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L’attesa del popolo Sahrawi: la realtà dei campi profughi e il sogno di uno Stato libero

SARA PICARDO ILARIA GRAZIANO

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Arriviamo ai campi che è già tramonto. Il rosso e l’arancio degli ultimi raggi si uniscono all’ocra e al grigio della sabbia e delle abitazioni. Tutto intorno c’è silenzio, e le poche persone che si vedono si affrettano ad entrare in qualche tenda. El-Ayoun si presenta a noi in tutta la sua quiete, immobile. Siamo in una delle cinque wilaya nel deserto dell’Hammada, dove vivono 43mila dei circa 200mila Sahrawi dei campi profughi algerini. Ci fermiamo con le jeep davanti al Protocollo, la costruzione gialla che accoglie i cooperanti da tutte le parti del mondo. La struttura degli edifici pubblici è piuttosto diversa da quella delle case intorno. I primi in apparenza più solidi, ricoperti di cemento e dipinti, le seconde in semplice argilla impastata con l’acqua, senza alcun rivestimento e colore. Grosse buche si fanno spazio tra le case, da cui viene prelevata la terra per fare i mattoni, messi poi ad asciugare al sole intorno ai bordi. Nessun collante a tenere insieme i pezzi: qui tutto ha un costo elevato, amplificato dalla povertà e dalla distanza. Per ogni abitazione di terra, che ha piccole finestre per aerare e stare freschi durante la torrida estate, c’è accanto una tenda (jaima), costruita pazientemente dalle donne nel corso dell’anno, in cui si svolge la vita familiare durante il giorno. Queste tende sono residui del nomadismo dei Sahrawi e del senso di provvisorietà che scandisce la vita nel sud ovest algerino. Ma hanno anche una funzionalità importante, quella di rappresentare un rifugio sicuro e mobile in caso di pioggia. Sono le prime immagini di un luogo che impareremo a conoscere nei giorni a venire, quando saremo ospitati da un gruppo di famiglie che a turno vengono incaricate di accogliere i visitatori, giunti nei villaggi per portare amicizia e solidarietà. El-Ayoun è divisa in sei daire (province) e ognuna di esse è poi suddivisa in quattro barrios (quartieri). Di fronte a noi il più grande e finora unico esempio di autorganizzazione di profughi al mondo. Il ricordo di questa informazione appresa nei territori liberati ci sembra stridere con quanto abbiamo di fronte: una piccola città che si estende ordinata e dignitosa, benché povera e priva di infrastrutture. Qualche piccola tienda (negozio) testimonia tutto ciò: non si può essere profughi per oltre trent’anni. La sera stessa siamo ospiti del Protocollo, dove alcuni Sahrawi cucinano per noi e ci aiutano a sistemarci per la notte. Al mattino ci attende il benvenuto ufficiale: la visita di Omar Mansur, governatore di El-Ayoun, pronto a soddisfare le nostre tante curiosità di visitatori ancora inconsapevoli. Un incontro informale, poche sedie attorno ad un vecchio tavolo di plastica. Ma si palesa già dalle prime parole il valore anche istituzionale di quel primo appuntamento. Mansur ci parla dell’organizzazione dei campi e dell’attuale situazione politica: è dal 1991, anno del cessate il fuoco tra Fronte Polisario e Marocco, che la speranza di libertà del popolo del deserto si è tramutata in un’attesa senza prospettive. Nonostante l’insediamento della Minurso1, nulla si è mosso da allora. L’unica cosa che non si è fermata è il lavoro di democrazia che i Sahrawi hanno nel tempo portato avanti, nella prospettiva della liberazione del paese. Mansur spende poche parole sulla posizione marocchina, quelle più amare sono sull’assenza di opinione della maggior parte della popolazione, che ignora la “questione sahrawi”, complice il silenzio dei mass-media. Anche quando è informata, la gente teme di prendere apertamente posizione, per timore di essere ascoltata da informatori del governo e di incorrere in possibili ripercussioni. La politica istituzionale adottata ha dunque la strada spianata: l’occupazione è una