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Lavoro contro capitale

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Lavoro contro Capitale - Precarietà, Sfruttamento, Delocalizzazione, a cura di Luciano Vasapollo, questo il titolo di un libro che ri-mette al centro il “conflitto” Capitale-Lavoro nel modello italiano e nella più ampia sfera globale ri-considerando in chiave storica economica e di prospettiva la “lotta di classe” nell’evoluzione del sistema produttivo e nella trasformazione che si è venuta affermando nella composizione di classe. Credo che sia, oggi più urgente che mai, indispensabile ripartire dal “Lavoro” e da come questo sia cambiato e di come sia necessaria l’analisi che questo libro affronta per una nuova “centralità” del lavoro contrapposta ad un imperialismo che ri-organizza la sua azione sulle ceneri e la frammentazione del movimento dei lavoratori con scarsa e difficile rappresentanza che fa fatica a cogliere l’evoluzione del sistema produttivo e le trasformazioni in atto con le conseguenze che ne derivano: nuove povertà; isolamento ed esclusione sociale. Il libro è strutturato sostanzialmente in due parti con prefazione del curatore e l’introduzione di Sergio Cararo che esamina il conflitto capitale-lavoro nella competizione globale. Viene affrontato subito il modello italiano sotto il profilo storico e sotto l’aspetto economico-sociale, come nella parte curata da Giorgio Gattei e Giampiero Betti dell’Università di Bologna che, dopo aver sottolineato il fallimento della globalizzazione liberista e l’inconcludenza del “movimento no-global”, verificano (auspicano?) una nuova stagione di conflitto, “quasi una ripresa della lotta di classe per usare una terminologia che - dicono - solo poco tempo fa si sarebbe giudicata desueta a seguito del preteso trionfo del ‘mondo unipolare’ e della ‘fine del lavoro’”. E sulla “fine del lavoro” - affrontato criticamente da Vasapollo e altri nei saggi successivi - teorizzata dai molti neo, vetero e pentiti intellettuali, ci sarebbe molto da dire o da ascoltare da quanti hanno soffocato non solo la propria “coscienza di classe” ma anche parte della loro dignità per poter continuare a farsi “sfruttare” in un mercato del lavoro selvaggio e in totale assenza di chi possa dare loro voce e rappresentanza. E sono proprio i sindacati, i sindacati confederali, i grandi assenti in questa lotta che forse solo loro non vedono o dicono di non vedere tra il lavoro ed il capitale. Sono assenti nelle prospettive suggerite con veemenza da Luciano Vasapollo che, richiamando Marx e le sue categorie, affronta la nuova fase dello scontro Capitale-Lavoro, che “...lungi dall’essere depotenziato, si presenta in tutta la sua carica dirompente ponendo in essere dinamiche di ricomposizione di classe... per rilanciare una nuova stagione del conflitto di classe”. Sono ancora assenti nelle analisi e, a volte - sempre più sovente - accomodanti nelle logiche concertative che autorizzano e stimolano il lavoro precario e il precariato in generale e indeboliscono, fiaccano, là dove esistono e resistono, i tentativi di ripresa di uno scontro sociale che, solo, può rimettere nel giusto alveo le differenze e i rapporti di classe. Come si comporteranno con la legge 30 e la possibilità - già esercitata peraltro - per gli Enti Locali di diventare intermediari di mano d’opera? E, ancora di più, cosa succederà e come si comporterà in futuro la CGIL - per parlare di un’organizzazione la cui componente maggioritaria è rappresentata da pensionati - se nel 2006 a vincere le elezioni dovesse essere il centro-sinistra di Prodi che dichiara apertamente la sua affinità con le idee economiche di Mario Monti, “indefettibile difensore del mercato e della concorrenza?”, come lo definisce Gianni Vattimo su La Stampa del 12/4/2005. Ci aspettano anni duri sotto questo aspetto, perché altre soluzioni per ora non se ne prospettano. Anni sicuramente diversi, almeno fino alla fine degli anni settanta, da quelli affrontati nella parte relativa alla “controversa relazione tra Stato e Lavoro nel corso del ‘900” che ripercorre le varie fasi che hanno caratterizzato il percorso del movimento dei lavoratori, dall’età giolittiana che rappresenta un punto di svolta imprescindibile nella storia sociale contemporanea, fino ai nostri giorni passando dalla grande guerra al fascismo, dalla ricostruzione all’autunno caldo fino alla sconfitta dei 35 giorni alla Fiat, “risultato inevitabile di tutto ciò che il movimento dei