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Convivere con l’occupante, pensare al futuro: Palestina subito!

GIOVANNI PERSICO

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In questo mio intervento cercherò di mettere a fuoco i problemi legati al futuro della Palestina alla luce della situazione attuale. La tesi che io sosterrò è che nel conflitto israelo/palestinese da parte israeliana non vi è mai stata alcuna intenzione di considerare i palestinesi come una controparte con cui trattare perché non vi è mai stata alcuna volontà di favorire la nascita di uno Stato palestinese: ciò che maggiormente stupisce è la continuità di un disegno che non ha avuto tentennamenti e sbavature, seguendo una sua logica che si è andata evidenziando per tappe successive. Io non ho previsioni sul futuro dei Territori occupati, ma tutto ciò che avverrà non potrà essere che la logica continuazione di una politica che durerà fin quando l’impero statunitense reggerà le sorti del mondo! Con la provocatoria passeggiata di Sharon sulla spianata della moschea, cha dà il via alla II Intifada palestinese, inizia l’ultima tappa del progetto israeliano le cui origini vanno rintracciate nel cuore del XIX secolo e si devono far risalire a Theodor Herzl, ideatore politico del sionismo (Sion è uno dei nomi biblici di Gerusalemme), che aveva come obiettivo la fondazione di uno stato ebraico che in primo tempo doveva nascere in Argentina o in Africa orientale: “...ci si dia la sovranità di un pezzo di superficie terrestre che basti per i giusti bisogni del nostro popolo e di tutto il resto ci occuperemo noi stessi” (Lo Stato ebraico, 1896) Durante il primo congresso sionista del 1897 si decise che il nuovo Stato sarebbe sorto in Palestina rifacendosi al libro del Genesi (15,18) dove è scritto: “Io do alla tua progenie questa terra, dal fiume d’Egitto, fino al gran fiume, il fiume Eufrate” e si rivendicava il diritto degli ebrei, popolo eletto, a uno Stato nazionale e, quindi, al possesso delle terre che furono da loro popolate prima della conquista di Gerusalemme da parte dei romani e prima della diaspora. La Grande Israele - Eretz Israel - dal Nilo all’Eufrate, sarebbe stata costruita attraverso la colonizzazione della Palestina in parte acquistando quanta più terra era possibile e in parte mettendo in fuga i palestinesi dalle loro terre con azioni terroristiche. E la scelta della Palestina come “Focolare nazionale ebraico” risolveva anche i problemi delle potenze imperialiste a cui stava a cuore il controllo del canale di Suez e degli sterminati giacimenti di petrolio dell’area. I sionisti a tavolino decisero di occupare una terra sulla quale gli arabi vivevano dal 634 e che avevano governato tranne brevi periodi (i crociati cristiani e i mongoli) fino al 1516 quando la Palestina, conquistata dai turchi, entrò a far parte dell’Impero Ottomano. Dopo la disfatta dell’Impero Ottomano cioè dopo la prima guerra mondiale Gran Bretagna e Francia dichiararono che la Palestina avrebbe avuto uno status internazionale, ma il 2 dicembre 1917, con la “Dichiarazione di Balfour” il governo inglese incoraggiava “la fondazione di una Madre Patria Ebraica in Palestina quando la popolazione totale della Palestina era di 700.000 unità: 574.000 musulmani, 74.000 cristiani e 56.000 ebrei. L’appoggio della Gran Bretagna fu determinante: venne nominato come primo alto commissario in Palestina un ebreo sionista, fu riconosciuta l’”Agenzia Ebraica” come l’organizzazione sionista mondiale che rappresentava gli interessi di tutti gli ebrei al mondo, si permetteva un’immigrazione sionista di massa, si ignorava la presenza di organizzazioni terroristiche (Irgun e Stern), si concedeva di amministrare autonomamente le scuole ebraiche e di mantenere una propria organizzazione militare. Le tappe successive di questa storia sono: I) fondazione dello Stato d’Israele e suo consolidamento; II) ampliamento del territorio israeliano; III) congelamento del problema palestinese e “riassetto” mediorientale. La prima fase, dal 1948 al 1956, è contrassegnata dalla proclamazione dello Stato di Israele (15 maggio 1948) e dal tentativo fallito