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Stati Uniti: il fantasma della grande crisi
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Stati Uniti: il fantasma della grande crisi

DANIEL MUNEVAR

EFRAIN ECHEVARRIA HERNANDEZ

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L’economia globale è in una fase ascendente del ciclo economico, contrassegnata dall’instabilità e da rischi sistemici. Il dibattito accademico si è concentrato principalmente attorno al tema del disavanzo di bilancio degli Stati Uniti, alle sue implicazioni per l’economia mondiale e alla possibilità che sopraggiunga una crisi di proporzioni catastrofiche in conseguenza di un aggiustamento disordinato a questi squilibri. Nel presente lavoro saranno analizzate nella prima parte le caratteristiche del disavanzo di bilancio degli Stati Uniti, nella seconda alcune delle argomentazioni della discussione accademica attuale sul se e sul perché il deficit rappresenta un problema economico; saranno poi passati in rassegna i possibili strumenti di aggiustamento e infine sarà fatta un’analisi delle possibilità dello scatenarsi di una crisi su larga scala dell’economia statunitense.

1. Il disavanzo di bilancio statunitense in prospettiva Cominciamo con l’analizzare le principali tendenze del disavanzo di bilancio a partire dalla metà degli anni Novanta del XX secolo: se fino al 1996 il disavanzo si mantiene stabile attorno al 2% del PIL - circa 110 miliardi di dollari - a partire dal 1997 il disavanzo comincia a crescere a passi da gigante arrivando al 6% del PIL nel 2004 - ossia l’astronomica cifra di 670 miliardi di dollari - (si veda il grafico 1). Sebbene esistano versioni discordi sul motivo principale della rapida crescita di tale disavanzo negli ultimi anni, c’è un certo consenso su tre fattori. Il primo è la maggiore crescita dell’economia degli Stati Uniti durante gli anni Novanta, soprattutto alla fine del periodo, in un contesto di ristagno generale dell’economia mondiale, che ha spinto la domanda mondiale di beni verso il mercato statunitense2, facendo aumentare così ancor più l’importanza dell’economia di quel paese come motore di quella mondiale. In cifre, quanto appena detto significa che se nel 1995 la partecipazione dell’economia statunitense al PIL mondiale era del 25%, è giunta nel 2002 - quando è cominciata la caduta del valore del dollaro3 - al 30%, per poi scendere al 28% ai giorni nostri. Così se si compara il disavanzo di bilancio degli Stati Uniti con il PIL mondiale, nel 1995 esso rappresenta lo 0,5%, mentre nel 2004 supera la barriera del 2% (FMI 2005). Il secondo fattore (rappresentato nel grafico 2) ha a che vedere con il costante aumento del rapporto di cambio reale del dollaro, ponderato con la bilancia commerciale, nella seconda metà degli anni Novanta. Questa tendenza al rialzo ebbe effetti negativi sul comportamento della bilancia commerciale degli Stati Uniti in quel periodo, a causa dell’aumento dei prezzi di beni e servizi prodotti nel paese che hanno diminuito la loro competitività rispetto ai beni e servizi prodotti dai paesi appartenenti ad altri blocchi commerciali. Fu subito chiaro tuttavia che, date le dimensioni e l’importanza del disavanzo di bilancio statunitense, la tendenza al rialzo del dollaro avrebbe potuto portare a una diminuzione di tale valore in misura significativa, così da correggere gli squilibri accumulati durante gli anni Novanta. Il cambiamento di tendenza si ebbe alla fine nel 2002 (si veda il grafico 2), anche se è stata molto più breve e meno intenso di quello che la maggior parte degli analisti speravano: il dollaro perse “solamente” il 16% del proprio valore tra il 2002 e il 2004, prima di cominciare a guadagnare di nuovo, contro tutti i pronostici, nel 2005. A questo punto è importante chiedersi che cosa ci sia dietro l’apparente contraddittorio comportamento del rapporto tra il disavanzo di bilancio statunitense e il valore del dollaro, ossia perché il dollaro resiste così tenacemente nonostante l’immenso disavanzo di bilancio degli Stati Uniti? La risposta la troviamo analizzando