lavoratori aveva espresso nel decennio precedente, a partire dall’autunno caldo: della sua forza, ma anche dei suoi limiti, dell’incapacità di trasferire i diritti conquistati in fabbrica nella società, nei rapporti più generali tra le classi. La democrazia conquistata nelle relazioni industriali non era riuscita a diventare un fatto sociale e politico più generale; e quell’eccezionale spinta di massa non poteva protrarsi all’infinito nei luoghi di lavoro, senza scontrarsi con le compatibilità del sistema, con le esigenze di ristrutturazione delle imprese, con le resistenze di altri gruppi sociali. Una resa dei conti era inevitabile, ed era arrivata nel modo peggiore, lasciando amarezza e sconforto in migliaia di uomini e di donne che avevano sognato, cambiando l’ambiente in cui lavoravano, di poter cambiare il mondo intero. Restavano, è vero, i diritti conquistati sul lavoro e un sistema più moderno di relazioni industriali. Ma le passioni dell’autunno caldo e degli anni settanta erano ormai destinate a spegnersi, poco a poco. Il contributo di Vladimiro Giacchè fa la storia della borghesia italiana che chiama “La classe inadeguata” dal dopoguerra ad oggi, esaminando i vari passaggi storici, dall’Italia del miracolo (1948-1962) a “i ruggenti anni ottanta” (1980-1989) fino ad oggi, fino ad una “...gravissima crisi del capitalismo italiano... Una crisi che ci sta regalando, dal primo trimestre del 2001 ad oggi, ‘la più lunga fase di ristagno in mezzo secolo’. Ma che è cominciata, prosegue Giacchè, non appena gli effetti dell’ultima svalutazione competitiva, quella del 1995, hanno cominciato ad affievolirsi”. Dalla metà degli anni novanta, ci ricorda Giacchè citando i dati delle considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia del 31 maggio 2003, è iniziato un declino della competitività che ha riportato la partecipazione italiana agli scambi mondiali al livello raggiunto alla metà degli anni sessanta. A prezzi costanti, la quota di mercato è diminuita dal 4,5 per cento nel 1995 al 3,6 nel 2002. La perdita è diffusa in tutti i mercati. “Siamo al declino di un modello di specializzazione, di un modello dimensionale, in ultima analisi di un modello di capitalismo. È una situazione che può spingere l’Italia inesorabilmente ai margini dell’economia europea, relegandola ad un ruolo periferico nella divisione internazionale del lavoro. È il fallimento della borghesia italiana: tanto del drappello delle ‘grandi famiglie’ quanto dell’esercito dei piccoli”. “Perdenti nei confronti dei concorrenti mondiali, le famiglie delle grandi imprese si barricano all’interno della struttura societaria, fatta a scatole cinesi, mutandola da industriale a finanziaria. E il nanocapitalismo si focalizza sempre più sulla proprietà familiare a scapito dell’evoluzione verso strutture imprenditoriali incentrate su ricerca e sviluppo”.1 Notevole interesse suscita la “lettura della nuova composizione di classe dei lavoratori attraverso i dati ufficiali”, svolta nella prefazione da Luciano Vasapollo, dagli anni cinquanta in poi dalla quale si evidenzia come sia sostanzialmente cambiata la struttura occupazionale con l’emergere di impieghi atipici (contratti di formazione lavoro, borse di dottorato, apprendistato, piani d’inserimento professionale, contratti temporanei di anziani in possesso dei requisiti per il pensionamento, lavori socialmente utili e lavori di pubblica utilità, contratti atipici nella pubblica amministrazione...) e la formazione di una vasta schiera di “disoccupati invisibili”. È così che si giunge ad una fase in cui si stanno velocemente affacciando sulla scena economico-sociale nuove soggettualità, nuove povertà e quindi nuove figure da riaggregare in un progetto di ricomposizione e organizzazione del conflitto capitale-lavoro a partire da un’offensiva da parte dei lavoratori tutti in una nuova stagione di lotte di massa di un nuovo soggetto che altro non è che l’attuale modo di essere e di presentarsi del movimento operaio. È un programma politico quello di Vasapollo, una offensiva: “.... di qui l’urgenza di tornare a parlare delle condizioni reali dei lavoratori e non più in termini di “media statistica”. Riaprire, dunque, la questione salariale attraverso una nuova politica dei redditi che passi per la retribuzione completa a salari degli aumenti di produttività, per il ripristino dell’indicizzazione dei salari agli aumenti del costo della vita, quindi per incrementi reali del salario diretto, indiretto e differito con rilancio