della Lega araba, costituitasi nel 1947, di opporsi alla sua costituzione rifiutando, giustamente, la Risoluzione ONU 181 del 29 nov. 1947 che imponeva la costruzione in Palestina di due Stati uno israeliano e l’altro arabo con Gerusalemme dichiarata “Zona Internazionale”. Questa Risoluzione, assegnava agli ebrei il 56% di una terra della quale essi possedevano solo il 7%. La guerra significò distruzione di 418 villaggi arabi e l’esilio per centinaia di migliaia di palestinesi: la Risoluzione n. 194 dell’11 dic. 1948 sanciva, inutilmente, il diritto al ritorno dei palestinesi cacciati dalle loro terre. La seconda fase, dal 1956 al 2000, va dalla seconda guerra arabo-israeliana, alla ritirata dal Libano che Israele aveva invaso nel 1982. Il 1956 è l’anno in cui gli israeliani invadono la prima volta la Palestina dopo la nazionalizzazione, da parte di Nasser, del Canale di Suez: l’invasione si risolse in un nulla di fatto per l’opposizione di URSS, USA e quindi dell’ONU. Nel 1967 Israele invade per la seconda volta il Sinai e occupa la Cisgiordania, il Golan siriano e Gerusalemme che è dichiarata “indivisibile”: nel 1980 una legge stabilisce “Gerusalemme intera e unificata capitale di Israele”. In quell’anno inizia anche la fondazione di colonie ebraiche in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. Nel 1982 Israele lancia la guerra in Libano e occupa militarmente Beirut: questa occupazione, che rischia di diventare il “Vietnam israeliano”, finisce con il ritiro delle truppe israeliane nel 2000. In questa fase le risoluzioni ONU contro Israele sono state 65: Israele veniva condannata per gli attacchi in Siria, in Giordania, in Tunisia, in Libano. Si ingiungeva a Israele di ritirarsi dal Libano. Si dichiarava non valido l’atto di unificazione di Gerusalemme come capitale ebraica. Si imponeva di smettere di costruire insediamenti nei territori occupati! Si deplorava Israele per la non osservanza di deportare palestinesi. Si condannavano i massacri di Sabra e Chatila e quello nella moschea di Hebron e l’incendio della moschea di Al-Aqsa. Si deploravano le pratiche israeliane che negavano i diritti umani dei palestinesi. Nessuna di queste risoluzioni è stata rispettata, né tantomeno ci sono state ritorsioni nei riguardi di Israele, come è avvenuto per Cuba, per la Libia, per l’Iraq ecc. Nel 1989 la caduta del muro di Berlino e la fine dell’impero sovietico determina la ridefinizione degli assetti geopolitici, il ruolo egemone degli Stati Uniti d’America a livello globale e la definitiva frantumazione della Lega araba. La terza fase inizia nel settembre 2000 con la “passeggiata” di Sharon alla spianata della moschea e tocca il suo vertice il 18 giugno 2002 con l’inizio della costruzione di un muro che deve separare Israele dai Territori occupati. Il 7 ottobre, con l’astensione degli USA, il Consiglio di Sicurezza (Risoluzione 1322) “disapprova l’atto di provocazione commesso il 28 settembre 2000 ad Haram al-Sharif in Gerusalemme così come pure le violenze che hanno avuto luogo in seguito anche in altri luoghi santi” e ricorda a Israele la quarta Convenzione di Ginevra! Con il voto contrario degli USA fu approvata nell’ottobre 2003 una Risoluzione ONU che chiedeva a Israele di bloccare la costruzione del muro perché contraria alle leggi internazionali. Nel luglio 2004 è stata approvata una Risoluzione ONU (con voto contrario degli USA) che impone a Israele di abbattere il muro dopo che la Corte Internazionale di giustizia dell’Aja aveva giudicato illegale la costruzione del muro. Nel 2002 gli Stati Uniti si fanno promotori di una stabilizzazione dell’area invadendo l’Afganistan per assicurare alla giustizia globale Ben Laden imputato, senza alcuna prova, di essere l’ideatore dell’attacco dell’11 settembre alle Twin Towers. Nel 2003 Bush attacca l’Iraq per catturare Saddam e portare la “democrazia” nel Paese: Kofi Annan ha definito questa guerra illegale. Ogni fase di questa storia, ogni tappa è stata contraddistinta da stragi e massacri israeliani di indicibile violenza: qui noi riporteremo qualche esempio, tra i più eclatanti che è rimasto nella memoria collettiva