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STATO SOCIALE E TRANSIZIONE DIFFICILE

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Lavoratori migranti e postfordismo, tra sfruttamento e autoemancipazione

Raphael D’abdon

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1. Dallo Stato sociale al toyotismo sociale

Uno studio che si concentri sul ruolo svolto dai lavoratori migranti all’interno dei paesi a capitalismo avanzato ci permette di fare luce su alcune delle ragioni che spingono le imprese a sostenere le politiche che favoriscono l’immigrazione clandestina, ma anche di introdurre una riflessione più generale sulle dinamiche di conflitto tra capitale e lavoro tuttora in corso nell’attuale fase di ristrutturazione dell’economia mondiale comunemente definita “globalizzazione”. La globalizzazione altro non è che una nuova fase di ristrutturazione del capitale, ovvero un progetto politico-economico neoimperialista, basato sulla privatizzazione, la liberalizzazione e la deregolamentazione del mercato mondiale, fattori che hanno permesso ai paesi e ai gruppi capitalistici più avanzati di finanziarsi rilanciando un regime neocoloniale durissimo1 facente leva sul debito commerciale dei Paesi in Via di Sviluppo (PVS), e di imporre, tanto in tali poverissimi paesi che all’interno degli stessi paesi del ricco Nord del mondo, un modello politico-economico (ma soprattutto culturale) fondato sulla de-valorizzazione del lavoro, ovvero sulla costante ricerca dell’abbattimento del livello dei salari e della de-qualificazione della manodopera. Questa configurazione del mercato mondiale ha liberato tutte le spinte alla polarizzazione e alla disuguaglianza che erano state contenute a fatica nella precedente fase di ristrutturazione capitalistica caratterizzata dall’applicazione di politiche economico-sociali espansive di matrice keynesiana e da un generale consolidamento dei diritti del lavoro ottenuto grazie alla coriacea caparbietà delle lotte sindacali. La trasformazione del mercato del lavoro, la riorganizzazione della divisione internazionale del lavoro imposta dal capitale e la conseguente polarizzazione della ricchezza accumulata, sono fenomeni che si verificano non solo a livello internazionale, ma investono anche le strutture interne dei singoli Stati, grazie all’imposizione di ordinamenti giuridici orientati verso l’istituzionalizzazione di forme sempre più marcate di sfruttamento dei lavoratori. Per mantenere diritto l’asse del ragionamento sulla ristrutturazione del mercato del lavoro va sottolineato come l’attacco alle norme che tutelano i lavoratori faccia parte di un progetto politico facilmente percepibile ad ogni latitudine mirante ad eliminare il welfare e ridurre il lavoro e i lavoratori a una variabile dipendente del profitto delle imprese. All’interno di questo progetto politico di omogeneizzazione verso il basso degli standard lavorativi, uno degli ostacoli più ingombranti da rimuovere è certamente il sindacato. Secondo l’assioma neothatcheriano sul quale si basano tutte le “riforme” del mercato del lavoro nei paesi a capitalismo avanzato, i sindacati sono considerati elementi moralmente nocivi per i lavoratori, freni per lo sviluppo e per la competitività delle imprese, ovvero come istituzioni anacronistiche che, a causa delle loro richieste esorbitanti, rallentano la crescita economica. Il risultato di quest’opera di demolizione simbolica e materiale è che oggi il peso dei maggiori sindacati è stato drasticamente ridimensionato, la loro funzione di organi preposti alla tutela intransigente dei diritti dei lavoratori rimodellata e schiacciata sugli interessi particolari di alcune categorie, e la loro incidenza nei processi di trasformazione del mondo del lavoro che coinvolgono la vita di milioni di uomini e donne praticamente annullato. Il processo che sta portando all’estinzione del sindacato ha avuto origine alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti e conquistato prima il Regno Unito e poi via via tutti, o quasi, i paesi occidentali. Le politiche neoconservatrici reaganiane/tatcheriane hanno profondamente limitato il campo d’azione delle organizzazioni dei lavoratori, orientando il discorso politico sull’inesistenza di una socialità complessiva, abbandonando ogni prospettiva di sviluppo collettivo della comunità e spostando l’asse giuridico-normativo verso una progressiva individualizzazione e atomizzazione dei singoli cittadini-lavoratori. Ciò è stato reso possibile traducendo nella sfera giuridica logiche tipiche dei processi produttivi, ovvero riformulando la natura della forza lavoro che, con