Una generazione ritrovata, nel movimento di classe, contro lo Stato della disperazione
Ernesto Rascato
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1. Cultura e lotte
Spesso si ha l’uso, nel campo avverso il nostro, di sparare bordate o dar stilettate sugli anni e la generazione che avrebbero prodotto il “terrorismo” in Italia. Gli scriventi de La Stampa o de Il Corriere della Sera, non ultimi i benpensanti de La Repubblica, perdono un pò del loro tempo prezioso per dilettarsi a far da spalla ai colleghi che discettono sul terrorismo internazionale. Oggi questa categoria serve per le campagne sull’ordine pubblico, a sostenere le ragioni delle “guerre umanitarie”, ma parlarne è sempre ostico e comunque particolarmente difficile. Sparare sui pianisti colonne di piombo era una pratica di Montanelli fin da quando scriveva per il Corriere. Il suo parlare senza argini contro quella generazione, ormai scolarizzata, che metteva in discussione anche i padri, era quotidiana. Quella gente gli dava fastidio. Scelte sue. Il paladino della maggioranza silenziosa era coerente con il suo essere reazionario. Non avrebbe potuto mai accettare alcun aspetto creativo o positivo di quei movimenti sociali.
Si dice che le trasformazioni, rivoluzioni, purtroppo guerre e naturalmente lotte e resistenze, producano poeti, cultura e personale culturale. Proviamo a verificarlo con quella generazione maledetta che ha tante piccole storie ma non ancora una sua Storia.
Qualcuno dovrà pur scriverla un giorno.
Pavese, Fenoglio, Levi e Cassola e un’intera costellazione di scrittori e poeti fecero resoconto e romanzarono l’uscita dal fascismo dei nostri padri, la loro formazione di intellettuali, operai o contadini che vedevano crollare il mondo intorno a loro, consapevoli o non consapevoli, sconfitti, vincitori o indifferenti, che quel mondo dovevano ricostruirlo prima possibile per viverci meglio.
Pratolini, magistralmente, con Castellaneta e Scerbanenco più defilati, Marotta napoletano a Napoli, ma anche napoletano a Milano, usarono un occhio poco politico, ma realismo ben praticato sul dopoguerra lasciando degli spaccati di vita a cui ancora oggi si può attingere per comprendere la transizione degli anni ’50. Dobbiamo giungere a “Irati e sereni” di Francesco Leonetti, a “Le mosche del capitale” di Paolo Volponi, a “Come pesci nell’acqua inquinata” di Alfonso Natella a “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini, per trovare la sperimentazione politica, interni e non solo osservatori, questi autori, del movimento agli inizi degli anni ’70, per vedere cosa di nuovo scaturisse da quello stesso movimento, contraddittorio, creativo, profondo nei sentimenti, ma tanto vicino alla jacquerie, alla pulsione, ai liberi amori.
I figli culturali di Vittorini, che era entrato in polemica con il PCI di Togliatti, aperto il varco, ebbero la sponda delle edizioni Savelli con il didattico (molto nelle intenzioni) “Porci con le ali” della Lidia Ravera preceduto da “L’evasione impossibile” del granitico Sante Notarnicola e dal gentilissimo, ma parco rapinatore, che fu Horst Fantazzini in “Ormai è fatta, cronaca di un’evasione”. Con questi ultimi la letteratura alternativa rientrò nel carcere dopo il fascismo e, tragicamente, parte della generazione in discussione fece la conoscenza di una repressione sempre di classe, sempre più pesante, alzando sempre la voce sui mali del mondo, e scegliendo anche la via delle armi. Le carceri inghiottirono energie e intelligenze. Le madri, che avevano già accettato la trasformazione dei costumi dei propri figli, si ritrovarono a sperare nei pentimenti sulle strade imboccate. Lo scontro di classe generalizzato produceva le sue conseguenze e in campo letterario militante, esaurita l’ondata creativa con le edizioni l’Erba Voglio con “Boccalone”, del primo Benni con “Non siamo Stato noi”, pentimento fu. Molti furono i dubbi su chi fosse realmente l’estensore del libro “Io, Peci l’infame”. Fu il rigido ex colonnello della colonna Mara Cagol passato a placido collaboratore del generale Dalla Chiesa o un anonimo ufficiale dei Carabinieri a scriverlo? Diversi pentiti si trasformarono in amanuensi per uscire dal “carcere imperialista” aprendo una durissima fase in cui l’intelligenza craxiana governò anche in campo culturale accogliendo ex, contro e pro d’ogni razza, completando l’ambiguo rapporto con parte della galassia extraparlamentare. La generazione fastidiosa sembrava azzittita o quasi. Non si ricorda molto di quegli anni nei nostri circoli e negli ambiti rimasti militanti, ma una parte di quella stessa generazione in causa, incarcerata e disorientata, in fuga attraverso i sentieri delle Alpi, frustrata nei sogni o resistenti nella notte, alla ricerca di chi non aveva abbandonato, ha riaffermato dignità delle proprie scelte riassestando i pensieri e la propria pratica. Infierire per ben vent’anni su quel movimento, tentando di strappargli la memoria, il linguaggio e soprattutto la capacità di vedere con occhi diversi il mondo, le discriminazioni, le differenze di classe e altro è stato sforzo vano perché da tempo da quella generazione ritenuta sconfitta torna a dire la sua in molti campi, nelle lotte del movimento di classe, per rivedicare i diritti, per riaffermare e riqualificare lo Stato sociale. Le notti sono sembrate artiche per il movimento dei lavoratori, degli antagonisti e per i resistenti tutti.