come simbolo di barbarie. Di tantissimi altri se ne è perso il ricordo o sono state archiviati come azioni di guerra. I fase: le operazioni delle bande armate avevano come obiettivo il seminare terrore tra i palestinesi e indurli ad abbandonare le loro case e le loro terre. Una delle organizzazioni terroristiche più sanguinarie fu l’”Irgun e Stern”, capeggiata da Begin, al quale si deve il massacro degli abitanti del villaggio di Deir Yassin (9 aprile 1948). II fase: il 17 settembre 1982 Sharon, ministro della difesa israeliano, tacitamente acconsente a che i cristiani maroniti, nella Beirut occupata, compiano una strage a Sabra e Chatila, campo dei profughi palestinesi. Sharon è stato denunziato come criminale di guerra alla corte di Bruxelles. Il numero preciso dei morti resta un mistero: una stima per difetto li fa ascendere a circa 1800 persone. Uno “sporco lavoro” lo definì Jean Genet (“Quattro ore a Shatila”, Roma, Gamberetti 2001) che si trovava in quei giorni a Beirut. Egli scrive: “dal mio appartamento all’ottavo piano,con un binocolo, li ho visti arrivare in fila indiana: un’unica fila. Ero stupito che non succedesse niente: un buon fucile a cannocchiale li avrebbe dovuti abbattere tutti. Li precedeva la loro ferocia”. Genet visitò Sabra e Chatila appena dopo la strage: “Era una festa barbara quella che s’era tenuta qui: rabbia, ebbrezza, danze, canti, bestemmie, lamenti, gemiti, in onore degli spettatori che se la ridevano all’ultimo piano dell’ospedale di Acca”. E Genet conclude: “quando hanno interrotto le strade col telefono silenzioso, privo di ogni comunicazione con il resto del mondo, per la prima volta in vita mia mi sono sentito diventare palestinese e ho odiato Israele”. La III fase la “Seconda Intifada” (Sollevazione) al 30 marzo del 2004, è costata la vita a 2.936 palestinesi di cui 541 bambini al di sotto dei 17 anni e 189 donne. 87 palestinesi sono morti per mancanza di assistenza medica (tra questi 30 erano bambini e 20 neonati. 327 le esecuzioni extragiudiziali e tra questi il leader spirituale di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin (Fonte: The Palestine Monitor). “Quello che sta succedendo in Palestina è un crimine che possiamo considerare uguale a quello occorso ad Auschwitz e a Buchenwald. È lo stesso anche tenendo conto delle differenze di tempo e di luogo. Dal punto di vista dell’esercito israeliano Ramallah è un’enorme caserma e loro, i palestinesi sono i prigionieri acquartierati”. Sono queste parole di José Saramago (www.3.terra.com) che, nel marzo 2002, concludendo la sua intervista aggiungeva: “Questa è una forma perversa di apartheid”! Le dichiarazioni di Saramago non passarono senza commenti israeliani così come si dette gran risalto al fatto che Rifondazione comunista, il 4 aprile 2002, aprì una sua conferenza con un video che mostrava un bimbo che, in Palestina, invano protetto dal padre, era stato ucciso dall’esercito israeliano. A queste immagini seguivano quelle tratte dal film “Roma città aperta”, quando la Magnani viene centrata da un colpo di un mitra nazista. Così fu contestata una vignetta, che Forattini pubblicò nei giorni dell’assedio israeliano della Chiesa della Natività a Betlemme, nella quale era raffigurato Gesù Bambino nella mangiatoia che vedendo un carro armato esclama: “Non vorranno mica uccidermi un’altra volta”! Tutti questi episodi, che ponevano interrogativi, denotavano perplessità per il comportamento di Israele nei Territori occupati della Palestina, furono inclusi in una specie di ricerca sull’antisemitismo in Europa e catalogati come aggressioni verbali nei confronti di Israele. Questa è una “strana” inchiesta sull’antisemitismo in Europa fatta nel 2002 dal “Centro europeo per il monitoraggio del razzismo” nella quale, come ha ben evidenziato Peacelink (www.peacelink.org) mancano episodi ascrivibili all’antesimitismo, si confonde l’antisemitismo con la politica israeliana e non si citano gli atti di violenza di gruppi oltranzisti filo-israeliani nei confronti di esponenti politici impegnati nella solidarietà con il popolo palestinese. Lo scopo evidente di questa ricerca era quello di gettare