decisione del re e come tale non si discute. I Sahrawi, da parte loro, negli ultimi anni hanno reagito all’immobilismo delle Nazioni Unite sia attraverso una forte pressione popolare all’interno dei territori occupati, sia dandosi un’organizzazione socio-politica ed economica nei campi profughi. Il governo ha elargito aiuti e incentivi per la nascita di una forma di economia non del tutto dipendente dagli aiuti umanitari, favorendo l’iniziativa privata, l’apertura di negozi, piccole ditte, cooperative agricole e di artigianato. Inoltre lo Stato si occupa anche della fornitura di acqua negli accampamenti e dei semi per l’agricoltura, nonché del trasporto delle merci. Lo sport è stato fortemente incoraggiato come strumento di aggregazione giovanile e di stimolo contro l’inattività della vita nel deserto. È con orgoglio che Mansur ci racconta della sua gente e delle forme di auto gestione che è riuscita a mettere in atto, in primis per quel che riguarda la distribuzione dei beni di prima necessità alla popolazione. I Sahrawi sono riconoscenti di quanto viene fatto per loro a livello mondiale, ma gestiscono gli aiuti che giungono dalla cooperazione internazionale attraverso strutture proprie, al riparo da ingerenze esterne. È la Mezza Luna Rossa Sahrawi ad occuparsi della divisione delle donazioni, soprattutto cibo e medicine, ripartendole in maniera equa tra tutte le famiglie, tenendo conto della loro composizione e delle loro possibilità. Le tante associazioni nate nei campi si adoperano per rendere la vita quotidiana meno difficile, supportando l’istruzione dei giovani e favorendo l’inserimento sociale e lavorativo dei disabili. Gli incentivi più consistenti, per scelta del governo, vanno all’agricoltura e alle cooperative del settore, numerose soprattutto nella provincia di Dakhla. I prodotti della terra vengono poi dati in parte ai lavoratori, in parte alla Provincia e in parte investiti per l’acquisto della benzina, indispensabile per il trasporto delle merci. Lo Stato interviene attivamente solo in alcuni casi specifici, come calamità naturali, pioggia e siccità ed emergenze sanitarie, fornendo il supporto di veterinari e medicine. Non esiste una regolamentazione specifica sulle merci, se non per quanto riguarda generi alimentari di prima necessità, come la carne. Prima che l’incontro si concluda chiediamo maliziosamente a Mansur, non senza un tocco di pregiudizio squisitamente occidentale sul mondo islamico, in che modo è diventato governatore. La sua risposta è cortese e sarcastica al contempo: “Attraverso votazioni democratiche a suffragio universale (si vota dai diciotto anni in su) che si tengono ogni quattro anni, sia per eleggere il governo che il parlamento. Che credete, siamo una Repubblica democratica, peccato che aspettiamo ancora di riavere la nostra terra!”. Mentre Omar Mansur ci saluta sono già fuori ad attenderci le nostre jeep blu, che ci condurranno dalla famiglia che ci ospiterà: quinta daira, barrio Guelta. Dopo il breve tragitto - non sembra vero dopo le infinite ore trascorse saltellando su e giù in pieno Sahara - scendiamo davanti a quella che sarà la “nostra” casa per tutta la settimana seguente. Una testa fa capolino da una tenda. Alcuni bambini, che giocavano fino a poco prima, si fermano a guardarci incuriositi e dopo il primo istante di sbigottimento si avvicinano per rivolgerci la domanda che ci tormenterà nei giorni a seguire: “Caramellos, tienes caramellos?”