzione dell’educazione, della distribuzione della terra e del credito. Per semplificare, se il capitale è sinonimo di concentrazione della ricchezza sociale oggettiva e soggettiva, e lo stato moderno è l’organizzazione della società capitalista (vedi pag. 6), esigere dallo stato la distribuzione del capitale è una evidente contraddizione in termini. Per questa ragione, le teorie moderne sulla povertà, che sembrano rappresentare una rottura radicale e promettono trasformazioni strutturali, falliscono necessariamente. Non dimentichiamo il loro ruolo come semplice commercio di illusioni sotto forma di politiche pubbliche compensatorie, manifestazioni di una improvvisa compassione per i poveri.
Quello che l’analisi di questi due momenti di coscienza borghese possibile rivela senza dubbio è che, incapace di liberarsi dall’ottica della società civile, presenta sotto nuove vesti, la stessa concezione naturalizzata della società del capitale. Se, con questo è incapace di coprire le vere cause dei problemi con cui si confronta ma è obbligata per dovere a fornire gli strumenti per “soluzioni” che non risolvono mai niente, la coscienza borghese non se ne risente, disponendo di un numero enorme di soluzioni, sempre non plausibili. Questa attività che, si ammette, conferisce un dinamismo alla amministrazione governativa, attraverso la permanente sostituzione di piani precedenti, dei quali si sono scoperti i difetti insanabili, con nuovi piani elaborati con l’ausilio delle più recenti tecnologie. Questo processo presenta il vantaggio collaterale importante di articolare una sorta di solidarietà sociale fondata sul sentimento di compassione per i poveri. In ciò consiste il momento propriamente catartico delle teorie sulla povertà recente, in quanto quando propongono diagnosi e terapie per la povertà, alimentano la convinzione che il terribile spettacolo quotidiano di “briciole di bio-massa” per le strade - come qualcuno ha definito il destino degli esclusi dal sistema, sarà finalmente risolto.
Si sa che la pratica quotidiana è piena di false concezioni. Ma dal fatto che le azioni pratiche possono essere mosse e motivate da false concezioni non si deduce, evidentemente, che le rappresentazioni adeguate del mondo non siano il presupposto per la realizzazione degli obiettivi. In altre parole, e diversamente dall’idea diffusa nella vostra epoca, la verità non è una “quinta ruota”. Così, per ritornare al pauperismo, se la sua esistenza tocca la nostra sensibilità e, perciò, desideriamo il suo superamento, o, in altre parole, se è un obiettivo socialmente legittimo, allora la ricerca delle sue vere cause è imprescindibile, e la critica delle false teorie, che nella migliore delle ipotesi servono alla sua gestione, è un dovere.
Per rendere giustizia a un autore contemporaneo che ha saputo articolare con grande plasticità questo nesso tra teoria e pratica e la sua conseguente rilevanza per l’ottenimento di valori che possano umanizzare il mondo sociale, mi permetto di concludere con una sua citazione:
Se la norma fondamentale del discorso teorico è
Adeguazione descrittiva o rappresentativa - o verità,
La norma fondamentale del discorso pratico è
La consecuzione, realizzazione o soddisfazione dei
Desideri, bisogni e propositi umani.
Se ci sono ragioni reali (cause) per credere o agire,
È possibile sbagliarsi su di loro,
E se falliamo sulla verità
Possiamo ugualmente sbagliare nella soddisfazione.
(Bhaskar, 1978: 206)
* Prof. Univ. Federal di Rio de Janeiro, Brasile.
1 Incidentalmente, i poveri hanno sempre avuto propensioni disdicevoli. Non molto tempo fa, un Campione del Nobel (D.L. McFadden) ha scoperto che i neri hanno la curiosa propensione a prendere l’autobus. E ciò avviene nel Paese delle automobili... D’accordo con Varian, McFadden ha scoperto che “gli operai neri hanno una minore propensione a guidare e una più grande propensione a prendere l’autobus”. (Varian, 1994: 75).