discredito e sospetti sugli arabi, ma anche di ricattare/ricompattare la comunità ebraica europea internazionale ingigantendo oltre misura la presenza dell’eterno nemico antisemita e nello stesso momento giustificare i metodi nazisti in Palestina nei confronti dei palestinesi che, almeno dagli accordi di Oslo, sono alla ricerca di una pace che viene sistematicamente negata con l’avallo degli USA e di tutte le lobby israeliane del mondo. È nel 1988 che Arafat, in una conferenza tenuta a Ginevra, riconosce il diritto di Israele a esistere e a Oslo si impegnò a cancellare dalla Carta nazionale palestinese tutti quegli articoli che dichiaravano la volontà degli arabi di distruggere lo Stato d’Israele. Questa fase del conflitto ci parla dell’ipocrisia della ricerca della “via della pace” israeliana e ci chiarisce non solo che cosa rappresentano per Israele i tentativi degli accordi di pace, ma ci confermano ancora una volta le motivazioni per cui sistematicamente Israele ha eluso 73 Risoluzioni ONU. Israele forte del suo alleato americano ha mano libera nelle azioni più scellerate: Steven Zunes, docente di Scienze politiche all’Università di San Francisco, ha pubblicato su Haaretz (www.geocities.com), uno studio sulle Risoluzioni ONU disattese a livello mondiale e Israele è capolista seguita dalla Turchia e dal Marocco. Zunes conclude affermando: “Nella vasta maggioranza che ho esaminato i governi che violano le risoluzioni ONU sono quelli di Paesi che ricevono un significativo aiuto militare, diplomatico e finanziario dagli Stati Uniti”. E secondo una stima attendibile gli USA dal 1972 al 2002 hanno posto il loro veto più di cento volte a risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e di queste più di 30 erano contro Israele! Ma quali motivazioni dovrebbero spingere Israele a sedersi a un tavolo di trattative per decidere i tempi e i modi della costituzione di un Stato palestinese se può contare sull’apporto incondizionato degli USA? Perciò si chiariscono perfettamente i motivi che hanno fatto fallire gli “accordi” di Oslo nel 1993/4 e poi quelli di Gaza, di Wye Plantation, di Camp David nel luglio 2000, la cosiddetta “pace di mezzanotte” firmata a Sharm el-Sheik tra Barak, Arafat, Mubarak e la Albright, la “Road Map” e infine l’accordo fantasma sottoscritto a Ginevra nel 2003! Questi “accordi” però hanno svolto un ruolo importante in quanto hanno dimostrato all’opinione pubblica mondiale la volontà di pace di Israele e soprattutto sono serviti a diffamare quanto era possibile i palestinesi e tutto il popolo arabo. È questa la tesi di due studiosi francesi - Denis Sieffert e Joss Dray (La guerre israélienne de l’information, Paris XIII, Ed. La Découverte 2002) - che hanno analizzato gli strumenti di propaganda israeliana, le tecniche di disinformazione, di camuffamento della realtà, di delegittimazione dell’avversario. Essi hanno analizzato il sistema di controffensiva mediatica israeliana a partire da Camp David, da quel falso tentativo di accordo che fu voluto da Clinton nel luglio 2000 e che vide Arafat e Barak discutere sul niente, su un inesistente testo d’accordo, su una proposta israeliana che proponeva una divisione, inaccettabile per Arafat, della Cisgiordania in tre parti. A colloqui terminati un consigliere di Barak, diventato poi ministro, Shomo Ben-Ami cominciò a tratteggiare la fisionomia di Arafat a Camp David come uomo pieno di paura e incapace di prendere decisioni. Per Shomo Ben-Ami, Arafat aveva un unico obiettivo: distruggere Israele perché non c’era altra spiegazione al rifiuto di “offerte vantaggiose” con l’avallo degli Stati Uniti! Per i due studiosi francesi, nel tempo la figura di Arafat si è andata connotando di altri aspetti come quando fu tenuto prigioniero a Ramallah: qui Arafat era colui il quale andava orchestrando gli attentati, ma era anche il capo umiliato al quale non restavano che due alternative, l’esilio o la morte. E noi ci chiediamo, provocatoriamente, quando Israele pensa di porre fine a una situazione che viola la II Convenzione di Ginevra (distruggere o impadronirsi di proprietà dei Territori occupati) e la Convenzione