le radici dell’attuale sistema monetario e finanziario internazionale. Il presente sistema, in cui il dollaro ha svolto fin dagli inizi il ruolo di riserva di valuta internazionale, venne creato sulla premessa che gli Stati Uniti sarebbero rimasti nella loro posizione di paese con un sopravanzo di bilancio, e quindi creditore nei confronti del resto del mondo: ciò si sarebbe tradotto in bassi livelli di liquidità intenzionale in dollari che avrebbero assicurato la stabilità del sistema aureo di cambi fissi (Galbraith 2002). Con il passare del tempo, però, fu chiaro che tali presupposti erano sbagliati: gli Stati Uniti diventarono un paese debitore, di fatto il più grande del mondo. L’elemento importante da sottolineare è che questo processo di trasformazione graduale dell’economia statunitense e mondiale, durante il quale venne superato il sistema aureo di cambi fissi, non danneggiò la posizione dominante del dollaro all’interno del sistema monetario internazionale come riserva di valuta per eccellenza4. Fu così conferito agli Stati Uniti l’enorme e destabilizzante privilegio di poter esternalizzare i costi degli squilibri della propria economia, senza che esista un meccanismo attraverso cui ripartire in maniera equa il peso dell’aggiustamento dell’economia mondiale. Inoltre si negava in ogni modo la possibilità di qualsiasi alternativa a tale situazione, almeno sino alla recente comparsa dell’euro5. Una dimostrazione degli effetti di tale stato di cose è il comportamento del valore del dollaro alla fine degli anni Novanta. Dal punto di vista degli Stati Uniti, e del benessere dell’economia mondiale, la cosa più logica sarebbe stata sperare nella sparizione del dollaro, tenendo conto del comportamento del disavanzo commerciale. Tuttavia, l’estrema instabilità finanziaria internazionale di quegli anni impedì tale correzione, rendendo così difficile la riduzione del disavanzo. Come funzionò tale meccanismo? In periodi di instabilità e crisi gli agenti finanziari cercano di ridurre la loro esposizione al rischio attraverso una ricomposizione del portafogli investimenti, con la diminuzione della partecipazione a quelli ad alto rendimento/alto rischio (investimenti in portafogli e prestiti a breve termine nel Sudest asiatico, Russia, Brasile, Argentina) e con l’acquisizione di investimenti a basso rendimento/basso rischio (buoni del Tesoro statunitensi). In altre parole, come sostenuto da Oscar Ugarteche, i capitali che fuggivano da una parte dovevano entrare dall’altra, ossia principalmente negli Stati Uniti, così da indurre non solo la rivalutazione del dollaro, ma anche il rialzo incontrollabile della Borsa valori (Ugarteche 2004), nonostante tale comportamento minasse le basi del comportamento macroeconomico del paese e dell’economia mondiale nel suo insieme, tema di fondamentale importanza su cui torneremo più avanti. Ritornando all’analisi del comportamento del disavanzo di bilancio, rimane un terzo fattore da analizzare e che in linea generale potrebbe essere definito come i patrones di risparmio e investimenti dell’economia statunitense durante gli ultimi quindici anni6. Per cominciare quest’analisi, è necessario ricordare il vincolo macroeconomico basilare esistente tra investimenti, risparmio nazionale e il saldo della bilancia commerciale. Questa relazione ci indica che la differenza tra risparmio e investimenti privati, risultato delle decisioni aggregate del settore pubblico e privato a livello nazionale, si riflette sulla bilancia commerciale. Il disavanzo di bilancio statunitense ha due contropartite di base, la cui evoluzione aggregata permette di comprendere il suo comportamento: il bilancio fiscale del governo e quello del settore privato. In tal modo procediamo all’analisi dei loro effetti sull’evoluzione della bilancia commerciale e dell’economia statunitense. Nel grafico 3 vediamo il comportamento del bilancio fiscale e del disavanzo negli ultimi venticinque anni. È doveroso iniziare da qui poiché gran parte del dibattito recente al riguardo si è concentrato sull’evoluzione parallela del deficit fiscale e del