2. Fare cultura per la trasformazione
La storia, usata a sostegno per le tesi di un mondo altro possibile, ci dice che cantori, poeti, osservatori e ricercatori della rivolta e della sovversione, hanno accumulato una massa di pensiero critico e lo stanno sottoponendo all’esame esterno. La loro produzione culturale esprime nuclei di volontà di cambiamento, confinata è vero, ma sempre più ampia, non più contenuta nel carcere-società e sempre più tesa a definire un’altra concezione del mondo, unica alternativa al pensiero unico del capitale. Attori, cineasti, intellettuali hanno ripreso una lettura politica tra la “gente”, categoria non ortodossa ma chiara di quell’insieme e segmenti di soggetti umani e comunità in cui sono state scomposte le classi sociali. Un considerevole numero di operatori-scrittori accumulano energie, sperimentano linguaggi, di nuovo da pionieri hanno costituito laboratori che hanno pulsioni e vivacità anche se non ancora una trama complessiva. Braucci, Erri De Luca, ancora Balestrini, Cacucci, Scanner, Ramondino, Carlotto assieme ad altri della generazione degli anni ’70 hanno ripreso una narrazione interrotta, il filo lasciato sospeso perché si aveva poco tempo per scrivere. Tra questi si colloca naturalmente Geraldina Colotti che, con linguaggio netto e immediato, realista, racconta il quotidiano di rifiuto e sopravvivenza dell’umanità precaria che sale alla ribalta solo con il suo tragico contributo di morti se no è sempre condannata all’oblio. Nei suoi bozzetti, raccolti nel suo ultimo lavoro “Certificato di esistenza in vita”, edito da Bompiani, con uno scritto fluido e dalla denuncia che trasuda senza scadere nell’ideologismo, con un’intensità di narrazione che speriamo venga letta senza inciampare nella pietà, Geraldina coglie, e non poteva non essere così, l’urgenza e l’emergenza di recupero della voce delle classi subalterne. Carcerati ed ex carcerati, immigrati, pensionati, diversi d’ogni genere, operai, militanti disillusi sono il mondo altro, un mondo dei vinti che ha bisogno di riscatto, di reddito, di servizi, di diritti di un rinnovato e più largo Stato sociale e come sempre necessita di suggestioni collettive possibili. I protagonisti dei suoi racconti urlano senza urlare, si ergono come denuncia senza nulla chiedere, pesano solo con la loro presenza, una presenza che denuncia lo Stato della disperazione. Una generazione che si ritrova nella quotidianità precaria ed emarginata, o meglio nelle lotte individuali ed organizzate contro la precarietà del vivere sociale, in una società in cui lo Stato sociale è considerato un incompatibile lusso. Geraldina rilegge, con la passione, con il bagaglio e il patrimonio di una generazione non più sconfitta, con gli occhi non più velati dalle lacrime ma asciutti della consapevolezza che tutte le motivazioni che spingevano anni fa a lottare sono le stesse che spingono a farlo ancora adesso con le forme e i modi necessari e adeguati a questa lunga fase di transizione. Quindi una generazione che si ritrova dove deve ritrovarsi, nelle lotte quotidiane di un nuovo movimento di classe, diffuso, segmentato, spesso non articolato e organizzato, ma che comunque continua ad esprimere tutta la sua carica sovversiva.
Note
* Ricercatore dell’Osservatorio Meridionale di CESTES-PROTEO.