Internazionale per la punizione e soppressione del crimine dell’Apartheid (1976) e se sarà mai nei suoi propositi rendere esecutiva la risoluzione 242 del 22 novembre 1967 del Consiglio di Sicurezza ONU (che impone il ritiro dai territori occupati nel 1967 (“recente conflitto”) e il riconoscimento di confini liberi da pericoli o atti di forza. Nei fatti nel 2000 Israele ha continuato a perseguire con ferocia, fermezza e determinazione il proprio progetto scellerato nei confronti dei palestinesi e questa considerazione non nasce da “considerazioni antisemite”, ma è ben visibile dalle condizioni di vita oggi dei palestinesi. La verità è che dall’inizio della II Intifada i palestinesi vivono una vera catastrofe umanitaria che non lascia alcun dubbio sulle reali intenzioni degli occupanti: Israele sta mettendo in atto un disegno criminoso e ha imboccato una strada del non ritorno per il problema palestinese. Quello che gli israeliani stanno facendo nei Territori si può così sintetizzare: a) sottrazione terra, b) distruzione di case, c) costruzione di un muro per ridefinire i confini di Israele e mettere fuori gioco città e villaggi palestinesi, d) annientamento di qualsiasi forma di attività agricola e imprenditoriale, e) stop a ogni attività didattica e di formazione professionale, f) tentativo di ridurre alla fame e alla disperazione un intero popolo, g) annullamento di qualsiasi forma di contestazione attraverso l’eliminazione fisica di quanti sono ritenuti avversari di Israele (la tecnica degli omicidi mirati). Gli insediamenti dei coloni nei Territori Occupati ascendono a 250 nella West Bank e nella Striscia di Gaza: dal 2000 ad oggi ne sono stati costruiti 25 nella West bank e 15 nella Striscia di Gaza. Questi insediamenti sono “armi” contro i palestinesi in quanto significano sottrazione di terra, minore acqua, che è lì un bene di inestimabile valore, truppe militari e isolamento dei villaggi palestinesi attraverso la costruzione di strade “by pass”, cioè strade per i soli coloni, interdette ai palestinesi. Jean Ziegler, osservatore speciale dell’ONU sui diritti all’alimentazione, parla di “bantustanizzazione” della regione (www.righttofood.org): i “bantustan” erano le aree assegnate ai neri dell’apartheid nel Sud Africa. A partire dalla II Intifada Israele ha creato 120 ceckpoint, blocchi e barriere stradali che rendono estremamente difficile la mobilità dei palestinesi sia nei Territori Occupati che tra questi e Israele. Ma la strategia israeliana si è meglio definita il 18 giugno 2002 quando si è anche dato inizio ufficialmente alla costruzione di un muro che deve separare i Territori occupati da Israele e che non segue la Green Line e penetra nel territorio palestinese per 6 Km e isola città e villaggi. Il muro è una costruzione in cemento armato e prevede un fossato largo 25 metri con filo spinato, recinzioni elettrificate, torri di controllo, torrette per cecchini e strade per il pattugliamento. Il muro ha sottratto 107 Kmq di terra ai palestinesi e si prevede che, ad opera conclusa, il 43% della Cisgiordania sarà acquisita da Israele e il restante 57% ridotto in ghetti. Il muro ha significato la distruzione di case per 19.000 palestinesi e per Jean Ziegler dal sett. 2000 a marzo 2003 la distruzione di 2 milioni e mezzo di ulivi, di 1 milione di alberi da frutta, 806 pozzi e 296 magazzini agricoli. Nel 2002 delle 250 mila tonnellate di olio prodotti nei Territori occupati è stato possibile venderne solo 200 a causa delle restrizioni: questo significa l’eliminazione di una delle maggiori fonti di guadagno per i palestinesi. Ma la pax israeliana va oltre anche le devastazioni mirate e le espropriazioni per ragioni militari delle terre coltivabili e si concretizza nel furto dell’acqua. Il 90% dell’acqua della Cisgiordania è utilizzata da Israele: a ogni palestinese è consentito un uso dell’acqua di 83 metri cubi annuo, rispetto ai 333 per gli israeliani e ai 1450 per ogni colono. A questo va aggiunto il divieto di scavare pozzi o di irrigare in alcune ore del giorno. Così è anche per l’elettricità: da sempre Israele ha collegato tutta l’elettricità palestinese alla rete