Proposte di dibattito sui processi di trasformazione dell’economia e della società
Luciano Vasapollo
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Di seguito si presentano alcune considerazioni che, riferendosi
ad altri recenti interventi tenuti in occasioni diverse2, possono contribuire
a sollecitare e meglio indirizzare la riflessione scientifica in ordine ai problemi
politico-economici e la relativa proposta di dibattito, a partire dall’analisi
delle trasformazioni in atto dell’economia e della società nel suo complesso
e da una lettura attenta delle dinamiche evolutive del modello di capitalismo
italiano. Su queste tematiche il Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali,
(CESTES-PROTEO), è disponibile ed invita al confronto, anche attraverso
le pagine di questa rivista, le associazioni di base presenti nel territorio,
le organizzazioni dei lavoratori, i comitati di quartiere, gli studiosi, le
associazioni culturali, i centri studi e tutti coloro che vogliono esprimere
un punto di vista non conforme alle ipotesi del neo-consociativismo liberista.
1. Globalizzazione e finanziarizzazione
È ormai entrato nell’uso corrente del linguaggio economico,
e non, il termine “globalizzazione” come segno irrinunciabile della tendenza
del liberismo economico ad essere l’unico modello di sviluppo che la storia
non riuscirà a contraddire e a superare.
I risultati macroeconomici evidenziati in questi ultimi anni,
accompagnati da vere e proprie tragedie etnico-nazionali causate dalla nuova
redifinizione e spartizione dei territori in funzione degli equilibri di potenza
e delle necessità del capitalismo internazionale, hanno cominciato a mettere
in discussione in maniera chiara e definitiva quello che si configurava come
un vero e proprio dogma socio-economico, inconfutabile, basato su un modello
di sviluppo non compatibile né in termini sociali né in termini ambientali.
È all’interno di tale logica complessiva della globalizzazione
del modello capitalistico che si deve anche leggere la scelta, che sembra ormai
irreversibile, tra investimenti produttivi nell’economia reale e processi di
investimento ad esclusivo connotato finanziario speculativo. Si va infatti sempre
più affermando una divaricazione tra andamento dell’economia reale, con i connessi
processi politico economico-sociali da una parte, e scelte di finanziarizzazione
dell’economia dall’altra. Modelli decisori liberisti quest’ultimi che puntano
su investimenti finanziari scollegati dall’evoluzione dei processi produttivi
reali e che seguono esclusivamente una logica speculativa attuando percorsi
all’interno di dinamiche staccate, anzi spesso contrapposte, al quadro economico
politico generale, perseguendo semplicemente la loro logica interna della massimizzazione
dei profitti complessivi, attraverso incrementi di dividendi, interessi e capital
gain.
Quando tutto è demandato ad una cieca fiducia nelle leggi di
mercato, senza meccanismi di controllo che sappiano o possano salvaguardare
l’interesse sociale collettivo accade normalmente che i buoni andamenti borsistici,
i profitti finanziari, creino le condizioni di contrazione degli investimenti
produttivi, percorsi negativi dell’economia reale, provocando così alta disoccupazione
strutturale e incremento dei costi sociali in genere.
È in tale contesto di “bolla finanziaria” che si continuano
a realizzare profitti senza fatica, creando rendite finanziarie e di posizione
che, se per l’economia del Paese si traducono in una illusione di ricchezza
distruggendo efficienza, competitività e disarticolando i meccanismi del tessuto
produttivo, nel contempo diventano non solo fonti di ricchezza facile per gli
investitori, ma elementi reddituali e patrimoniali a bassa tassazione, se non
addirittura molto spesso fonte stessa di completa evasione ed elusione fiscale.
E l’Italia è un terreno fertile per la speculazione internazionale finanziaria,
favorita da una Borsa giovane, asfittica, instabile, dove i nuovi mercenari
del capitalismo finanziario trovano conveniente rincorrere l’illusione della
ricchezza cartacea, la rendita finanziaria.
Se ci si attiene alle impostazioni dottrinali risulta che il
sistema economico debba essere strettamente connesso al sistema finanziario
e, di conseguenza, i mercati dei capitali non dovrebbero avere una vita autonoma
separata dal contesto generale economico-sociale, in quanto costituiscono nelle
dinamiche dello sviluppo capitalistico una sorta di termometro della credibilità
e del grado di efficienza dei sistemi-paese e del sistema capitalistico internazionale
nel suo complesso.
Se si osserva quanto quotidianamente avviene nella realtà dei
mercati si ha l’immediata consapevolezza che ancora una volta gli schemi della
dottrina più comuni sono smentiti. Le leggi del capitalismo non hanno una morale;
gli investimenti finanziari seguono percorsi speculativi con dinamiche proprie
che esulano dal quadro economico-politico, rincorrendo la maggiore remunerazione
e la legge ferrea dei profitti a tutti i costi, indebolendo l’economia reale.
Non esiste una motivazione scientifica sull’andamento degli investimenti finanziari;
tutto è demandato ad una cieca fiducia nelle leggi di mercato, meccanismi che
puntano esclusivamente alle migliori condizioni di redditività, provocando alti
costi sociali.