l’affermazione del thatcherismo, comincia ad essere trattata semplicemente come uno dei tanti fattori della produzione. Tutto ciò ha creato un (contro)senso comune, una (anti)cultura secondo cui la forza lavoro non è un’insieme di individui che con la loro azione materiale producono progresso e benessere per se stessi/e e per l’intera società, ma piuttosto uno strumento impersonale da inserire nei processi di ottimizzazione delle fasi produttive. Analizzando gli eventi degli ultimi trent’anni risulta evidente che l’indebolimento del sindacato ha avuto e sta avendo ricadute gravi sul quadro generale di sviluppo sociale delle nostre comunità. Il modello economico-commerciale neoliberista, che impone flessibilità e precariato permanente, si fonda infatti sul ridimensionamento della classe media e la creazione di una società sempre più bidimensionale, nella quale i costi sociali vengono scaricati esclusivamente su una vasta classe di lavoratori e sottolavoratori. La normalizzazione dei processi di decimazione dei salari e flessibilizzazione del mercato del lavoro procede, infatti, di pari passo con la creazione di una massa di manodopera precaria e sottopagata. Questo è il quadro teorico dentro il quale va inserita l’analisi sul ruolo della manodopera immigrata all’interno della riforma del mercato del lavoro nei paesi a capitalismo avanzato. Il continuo abbattimento dei costi che le imprese esigono per aumentare la propria competitività sul mercato internazionale si ripercuote sulle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, creando un clima di costante e spietata concorrenza al ribasso tra le aziende. Ed è all’interno di questa cornice che la manodopera immigrata diventa uno strumento indispensabile per permettere alle imprese di comprimere i costi e continuare imporre ai gruppi nazionali e/o locali di lavoratori condizioni sempre più restrittive e salari sempre più bassi. Gli immigrati, resi “clandestini” a causa di leggi studiate ad hoc per favorire unilateralmente le esigenze contingenti delle imprese, divengono quello che Marx chiamava un “esercito industriale di riserva”, una risorsa preziosa per le imprese poiché sottotutelata, sottopagata, sfruttabile e ricattabile. Nell’epoca della deregulation, delle maquilladoras e della disoccupazione endemica, le imprese si rivolgono alle fasce sociali più disagiate e vulnerabili e alle comunità più marginali, imponendo la logica moralmente irricevibile che accettare condizioni di lavoro degradanti è sempre meglio che non lavorare affatto. La de-valorizzazione del lavoro, infatti, danneggia principalmente le fasce sottospecializzate e sottopagate della manodopera, obbligate dalla mancanza di risorse ad accettare le condizioni di lavoro sempre più sfavorevoli imposte dal padronato. Questo è il principio della less eligibility2, grazie al quale le imprese possono utilizzare la manodopera immigrata come strumento per portare avanti l’attacco alle garanzie acquisite da tutti i lavoratori, immigrati e non. La manodopera che in senso ampio ed improprio viene definita “di colore” viene in altre parole usata come cinico strumento di pressione nei confronti di tutta la categoria dei lavoratori: essa funge da grimaldello per scardinare il sistema di diritti individuali e collettivi dei lavoratori, per vanificare le conquiste salariali acquisite grazie soprattutto alle lotte sindacali e civili combattute nel trentennio successivo al secondo dopoguerra, e imporre condizioni di lavoro e piattaforme contrattuali sempre più sfavorevoli anche ai lavoratori nativi. Leggi subdole come la “Bossi-Fini” (che, a detta di autorevoli giuristi, sono vere e proprie fucine di “clandestini”) vengono elaborate con il proposito di mettere a disposizione delle imprese una manodopera immigrata a bassissimo costo in quanto “clandestina” e di conseguenza non protetta, non sindacalizzabile, sfruttabile e ricattabile: non più persone, uomini e donne lavoratori e lavoratrici, ma non-persone3, mezzi di produzione di cui potersi servire quando è richiesto un aumento di produzione e di cui potersi sbarazzare quando il mercato ristagna. Un vero e proprio, diabolico, toyotismo sociale messo in atto da governi e imprese sulla pelle di soggetti-pilota utilizzati per sperimentare nuove forme di sfruttamento da normalizzare, generalizzare ed imporre in una fase successiva a tutta la classe lavoratrice. Il ridimensionamento del potere negoziale e contrattuale delle organizzazioni sindacali e l’applicazione di norme e pratiche contrattuali volte a indebolire la tutela dei lavoratori, come la cosiddetta “flessibilità in uscita”, vengono