israeliana per cui ogni palestinese deve pagare il proprio consumo a Israele e quindi sottostare a ogni ricatto possibile! La Banca Mondiale ha calcolato in 210 milioni di dollari i danni all’agricoltura e in 140 milioni di dollari alle infrastrutture dell’acqua dall’inizio della II Intifada. Ma i danni vanno ben oltre perché la dipendenza dei palestinesi da Israele, che è il loro principale partner commerciale, è quasi totale per cui la diminuzione del subappalto ha creato problemi enormi così come la chiusura imprevedibile delle frontiere ha messo in crisi l’esportazione dei prodotti agricoli oltre che di materiali da costruzione e prodotti tessili e di abbigliamento soprattutto da Gaza. Per questo la produzione palestinese è passata da 870 milioni di dollari del 1999 a 280 milioni nel 2002, con un deficit annuo di 1.6 miliardi di dollari. Dal 2000 in poi non è più possibile parlare di strangolamento dell’economia palestinese, ma di sua decapitazione perché al quadro sopra delineato occorre anche aggiungere le restrizioni per il movimento dei palestinesi che lavorano in Israele che oggi raggiungono 120 mila unità rispetto ai 200 prima della II Intifada. A dicembre del 2003 la disoccupazione nei Territori raggiungeva mediamente il 50% della popolazione. Ed è di questo mese di giugno 2004 la notizia che la zona industriale di Erez tra Gaza e Israele verrà chiusa e che un centinaio di aziende saranno smantellate e reinstallate al Sud di Israele: queste aziende impiegavano circa 5.000 operai palestinesi. Secondo dati della Banca Mondiale al 2002, dopo due anni d’Intifada, la povertà ha raggiunto il 50% della popolazione: due milioni di palestinesi vivono con meno di 2 dollari al giorno mentre nel 2000 i poveri erano 637 mila. Secondo Jean Ziegler dall’inizio dell’Intifada la percentuale di bambini denutriti è passata da 7.6% al 9.3%. C’è da aggiungere che tra il 2000 e il 2002 i prezzi al consumo sono aumentati dell’11% soprattutto per il costo dei trasporti cresciuti del 42%: le conseguenze sono state più devastanti soprattutto per Gaza, dove la povertà è maggiore. A questi danni, per molti aspetti irreversibili, ci sono da aggiungere quelli in tema di servizi: i dati più sconfortanti sono quelli relativi alla sanità dove una comparazione tra un solo ospedale di Tel Aviv e la struttura ospedaliera della Cisgiordania mette in evidenza come in Cisgiordania ci sono 942 posti letto (rispetto ai 280 di Tel Aviv), 76 medici (rispetto ai 101 di Tel Aviv) e 265 infermieri (rispetto ai 269 di Tel Aviv). Nel computo di queste sperequazioni non elencheremo le centinaia e migliaia di volte che le ambulanze palestinesi sono state bloccate ai chekpoint o che i medici palestinesi sono stati aggrediti, umiliati o impediti di recarsi negli ospedali. Ma le conseguenze ancora più gravi per il futuro della Palestina sono quelle legate all’istruzione e alla chiusura delle scuole: nel 2002 è stata registrata la chiusura di 850 scuole: 8 sono state trasformate in caserme, 11 distrutte, 9 vandalizzate e 15 trasformate in carceri. Ma oltre le scuole bombardate o requisite occorre ricordare le centinaia di studenti, professori e uomini di cultura feriti, assaliti, imprigionati o uccisi. Questo significa non solo deficit di capitale umano, ma anche una perdita di quella identità palestinese che è l’amalgama forte di un popolo che sta lottando disperatamente per non morire. Del conflitto israelo/palestinese si parla in un documento ormai famoso che è quello intitolato “Strategia per la sicurezza nazionale”, stilato dagli USA e sottoscritto da Bush nel 2002: è il documento in cui si parla di terrorismo e di guerra preventiva. Questo documento, affermando il punto di vista israeliano sul conflitto, rispecchia il livello di complicità tra Stati Uniti e Israele: gli USA si dicono pronti a sostenere la creazione di uno Stato palestinese “se i palestinesi abbracceranno la democrazia e il diritto, se non batteranno la corruzione e rifiuteranno fermamente il terrorismo”. Cioè se accetteranno di lasciarsi murare vivi nei loro “bantustan”! E qui mi piace ricordare quanto Kofi Annan, segretario generale dell’ONU, affermò