. Sono le padrone di casa a sottrarci a quel piccolo assalto di manine avide e festose. Tre giovani donne, vestite dalla testa ai piedi di stoffa dalle tinte azzurre, ci salutano sorridenti e calorose. In men che non si dica siamo dentro la casa di mattoni gialli in cui dormiremo. Le tre si allontano immediatamente. Una andrà a chiamare la signora della casa, poiché il bon ton sahrawi prevede che sia l’anziana della famiglia a dare il benvenuto agli ospiti con i rituali tre the. Le altre due si affaccendano tra la stanza in cui siamo e il piccolo ambiente circostante, che scopriremo essere la cucina, per preparare l’occorrente per il rito. Ci basta un’occhiata sommaria a questi pochi gesti sicuri e veloci per avere conferma di quanto abbiamo appreso sull’organizzazione delle famiglie sahrawi: sono soprattutto le donne ad occuparsi della gestione domestica. Far quadrare i conti, da quando la moneta ha cominciato a vivacizzare l’economia locale, è un’altra incombenza che spetta loro, spesso affaccendate nei piccoli mercati dei villaggi alla ricerca delle merci più convenienti. Dopo il terzo the sono già familiari per noi volti e nomi: Fatima è la nonna, matrona accorta e silenziosa; Fatimetu è la figlia più grande, solare e madre di uno splendido bambino di all’incirca due anni, Lelu, che ogni tanto fa capolino per riscuotere un bacio e una caramella; Leilu è la minore, incinta all’ottavo mese del suo primo figlio, energica e sempre disponibile; Hadjetzu è una cugina diciassettenne di questa ospitale e allargata famiglia. Questo primo spaccato familiare al femminile ci farà entrare nell’atmosfera dei prossimi incontri. Ogni associazione che conosceremo nei campi, infatti, è gestita per lo più da donne, che portano avanti un lavoro d’organizzazione capillare per sostenere nel miglior modo possibile questa società nata dall’esilio. Le impressioni della sera sfumano velocemente nel mattino del deserto, il sole palesa ai nostri occhi una realtà ricca di lavoro e impegno. Il giorno sarà pieno d’incontri e suggestioni per noi. Dopo un’abbondante colazione risaliamo sulle jeep, che ci condurranno al Centro culturale di El-Ayoun, prima, e a quello per non vedenti e al Centro ricreativo per portatori di handicap, poi. Alle porte del Centro culturale, un gruppo di donne avvolte nella tradizionale melfa ci dà il benvenuto: circondano una grossa pietra, con dipinta la bandiera della Rasd su cui risalta la scritta “Viva la paz y la amistad”. Il loro primo gesto di amicizia è decorarci le mani con l’henna, e quando ancora è fresco, tra l’ilarità generale per la nostra difficoltà di movimento, cominciamo la visita. Fatma, una delle insegnanti, sarà la nostra guida tra le stanze strette e polverose, ricche di attività e stimoli inattesi. Il Centro è una piccola scuola in cui si insegnano arti e mestieri: dalla falegnameria alla pittura, dalla ceramica alla musica. I ragazzi che frequentano i corsi hanno l’opportunità non solo di imparare un lavoro, ma di contribuire all’economia della comunità, producendo oggetti che saranno venduti ai pochi visitatori e cooperanti. Pochi metri più lontano sorge il Centro delle donne Olof Palme: qui le giovani apprendono, oltre che a leggere e scrivere, l’arte del cucito e della tessitura. Un raggio di luce illumina una stanza enorme in cui siedono donne intente al telaio. Le loro abili mani scorrono veloci sui fili di lana tesi, a comporre tappeti e bandiere. Sono così assorte nel loro lavoro che sembrano non accorgersi dei nostri sguardi curiosi e dei flash invadenti delle macchine fotografiche. Questa instancabile operosità, indispensabile al funzionamento di una economia così fragile, viene interrotta solo per intonare un canto tradizionale, in segno di riconoscenza per la nostra visita. Fatma, paziente maestra con la nostra incomprensione, ci accompagna, prima di salutarci, al Centro per non vedenti. Le mani dei ragazzi battono sulle tastiere delle macchine da scrivere in linguaggio Brail, una giovane donna guida le loro dita sulle giuste combinazioni dei tasti. Usciamo da lì in silenzio: ancora una volta l’attenzione di questa società verso i più deboli ha il potere di sorprenderci. L’identità sahrawi, prima di essere una costruzione culturale, si compone di uno sforzo comune verso l’auto-sostentamento. Ne sono testimonianza la gestione dell’Orto e del potabilizzatore, di El-Ayoun, dono dalla provincia di Roma. Anche l’Ospedale nazionale di Rabouni, benché totalmente dipendente dai