perciò dapprima “sperimentate” sulla pelle dei lavoratori migranti, che, come categoria, divengono, loro malgrado, “cavie da laboratorio”, soggetti prescelti per testare gli effetti delle norme su cui si basano le “riforme” del mercato del lavoro tuttora in corso nei paesi occidentali; non-persone, sulla vita delle quali si trastullano saccenti giuslavoristi, consulenti e lobbies che confezionano pacchetti di “riforme” ad uso e consumo di governi e imprese e, molto spesso anche degli stessi sindacati confederali, elaborando norme che, se ritenute efficaci e convenienti da parte appunto delle imprese, dei sindacati concertativi e dei governi neoliberisti, vengono poi estese all’intera classe dei lavoratori. È superfluo sottolineare come tali politiche generali di compressione dei meccanismi di protezione del lavoro e di generale abbattimento dello Stato sociale non favoriscano lo sviluppo di un mercato del lavoro stabile e non creino occupazione reale, ma al contrario contribuiscano ad espandere sacche d’illegalità fiscale annesse al lavoro nero, ad aumentare i pericoli d’infortunio sul lavoro e, in generale, a diminuire la qualità di vita dei lavoratori, privati di qualsiasi garanzia sia sul proprio futuro professionale ed economico, sia addirittura di certezze sulle garanzie d’incolumità fisica sul posto di lavoro. Tutto ciò crea precarietà e frammentarietà nell’intero tessuto sociale, rendendo sterili i diritti di cittadinanza e facendo regredire il livello di civiltà della società. Ma lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina non è solo un dramma sociale circoscritto ai processi produttivi interni ai settori industriali, dei servizi e dell’agricoltura dei paesi più ricchi: esso è anche la merce di scambio di un crescente e redditizio mercato neoschiavistico radicato e strutturato, operante su scala internazionale. L’espansione di questo mercato moltiplica il numero e le tipologie delle attività illegali necessarie a gestire e riprodurre la clandestinità e rafforza il potere delle organizzazioni criminali che sullo sfruttamento di tale mercato costruiscono le loro fortune4. Tutto ciò non può che produrre gravi conseguenze sociali nelle aree in cui il mercato della clandestinità è maggiormente radicato. Duole ammettere che lo sviluppo di ampie sacche d’immigrazione irregolare è spesso accompagnato da fenomeni di degrado delle comunità in cui maggiore è l’incidenza di tale forma d’“illegalità”. Questo degrado è in gran parte gestito dalle stesse istituzioni locali, le quali, al fine di attrarre finanziamenti esterni da parte delle imprese, fanno il possibile per favorire la presenza sul territorio di cospicue riserve di manodopera immigrata irregolare a bassissimo costo. Laddove questa gestione neoschiavista del territorio si consolida vengono messi in moto processi di deregolamentazione del mercato del lavoro, cui fa seguito una progressiva erosione dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori. Nel più potente dei poli egemonici dell’economia mondiale, gli Stati Uniti, questo modello di ingegneria socio-urbanistica si è affermato soprattutto grazie alle tipologie contrattuali e organizzative applicate dalla multinazionale Wal-Mart, caratterizzate dall’utilizzo di manodopera prevalentemente immigrata o appartenente alle comunità locali socialmente più disagiate (latinos, africani-americani), da salari magrissimi e dalla negazione sistematica del diritto di associazione sindacale. A tal proposito, per meglio comprendere i meccanismi che consentono ai lavoratori statunitensi di godere della giusta rappresentatività e tutela dei propri diritti, giova ricordare alcune peculiarità della prassi sindacale vigente in tale paese, per molti versi totalmente divergente rispetto a quella dei paesi europei. Innanzitutto, bisogna sottolineare come negli Stati Uniti iscriversi a un sindacato non sia un diritto individuale bensì collettivo, e che l’adesione al sindacato non sia una scelta libera, ma condizionata da alcune premesse ben precise: la prima premessa è che la maggioranza dei lavoratori della data impresa decida con un voto di sindacalizzarsi; la seconda, che la proprietà permetta la sindacalizzazione. Dopo che il primo passo è stato compiuto, è perciò necessario un conflitto durissimo perché possa realizzarsi il secondo, ovvero che la proprietà sancisca ufficialmente la legalità di manodopera sindacalizzata all’interno delle strutture dell’azienda. Questo percorso di legittimazione “ottriata” del sindacato è reso ancora più tortuoso dal fatto che all’azienda è lecito assumere crumiri mentre gli scioperi sono in corso.