nel 2001 a Durban, in Sud Africa, durante un Forum contro il razzismo: “Nessuno può domandare ai Palestinesi di accettare che le ingiustizie delle quali essi sono vittime - deportazione, occupazione, blocco dei loro territori, esecuzioni extragiudiziarie - siano ignorate per la causa”. D’altra parte il documento di Bush rimarrebbe incomprensibile se noi non sapessimo che lo staff dirigenziale americano in materia di strategia militare, il Pentagono, è formato da gente che si chiama Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Richard Perle e Douglas Feith che un analista cubano Brown Infante (“L’Europa vista dai Sud” Milano, Jaca Book 2004) chiama “furibondi sionisti”. Sembra quasi superfluo ricordare che Feith lavorò nel 1996 con Netanyahu; Perle, ha la cittadinanza israeliana ed è membro di un’organizzazione pro israeliana “Foundation for Defense of Democracy”; Wolfovitz propugna l’intervento in Siria e Libano e creò con Feith l”Office of special plans” dove lavorò anche Chalabi, che abbiamo rivisto all’opera in Iraq. E a proposito dell’Iraq non dobbiamo dimenticare che a tutt’oggi non abbiamo motivazioni credibili sull’invasione angloamericana se non vogliamo credere alla necessità di portare in quel Paese la “democrazia” di stampo americana: Saddam non aveva armi di distruzione di massa e non aveva alcun rapporto con al Qaeda, secondo il parere della Commissione indipendente USA che si occupa dei “misteriosi” fatti dell’11 settembre. E quindi le opzioni per l’aggressione all’Iraq non sono più di tante: petrolio e gli interessi di Israele nell’area. Quegli stessi interessi che hanno fatto considerare, dal 1948, Israele una “risorsa strategica”, che fanno da sempre chiudere gli occhi agli USA sulla sua politica in Palestina e spingono a definire la Siria, il Libano e l’Iran “Stati canaglia”. Il cerchio sembra chiudersi: le due opzioni non sono contraddittorie, ma si integrano perfettamente e sul piano speculativo fanno una sola cosa con la posizione israeliana sul conflitto con gli arabi e sul pericolo del fondamentalismo orientale. Quello che è in pericolo non è la civiltà occidentale, ma il concetto di tolleranza, di diritto e di armonia tra i popoli. In sintesi, oggi a vincere è ciò che Chomsky (www.zhora.it) chiama la “Regola dalla forza”, le regole dettate da USA e Israele: i palestinesi in questa logica diventano per Chomsky “rifiuti umani e scarto della società” e in questa direzione sta andando e andrà buona parte del mondo, “se ai padroni viene permesso di progettare un ordine mondiale in cui, secondo l’affermazione di George Bush “What We Say Goes”, “si fa quello che diciamo noi”. E Haidar Abd el Shafi, che guidò la delegazione palestinese alla conferenza di Madrid nel 1991 ha di recente affermato: “Il dramma di questa regione è che, dopo un secolo, tutto si fa con la forza e niente con il diritto”. E quindi non desta meraviglia se da un sondaggio UE è emerso che Israele è il Paese che più degli altri è una minaccia alla pace. Tra l’8 e il 16 ottobre del 2003, il “Flash Eurobarometre 151” (www.primo-europe.org), un centro di ricerca a livello europeo ha condotto una survey telefonica tra i 15 paesi dell’Unione Europea dal titolo: “Iraq e la pace nel mondo”, per conto della Commissione europea - Direzione generale stampa e comunicazione. Il questionario, somministrato a un campione casuale di 500 persone per ciascun Paese dell’Unione, prevedeva 11 domande con risposte multiple. La decima domanda era così formulata: “Dire quale dei Paesi elencati presenta o no, a vostro giudizio, una minaccia alla pace”. Erano elencati i nomi di 15 paesi. Il 59% degli intervistati ha risposto che lo Stato che oggi rappresenta la maggiore minaccia alla pace è ISRAELE! Seguono l’Iran (53%), la Corea del Nord (53%), gli USA (53%). Il Paese che ha maggiormente concorso a definire Israele il paese più pericoloso è l’Olanda con il 74% e ultimo l’Italia con il 48%, mentre i greci hanno per la maggior parte, 88%, indicato gli USA come pericoloso, rispetto al 43% degli italiani. Possiamo solo aggiungere che il 66% del campione aveva un istruzione di alto livello e per il 