medicinali provenienti dall’estero, è un esempio della ricerca d’autonomia di questa società: il personale medico, infatti, è interamente sahrawi. Camminando tra le sporche e povere stanze dei reparti ci rendiamo subito conto della difficoltà che si ha nel deserto a mantenere anche le più semplici accortezze igieniche per i pazienti: polvere e sabbia sono dappertutto e l’usura degli oggetti sembra inevitabile. Salèm, il medico che ci fa da guida, ci palesa la difficoltà di ricevere, per i dottori, una formazione specialistica. I Sahrawi beneficiano infatti di borse di studio per l’estero, assegnate dal Ministero dell’Istruzione ai più meritevoli e offerte principalmente da paesi come Cuba. Ma spesso queste non coprono interamente i costi del lungo percorso di specializzazione e aggiornamento indispensabile soprattutto in questo campo. Chi abita il Sahara fa i conti quotidianamente con patologie oculistiche e respiratorie dovute al vento e alla sabbia, che in alcuni periodi dell’anno rappresentano una seria minaccia per la salute. Dopo avere giocato un po’ con un gattino che riposa su un letto di una camerata, lasciamo Salèm al suo giro di visite e andiamo incontro a una serata particolare: un matrimonio sahrawi tra le dune del deserto. Lungo il tragitto veniamo colpiti dalla montagna di spazzatura che deturpa questo incantevole tramonto. Mohammed sembra percepire il nostro sguardo di rimprovero e si affretta a spiegare che lo smaltimento dei rifiuti è un problema ancora irrisolto, a causa della mancanza di mezzi di trasporto e di carburante per farli funzionare. Mentre cala la notte un fuoco in lontananza ci fa da guida. Un suono di tamburi e voci si fa sempre più vicino. Accerchiati da parenti e amici, gli sposi siedono su tappeti portati lì per l’occasione, e assistono alle danze in loro onore. Il volto degli sposi è coperto di cenere scura, così vuole la tradizione nelle occasioni solenni. È ancor più un onore partecipare a un matrimonio nel deserto, sottolinea Kandhud, poiché qui sposarsi richiede una disponibilità economica che non tutti hanno. Offrire da bere e mangiare, costruire una casa e arredarla, avere poi la possibilità di sostenere una famiglia non è cosa scontata, ma richiede spesso lunghi anni di sacrifici e attesa. Una lunga notte di danze, la sveglia è all’alba. A tirarci giù dal letto è Alì, eccitato dall’idea che i suoi ospiti italiani lo accompagneranno a scuola. Oggi è un giorno speciale: ci sarà un saggio di fine semestre e le premiazioni degli alunni più meritevoli. Anche se una recente pioggia ha distrutto parte delle aule, i ragazzi sono contenti ed euforici per la giornata che li aspetta. Ad accoglierci, come sempre, una simpatica maestra, che ci invita a sederci per osservare le coreografie degli studenti. Al termine dello spettacolo, con un misto di amarezza e rassegnazione, un insegnante ci mostra il tetto di un’aula crollato sotto il peso di un violento acquazzone. In un giorno di vacanza, per fortuna; in un luogo in cui bisogna affidarsi al caso per evitare certe prevedibili tragedie. L’alternativa potrebbe essere rinunciare a tutto questo: all’istruzione, all’aggregazione, alla cultura. Ma in questa terra alla carenza di mezzi supplisce la creatività e la voglia di andare avanti: il nostro contributo, zaini e materiale di cancelleria, sarà apprezzato, ne siamo certi, ma non è indispensabile. Il pomeriggio lo dedichiamo alla visita di due musei: uno è quello etnologico, nel campo nato intorno alla scuola femminile “27 febbraio”, l’altro è il museo della guerra, nei pressi di Rabouni. Mentre il primo testimonia la volontà di non dimenticare le proprie origini libere e nomadi, con gli oggetti utilizzati dalle carovane e gli utensili per la vita quotidiana, il secondo ci riporta nell’attualità di un presente fatto di sopraffazioni e rinunce, in primo luogo alla guerra. Il Museo etnologico è anche quello nazionale del popolo sahrawi, costruito nel 1997 grazie alla