2. Lavoro migrante e nuova classe operaia globale Numerose e brucianti sono le questioni che ruotano attorno al tema del “lavoro migrante”6 quali il caporalato, la difficoltà ad instaurare legami di solidarietà tra lavoratori in un mercato del lavoro precario e, non ultima, la “questione femminile”, oggetto di studio caratterizzato da dinamiche autonome rispetto alla migrazione maschile, dinamiche che vengono a galla soprattutto quando si rivolge lo sguardo su quel mercato del “lavoro” schiavistico e drammaticamente femminile che è il(i) mercato(i) della prostituzione di donne migranti, sulla quale esiste una letteratura piuttosto vasta7. Tuttavia, concentrare la propria (più che necessaria) critica solo sugli elementi di sfruttamento del lavoro migrante tende a ridurre pericolosamente la prospettiva analitica alla sola dimensione compassionevole ed, eventualmente, solidaristica dell’esperienza lavorativa degli immigrati, rischiando perciò di far propria, anche inconsapevolmente, la logica razzista che fa da sfondo alla retorica multiculturale occidentale e che molto spesso permea anche il mondo dei lavoratori e dei sindacati. Retorica che prevede, sì, l’accettazione di immigrati all’interno della comunità nazionale, ma sempre e comunque relegati in posizione subalterna rispetto ai cittadini/lavoratori-“standard” appartenenti alla comunità autoctona, a loro volta definiti in base ad arbitrari criteri etnico-culturali imposti dal potere egemone (bianco, maschio, cattolico, ecc.). Questa artefatta separazione tra cittadini e lavoratori migranti e nativi riproduce il ben noto schema colonialista del divide et impera, sempre utile al capitale per impedire una reale saldatura inter-etnica, inter-sessista e inter-classista tra lavoratori. Se si aspira alla costruzione e al rafforzamento di una classe lavoratrice interetnica, intergenerazionale, antagonista, autocosciente e coesa, occorre quindi spezzare quanto prima questa spirale perversa che separa e disgrega le forze, inibendo le potenzialità di rottura che stanno fermentando all’interno del nuovo movimento operaio locale e globale. Perché ciò avvenga è necessario innanzitutto rendere il giusto tributo al protagonismo e alle lotte di resistenza condotte in prima persona dai lavoratori e dalle lavoratrici immigrati: valorizzare, cioè, facendone proprio il contenuto, la funzione di assoluto protagonismo che i lavoratori immigrati stanno avendo8 (ed hanno storicamente sempre avuto9) nel rinnovare ed alimentare le forme di lotta in tutti i contesti nei quali questa lotta di resistenza prende corpo e si radica. Forme di lotta che molto spesso partono dall’auto-convocazione e dall’auto-organizzazione10, secondo schemi molto più affini al sindacalismo di base e alle lotte di resistenza popolari scaturite dalla rinnovata coscienza della nuova classe operaia globale del XXI secolo (quella che va da Melfi ai barrios argentini, dalle townships sudafricane11 alle campagne cinesi) che alle inconcludenti pratiche simboliche e/o concertative adottate dai sindacati confederali e dai movimenti no- o new global. Rivendicando la centralità dei lavoratori migranti nella lotta globale e locale contro lo sfruttamento e lo schiavismo neoimperialista, è possibile altresì mantenere vivo hic et nunc il “filo rosso” tracciato da Antunes, Petras e Veltmeyer, che collega l’Italia all’America Latina12 e agli altri molteplici scenari di resistenza sparsi per il pianeta, filo che unisce i lavoratori e le lavoratrici italiani ai lavoratori e alle lavoratrici provenienti da (o residenti in) paesi e continenti in lotta, soggetti che rappresentano, a mio avviso, le reali avanguardie della lotta di resistenza globale/locale in corso, e che stanno indicando a noialtri europei la strada da perseguire per contrastare in maniera efficace la globalizzazione neoliberista e i suoi metodi e discorsi imperialisti, neocolonialisti, schiavisti e guerrafondai.