59% un’età compresa tra il 16 e i 20 anni. Saramago ha ragione! Il XX secolo è stato tragicamente segnato dalla barbarie nazista e forse mai e nessuno potrà cancellare il ricordo di Dachau e Auschwitz, delle camere a gas e delle atrocità di un periodo scellerato della storia dell’umanità. Il XXI secolo riaccende drammaticamente quel ricordo a Gaza, a Nablus, a Jenin, a Betlemme, a Ramallah. Il XXI secolo si apre anche con l’invasione dell’Afganistan e dell’Iraq, con scene di sopraffazione, di distruzione e di morte a Kabul e a Bagdad come in Palestina! Il XXI secolo sembra prolungare quella strada della “distruzione della ragione” che portò a Hitler, a Franco e a Mussolini! Se una banda di fanatici si sta impadronendo del mondo noi dovremo contrastarli opponendo alla loro violenza la nostra ragione. Noi oggi sappiamo che milioni e milioni di persone che hanno cercato, in tutto il mondo, di impedire l’invasione dell’Iraq, hanno fallito e che gli obiettivi della guerra di aggressione all’Iraq sono stati raggiunti: caos, frantumazione, destabilizzazione. Ma è da quella sconfitta che occorre ripartire per contrastare il consolidamento di un potere basato sulla violenza: occorre allora denunziare e attivarsi per contrastare i loro progetti! Per quanto riguarda Israele noi sappiamo che i suoi obiettivi attuali sono quelli di estendere il proprio potere in Medio Oriente e consolidare i propri rapporti con l’Unione Europea. Occorre in tal senso cominciare a porre la questione come problema culturale, politico e di civiltà contro la barbarie perché non si attui il progetto israeliano di annettersi come Paese membro dell’Unione Europea, come è stato prospettato nel 2003 da Berlusconi e Pannella dietro suggerimento di Sharon. Così occorre continuare a mobilitarsi, sempre a livello europeo, perché a Israele vengano soppressi i vantaggi doganali accordatigli dall’UE se continua a smerciare per prodotti israeliani ciò che è prodotto nei settlements ebraici nei Territori Occupati. E se non rispetta l’art. 2 dell’associazione che richiede il “rispetto dei diritti umani e dei principi democratici”. Uguale discorso per gli accordi di cooperazione scientifica tra Israele e Unione Europea: Israele è infatti l’unico Stato non europeo i cui ricercatori godono dei finanziamenti del “Programma europeo di ricerca, di sviluppo tecnico e di dimostrazione”. Ma l’obiettivo principale che dovremmo darci è quello del boicottaggio dei prodotti israeliani in Europa sull’esempio dei risultati dei boicottaggi della Nike e della Shell. Il discorso è complicato perché da una parte occorre analizzare il momento di grande crisi dell’economia israeliana e i prodotti o il prodotto su cui poter far leva per provocare il maggior danno possibile. Dare corpo e testa a un’organizzazione che metta insieme gruppi e associazioni che già da anni parlano del boicottaggio dei prodotti israeliani e che già hanno ottenuto risultati incoraggianti per esempio per quanto riguarda i pompelmi di Jaffa o i prodotti con il marchio Carmel.

P.S. Della morte “misteriosa” di Arafat taccio! E non parlerò neanche della decisione unilaterale di Israele di smantellare gli insediamenti ebraici a Gaza. Mi limiterò solo a precisare che il piano che ha avuto l’approvazione di Bush, ha visto compattarsi nella Knesset, la destra e la sinistra israeliana, il Likud con i laburisti di Shimon Peres e il Partito ortodosso “Fronte della Torah”. Dov Weisglass, stretto collaboratore di Sharon, intervistato da Haaretz, ha dichiarato che il piano è stato concepito “per mettere il processo di pace in formalina”. Ed ha aggiunto: “ci si ritira da Gaza per riuscire a non ritirarsi dalla Cisgiordania: di altri insediamenti si potrà parlare una volta che i palestinesi si saranno trasformati in finlandesi”!

Questo scritto è la rielaborazione di un intervento fatto il 18 giugno nell’Aula Matteo Ripa dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli al Convegno internazionale: “Medio Oriente... tra vecchie e nuove proposte, tra diritti violati e negati, quali le reali strategie di pace da adottare”.

Note

* Prof. Fac. di Sociologia, Univ. Federico II di Napoli.