disavanzo di bilancio negli ultimi anni, cosa che a prima vista indicherebbe una relazione diretta tra le due evoluzioni e che quindi la correzione al ribasso di uno dei due dati aggregati, in questo caso il deficit fiscale, si tradurrebbe nella correzione anche dell’altro, ossia la riduzione del deficit commerciale, il cosiddetto fenomeno dei deficit gemelli. Tuttavia, un’analisi più profonda porta a evidenziare il fatto che la relazione tra i due dati aggregati e le implicazioni dell’evoluzione di tale relazione per l’economia nel suo insieme sono molto più sottili di quello che sembra a prima vista. Il principale indicatore in tal senso lo rivela il comportamento divergente dei due bilanci durante gli anni Novanta. Nonostante un consolidamento fiscale (grafico 3) attraverso forti tagli alle spese federali (si veda il grafico 9) che portarono lentamente ma in modo graduale il deficit del bilancio fiscale da oltre il 4% del PIL nel 1992 a un sopravanzo del 2% del PIL nel 2000, il disavanzo di bilancio continuò nella sua traiettoria verso il basso; solo a partire dal 2001, quando si osservò un cambiamento radicale nell’atteggiamento fiscale del governo con l’obiettivo di arrestare la recessione che aveva colpito l’economia statunitense, abbiamo osservato un comportamento “congruente” alla tesi dei deficit gemelli. Tuttavia, il fatto che in primo luogo gran parte dell’aumento del disavanzo di bilancio si sia verificato nel periodo finale del processo di consolidamento fiscale - tra il 1997 e il 2000 - e che in seconda istanza il deficit commerciale abbia preceduto, a differenza di quello che successe negli anni Ottanta (grafico 3), il deficit fiscale, porta a pensare a un fenomeno diverso da quello dei deficit gemelli, ossia è nel bilancio del settore privato dove si sono verificati gli squilibri. Nel grafico 4 si può vedere il bilancio del settore privato, il cui comportamento consente di spiegare a loro volta le dinamiche dei bilanci fiscali e di conto corrente. Il disavanzo di bilancio poté così continuare la propria tendenza al peggioramento, nel bel mezzo del citato processo di consolidamento fiscale, a causa soprattutto della riduzione costante del risparmio privato nel paese - ai minimi storici - negli anni Novanta e sino ai giorni nostri, mentre si verificava un aumento degli investimenti netti durante tutto il ciclo di espansione economica. Questo saldo negativo nel bilancio del settore privato negli ultimi anni7 ha portato con sé profonde implicazioni economiche che vanno ben al di là del citato deterioramento della bilancia di conto corrente, dovuto principalmente all’accumulazione massiccia di debito da parte delle famiglie statunitensi, processo che ha portato all’indebitamento del settore ai massimi storici (Arestis 2004). In un primo momento, l’accelerata accumulazione del debito, ossia l’incremento di prestiti netti al settore privato, fu sostenuta dal rapido aumento della ricchezza finanziaria delle famiglie durante il boom che investì il mercato azionario negli anni Novanta. Nel corso di questo processo il debito prodotto cominciò ad aumentare la sua quota nelle entrate delle famiglie e più specificamente nel finanziamento delle spese correnti di consumo e quindi cominciò a diventare un fattore chiave della determinazione dei patrones di consumo, che come vedremo è fondamentale per l’analisi di quello che è successo all’economia statunitense. In seguito si ebbe lo scoppio della bolla speculativa e l’aumento dei tassi di interesse nel 2000, che ebbero un’influenza negativa simultanea sul consumo, poiché da un lato le famiglie videro ridursi la propria ricchezza - cosa che ridusse ovviamente il ritmo e il livello a cui stavano accumulando nuovo debito e quindi a cui stavano consumando - mentre dall’altro aumentò il debito come parte delle entrate correnti. Tuttavia, la combinazione di ridotti tassi di interesse e stimoli fiscali diedero vita a una nuova bolla speculativa, questa volta nel settore immobiliare, che a sua volta diede nuova linfa al fenomeno del “consuma oggi, paga domani” che nonostante abbia mantenuto