collaborazione dell’Università di Girona e del Ministero della Cultura della Rasd. Nel museo della guerra, invece, giacciono inutilizzati gli armamenti leggeri e pesanti che per lunghi anni sono serviti a entrambi gli eserciti, marocchino e sahrawi, per fronteggiarsi: mine antiuomo, anticarro, relitti d’aerei, carri armati e fucili di varia provenienza. Nonché un plastico del muro fatto costruire da Hassan II in pieno deserto. Rimaniamo colpiti, oltre che dalla lunga parete con affisse le foto e le lettere dei soldati morti o scomparsi in battaglia e dei prigionieri nemici, dalla storia di alcuni carri armati che riposano inermi, come vecchi dinosauri in attesa di essere ricoperti dalla polvere. Questi che sembrano relitti antidiluviani o postbellici, sono un dono che il popolo sahrawi aveva fatto al Sud Africa di Nelson Mandela per liberarsi dall’apartheid. I Sudafricani, poi, una volta liberati rimandarono ai propri amici quegli stessi mezzi, affinché servissero per la loro liberazione. Purtroppo il destino non è stato lo stesso, ma quelle macchine da guerra testimoniano comunque una solidarietà tra stati africani che fa riflettere e rende ancora più incomprensibile la posizione marocchina. Dopo i musei un’altra forte emozione concluderà la giornata. Visitiamo Afrapredesa, l’associazione messa in piedi dai parenti dei desaparecidos. Un buio corridoio, dove sono affisse foto e testimonianze di torture subite dai Sahrawi nei territori occupati, ci introduce alla sala dove, per un’ora, ci parlerà uno dei fondatori dell’associazione. Le sue parole sono pronunciate a bassa voce, ma arrivano dritte allo stomaco. Per anni una popolazione intera è stata vittima di ogni tipo di sopruso, dalla negazione della propria identità a quella della propria umanità, umiliata e ferita da arresti arbitrari, divieti a manifestare e sparizioni di esseri umani come fossero fantasmi. 20mila persone hanno già conosciuto carcere e tortura, mentre più di 200mila hanno subito la deportazione verso i territori a nord del Marocco. Solo nel 1999 il Regno di Hassan ha ammesso la morte di ben 43 desaparecidos, senza rivelarne però l’identità e il luogo di sepoltura fino al novembre del 2005 e, anche allora, non permettendo alle famiglie di prelevare le salme e trasportarle nei territori occupati. Dal 1999 a oggi, duemila sono stati i detenuti senza regolare processo. Afrapredesa si occupa di ricostruire la storia di migliaia di “scomparsi” - 4.500 finora calcolati, di 526 di questi, ad oggi, non si ancora nulla - durante i lunghi anni dell’occupazione e di far avere ai parenti in vita le spoglie dei propri cari da seppellire. Il rappresentante dell’associazione racconta, ma senza alcuna richiesta, della possibilità di adottare un desaparecido: un gesto simbolico con cui sostenere la sua ricerca attraverso una piccola donazione mensile. Una possibilità che colpisce subito: qui non si dimentica l’esistenza né la morte di chi vive al di là del muro, nemmeno dopo anni e senza che ancora alcun tribunale internazionale abbia riconosciuto formalmente colpevole il governo marocchino della sparizione di centinaia di attivisti sahrawi. Questa sensazione pesante di responsabilità irrisolte accompagna la nostra ultima notte ad El-Ayoun. Per alleggerire la tensione i nostri amici hanno scelto per noi una strana serata: il cinema all’aperto, in un’arena costruita grazie a un progetto di cooperazione italiano. Un anfiteatro in cemento, dipinto di giallo, circonda un alto muro bianco dove scorrono le immagini dei Tempi Moderni di Chaplin. Ma stavolta i mattoni non sono lì a dividere una terra a metà, bensì ad aprire una finestra sul futuro. E, come nel film di Chaplin, per quest’ultima notte non ci sono parole.

note

* Arci Nazionale - Cooperativa sociale L’APIS.

** Collaboratrice del quotidiano “Liberazione”.

1 I caschi blu dell’ONU (Minurso) dovevano presiedere all’organizzazione del referendum di autodeterminazione nel Sahara Occidentale.