Molto spesso si assiste a forti divaricazioni tra andamento
dell’economia reale e dimensione del mercato dei capitali; basti pensare che
in Inghilterra dove si ha il più alto tasso di capitalizzazione borsistica si
realizzano dati sconfortanti per l’economia reale e, viceversa, la Germania,
che evidenzia una forte egemonia economica sicuramente a livello continentale,
realizza invece scarsissimi risultati in termini di sviluppo del mercato borsistico.
Da ciò si deduce che non necessariamente una forte capitalizzazione
della Borsa assicura un efficiente e forte sviluppo dell’economia reale; cioè
frequentemente la “bisca finanziaria” elargisce premi a quelle imprese
capaci di tagliare l’occupazione, di diminuire i salari reali distribuiti ai
lavoratori, di incrementare al massimo la flessibilità e la mobilità dei lavoratori
e della loro retribuzione.
Siamo, quindi, in un contesto di capitalismo soprattutto a
connotati finanziari, un capitalismo, senza leggi, spesso anzi fuori legge capace
di giustificare tutto con le ipotetiche, illusorie capacità di autoregolamentazione
del mercato.
Con la finanziarizzazione dell’economia, esplosa già al tempo
delle crisi energetiche degli anni ’70, il capitalismo internazionale si è posto
in un contesto di mutazione con carattere sempre più degenerativo, nell’illusione
che l’aumento dei mezzi di pagamento cartacei ed elettronici possa essere in
grado di creare ricchezza reale.
Basta considerare, ad esempio, l’andamento dei mercati
finanziari in quest’ultimo mese. Già da oltre un anno si profilava
all’orizzonte dei mercati asiatici il gonfiarsi di una gigantesca bolla finanziaria
speculativa, che si configurava nella forte sopravvalutazione dei titoli. Conseguentemente
i capitali hanno cominciato ad abbandonare la tigre asiatica per riversarsi
negli Stati Uniti portando il dollaro a superquotazioni; ma le economie asiatiche
essendo molto legate all’andamento del dollaro, hanno subito contraccolpi pesanti
nella loro bilancia dei pagamenti. Tali perdite di competitività dell’economia
reale fa aumentare lo spostamento di capitali speculativi dai mercati asiatici
a quelli statunitensi ed europei cortocircuitando la bolla speculativa anche
su questi ultimi mercati, i quali stanno presentando indici borsistici estremamente
gonfiati rispetto al valore reale dell’assetto economico-produttivo. A ciò si
aggiunge il gioco speculativo dei ribassisti che diffondendo “terrore” continuano
a vendere titoli provocando così anche le svendite dei piccoli risparmiatori,
per poter poi speculare sugli stessi titoli riacquistati a prezzi stracciati.
I risultati complessivi sono stati evidenti in queste ultime settimane. Tutto
il sistema della globalizzazione capitalistica è entrato in fibrillazione. Si
realizza così il legame indissolubile fra globalizzazione e finanziarizzazione
dimostrando l’enorme fragilità di un modello capitalistico basato sulla speculazione
finanziaria che sempre più si distanzia dall’effettivo valore dell’economia
reale. Tant’è che ora anche coloro che si sono contraddistinti come i maggiori
fautori del liberismo selvaggio e del mercato non regolamentato hanno dei ripensamenti
ed invitano a rivedere il ruolo dello Stato-Impresa per restituirgli un compito
normativo di regolatore, rafforzando anche i compiti delle autorità di vigilanza.
È notizia di questi ultimi giorni che i vari governi asiatici, in particolare
quello giapponese, stanno accorrendo a soccorso del sistema creditizio e finanziario,
anche per il salvataggio di banche sommerse da crediti inesigibili derivanti
dagli effetti del rigonfiamento dell’economia dei primi anni ‘90. Di fatto la
Tigre asiatica è stata attaccata dalla speculazione internazionale e poi attraverso
la globalizzazione gli effetti perversi si sono ripercossi sulle varie aree
e sui vari attori del conflitto.
Questo è il vero significato della globalizzazione,
una globalizzazione dei mercati finanziari in cui ha buon gioco solo la libertà
assoluta dei movimenti di capitale a danno del lavoro, mentre i movimenti delle
persone e delle merci continuano ad essere sottoposti a politiche protezioniste
spesso a connotati razziali. Il movimento dei capitali in chiave globale è un
fenomeno che ha assunto caratteri di irreversibilità a danno dello sviluppo
dell’economia reale, concentrando ricchezza in un numero sempre minore di soggetti,
aumentando le aree di povertà nel pianeta, i livelli e gradi di emarginazione,
producendo attività estranee e contrarie all’utilità sociale collettiva.
I veri risultati emergono chiaramente: fare finanza speculativa
significa esportare ovunque un capitalismo finanziario che attacca ogni forma
di solidarismo in nome dell’individualismo, del darwinismo economico-sociale,
creando idiosincrasia per tutto ciò che è pubblico, per tutto ciò che significa
relazioni sociali a contenuto valoriale non misurato attraverso la moneta.