in crescita l’economia statunitense nel corso degli ultimi cicli economici, lo ha fatto su una base certamente fragile nel breve termine e impossibile da sostenere nel lungo. Ci sembra importante sottolineare questo tema poiché, contrariamente a quello che si pensa, una riduzione dello stimolo fiscale8, nonostante possa ridurre il deficit commerciale, rappresenterebbe la minaccia maggiore per la crescita economica del paese e per la disposizione di altri paesi a finanziare tale deficit, tenendo conto del fatto che gli attuali livelli di consumo delle famiglie, motore economico del paese, si basano sull’accumulazione di debito da parte delle stesse a ritmi superiori alla crescita delle entrate; inoltre tale processo di acquisizione di beni immobili sopravvalutati nel peggiore dei casi può portare alla loro perdita di valore e sottoporre così l’economica statunitense a un’ondata di bancarotte9, mentre nel migliore dei casi può condurre alla tenuta del loro valore attuale, e al rallentamento dell’accumulazione del debito, del ritmo di consumo e dell’intera economia, tema su cui torneremo più avanti. Adesso, una volta individuati i principali fattori che hanno inciso sul disavanzo di bilancio con l’obiettivo di inquadrare la situazione dalla giusta angolazione, è necessario ripassare la storia economica degli Stati Uniti e vedere se esiste qualche precedente della situazione attuale. Un veloce sguardo al grafico 1 consente di vedere con chiarezza che vent’anni fa gli Stati Uniti si trovarono, anche se con alcune differenze, in una situazione simile a quella odierna. Un’analisi congiunta dei due periodi permette a grandi linee di individuare tre caratteristiche comuni:
  Un rapido deterioramento del disavanzo di bilancio sia in termini relativi che assoluti, mentre si registravano voluminosi deficit fiscali. La principale differenza verte principalmente sul fatto che, come già segnalato, negli anni Ottanta il deficit fiscale precedette quello commerciale, mentre oggigiorno si è verificato l’opposto;
  Una forte rivalutazione del dollaro statunitense nel periodo precedente il rapido deterioramento del deficit;
  Pressioni protezioniste all’interno degli Stati Uniti per cercare di ridurre il deficit commerciale del paese attraverso barriere doganali che, invece che sulle posizioni di conto corrente globali, si concentravano sugli squilibri commerciali bilaterali con gli Stati Uniti. Vent’anni fa il capro espiatorio fu il Giappone, adesso è la Cina. Oggi è importante sottolineare le similitudini tra le due situazioni, poiché nel primo periodo si riuscì a sanare lo squilibrio di conto corrente degli Stati Uniti senza traumi, né per l’economia statunitense né per quelle mondiale, quando più di un’analista, così come sta accadendo ora, indicava l’imminenza di una crisi. In tal senso è interessante vedere come l’elemento che consentì di correggere una situazione potenzialmente pericolosa è oggi assente, a causa dell’unilateralismo intrinseco del progetto egemonico imperialista dell’estrema destra statunitense: la cooperazione internazionale. Nel 1986, solo l’intervento congiunto di Germania, Stati Uniti e Giappone, attraverso l’Accordo del Plaza, segnato da rilevanti elementi geopolitici, permise di ridurre in maniera relativamente stabile il valore del dollaro, in modo da consentire una riduzione considerevole del disavanzo di bilancio degli Stati Uniti. Oggi tale possibilità non esiste, almeno nella grandezza richiesta, ma bisogna individuare comunque una soluzione che combatta a livello internazionale il pericolo potenziale rappresentato dagli squilibri della bilancia dei pagamenti internazionali; nel caso dell’attuale congiuntura, ciò richiederebbe non solo una netta svalutazione del dollaro ma anche e soprattutto un cambiamento dei patrones della domanda aggregata globale. Tuttavia, ancor più importante che immaginarsi possibili accordi internazionali per trovare una soluzione al problema, è chiedersi quanto sia importante il problema e se di fatto esiste un “problema”, domanda che ci introduce alla sezione seguente del lavoro.