del sistema pensionistico pubblico, per una occupazione buona a pieno salario e pieni diritti per tutti i cittadini, per la riduzione dell’orario di lavoro, per uno Stato sociale di nuova cittadinanza con il riconoscimento immediato di un Reddito Sociale per disoccupati, precari, pensionati al minimo. Una nuova stagione di diritti del lavoro a partire dall’abolizione della legge 30 e quindi di ogni forma di lavoro precario, neo e sottopagato, per il rafforzamento e applicazione di pieni e larghi diritti per tutte le categorie di lavoratori, per una nuova politica fiscale a favore dei redditi più bassi e che colpisca i grandi capitali e le rendite finanziarie. Per una società del reddito per tutti e che restituisca dignità ai soggetti del lavoro e del lavoro negato”. La seconda parte del libro offre contributi preziosi, come quello di James Petras, che affronta le trasformazioni economiche e imperiali concentrandosi sul “nuovo imperialismo” che sta emergendo dagli Stati Uniti nel periodo post-Vietnam e post sovietico, sull’evoluzione della sua composizione di classe, sul suo modus operandi e sul suo impatto sul lavoro negli USA ed in America Latina. Le sue conclusioni, alle quali rinvio (pp.169/170) e le categorie usate che possono in molti casi sovrapporsi a quelle europee, indicano vie d’uscita, di ribellione alla “rapina e allo sfruttamento”: “... La chiave per l’avanzamento di questi movimenti (rimpiazzando, dice subito prima, la retorica antiglobalizzazione delle ONG e dei loro avvocati accademici) è il loro ricorso all’azione di massa, al blocco del trasporto delle merci e dei servizi e alla paralisi governativa”. E diffida: “Ogni volta che questi movimenti sono stati deviati entro l’alveo della politica elettorale come veicolo di azione primaria, essi hanno perso impeto e direzione politica”. Come non ricordare, leggendo queste parole, l’evoluzione del tormentato rapporto tra i “disobbedienti” e parte del PRC? Alle difficoltà del Brasile di Lula, alla continuità del neoliberismo, supersfruttamento del lavoro e nuova opposizione di classe, è dedicato il lavoro di Ricardo Antunes che precede Joseph Alevi (Stagnazione e Crisi USA, Asia Nippo America e Lima) e Suranjic Kumar Saha (La posizione dell’India nell’economia globale e la configurazione emergente nelle relazioni tra le classi dominanti e i lavoratori). I contributi di Guglielmo Carchedi e di Remy Herrera si concentrano sull’allargamento dell’Unione Europea e delle trasformazioni produttive in Francia e Germania. Concludono, nell’ultima parte del libro (Per una sintesi teorica del conflitto capitale-lavoro), Alessandro Mazzone dell’Università di Siena che sottolinea, se ve fosse ancora il bisogno, la rilevanza odierna delle principali categorie marxiane, Hose Jaffe (Plusvalore imperialista e super-sfruttamento) e la postfazione di Mauro Casadio, della Rete dei Comunisti, che affronta i “nodi gordiani della sinistra” sul lavoro e la (assenza della) sua rappresentanza sociale e politica e le relative conseguenze. Lavoro contro Capitale è un libro importante, per le analisi che svolge e per gli sforzi profusi per una interpretazione, questa sì globale per quanto possibile, che rimetta al centro della discussione politica e sindacale il lavoro e il non lavoro, per affrontare con strumenti nuovi e obiettivi nuovi (la ricomposizione delle classi e un nuovo welfare) la lotta continua contro il Capitale per l’affermazione dei diritti dei lavoratori e per la ripresa e la difesa della dignità di tutti i lavoratori e non. Sapranno cogliere i segnali e i suggerimenti di questo libro quanti, spesso con presunzione, pensano di rappresentare il lavoro e i lavoratori? Io spero di sì, perché mi raccontava un vecchio operaio torinese di mestiere della Fiat e Commissario di reparto dopo la Liberazione, Domenico Gallea: “Lavoratori, discutete fin che volete ma di fronte al padrone siate uniti, è questo l’unico modo per batterlo!” È un messaggio forte, di un operaio che di globalizzazione sapeva poco ma ha lottato tutta la vita contro il Capitale conoscendone le mortificazioni e la volontà di renderlo schiavo. Un piccolo grande uomo con una forte coscienza di classe e consapevole della propria forza, un comunista che ha lottato ed al quale, ne sono certo, questo libro sarebbe piaciuto perché gli avrebbe dato qualche strumento in più per continuare a combattere. Non lasciamolo solo.

Note

* Storico del movimento operaio.

1 Joseph Halevi, il Manifesto, martedì 20 aprile 2004, p.11