Note

* Univ. di Udine.

1 Alcune parti del presente articolo sono riprese da: d’Abdon, R., “Presentazione di Bread and Roses di Ken Loach: less eligibility, manodopera immigrata e ristrutturazione del mercato del lavoro”, in Le Simplegadi, Rivista Internazionale On-line di Lingue e Letterature Moderne, Anno II/n.2, Ottobre 2004, disponibile sul sito: http://web.uniud.it/all/simplegadi/.

2 Per uno studio dettagliato sulle forme di dominio attualmente perpetrate dai paesi e dai poli economici imperialisti si veda: Vasapollo, L., Jaffe, H., Galarza, H. Introduzione alla Storia e alla Logica dell’Imperialismo, Jaca Book, Milano, 2005.

3 Principio introdotto nel Poor Law Amandment Act (promulgato in Inghilterra nel 1834). Citato in: Melossi, D., Stato, controllo sociale, devianza. Teorie criminologiche e società tra Europa e Stati Uniti, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2002, pp. 4-5.

4 Dal Lago, A., Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 2004 (edizione ampliata).

5 Sul degrado morale, umano, culturale dei territori nei quali predomina il mercato della criminalità legata allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina mi permetto di suggerire lo straordinario film dei fratelli Dardenne “La Promesse” (Belgio, 1997).

6 Un eccellente saggio sulle esperienze lavorative degli immigrati in Italia è: Raimondi, F., Ricciardi, M., (a cura di), Lavoro Migrante. Esperienza e prospettiva, DeriveApprodi, Roma, 2004.

7 Su trafficking e nuove schiavitù si veda, tra gli altri: Arlacchi, P., Schiavi. Il nuovo traffico di esseri umani, Rizzoli, Milano, 1999; Bales, K., I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia mondiale, Feltrinelli, Milano, 1999; Carchedi, F., I colori della notte. Migrazioni, sfruttamento sessuale, esperienze di intervento sociale, Franco Angeli, Milano, 2000; Monzini, P., Il mercato delle donne. Prostituzione, tratta e sfruttamento, Donzelli editore, Roma, 2002; Neirotti, M., Anime Schiave, Editori Riuniti, Roma, 2002.

8 Aboubakar Soumahoro, “RdB/CUB-Immigrati: lotte, organizzazione e prospettive”, in Proteo, n.1/2005, pp. 5-6.

9 Vedi, tra gli altri: Basso, P:, Perocco, F. (a cura di), Gli Immigrati in Europa. Disuguaglianze, razzismo, lotte, Franco Angeli, Milano, 2003; Gozzini, G. Le Migrazioni di ieri e di oggi, Mondatori, Milano, 2005.

10 Vedi lo sciopero dei lavoratori immigrati tenutosi a Vicenza nel 15 maggio 2002, oppure, ad esempio, la recente lotta delle lavoratrici nigeriane della Idealservice in provincia di Udine. Ma gli esempi potrebbero continuare.

11 Un prezioso documento sulle forme radicali di resistenza nel Sudafrica del nuovo apartheid economico è il saggio del sociologo Ashwin Desai, Noi Siamo i Poveri. Lotte comunitarie nel nuovo apartheid, DeriveApprodi, 2003.

12 Antunes, R., Petras, J., Veltmeyer, H., Lotte e Regimi in America Latina, Jaca Book, Milano, 2005.