2. Il disavanzo di bilancio statunitense è un problema? Per definizione il conto corrente è il registro contabile delle transazioni di beni e servizi dei residenti di un paese più il bilancio delle entrate generate dal capitale. Così si può avere un deficit a causa di un eccesso di consumo, sia in beni di consumo sia in capitale, rispetto alla produzione del paese, che obbliga a utilizzare risorse esterne per colmare tale differenza. L’utilizzo di risorse esterne però si traduce in un’emissione di obbligazioni dei residenti del paese verso l’estero, che dovranno essere pagate in futuro. In tal maniera, mantenere un determinato deficit commerciale, come percentuale del PIL, richiede un afflusso di capitali sotto forma di prestiti in quantità equivalente, come percentuale del PIL, dati il livello di riserve e i tassi di cambio. Ciò significa che un paese può accumulare una quantità infinita di disavanzo di bilancio e quindi di obbligazioni, in termini assoluti, senza danneggiare l’attività economica, sempre che il tasso di crescita di tali obbligazioni sia inferiore al tasso di crescita dell’attività economica e sempre che esistano agenti economici disposti a finanziare il deficit. In caso contrario, con l’aumento della quota di obbligazioni sulle entrate e con ciò del pagamento di interessi, si mette a repentaglio la “solvenza” del paese, che a sua volta farà diminuire la disposizione degli agenti economici a finanziare il deficit. Detto ciò, è possibile affermare che un disavanzo di bilancio non è negativo in sé, sono le tendenze a essere importanti ed è proprio su di esse che bisogna concentrare la nostra analisi. Ovviamente nel caso del deficit statunitense è importante segnalare alcuni elementi per arricchire quest’analisi, prima di proseguire con le tendenze. Il primo è correlato al fatto che il deficit statunitense è un fattore chiave della domanda aggregata globale, per cui il resto del mondo ne è “beneficiato”. Il secondo ha a che vedere con il fatto che il finanziamento di questo deficit trascina verso l’economia più grande del pianeta il 70% dei flussi globali di capitale a scapito dei paesi e delle economie più deboli, sebbene questo abbia significato tensioni nei mercati di capitale internazionali sotto la forma di tassi di interesse elevati. Proseguendo nel nostro studio, nella prima parte di questo lavoro abbiamo visto per sommi capi le tendenze passate della bilancia di conto corrente statunitense; adesso concentriamo la nostra attenzione sulla Posizione Internazionale di Investimenti Netti (PIIN). In termini generali, un paese con PIIN positiva può essere considerato un paese “creditore”, mentre uno con PIIN negativa è un paese “debitore”. Così i flussi di capitale verso l’estero10 (l’interno) creano attivi (passivi) che a loro volta generano entrate (obbligazioni). Nel grafico 6 sono indicati i movimenti della PIIN degli Stati Uniti dal 1991 in avanti e la sommatoria delle somministrazioni di capitale del conto finanziario che consentirono il finanziamento del disavanzo di bilancio. In questo modo vediamo che per il 2004 la PIIN degli Stati Uniti si è trovata a essere in una posizione di “debitore” in una misura vicina ai 2.500 miliardi di dollari, ossia circa il 22% del PIL degli Stati Uniti, in termini contabili il paese con il più elevato debito del mondo. Un risultato di questo tipo è poco sorprendente tenendo conto dei due decenni che hanno visto gli Stati Uniti registrare in maniera persistente disavanzi di bilancio. Di fatto, come si sostiene in Mussa (2005), il paese è passato dall’essere il più grande creditore del mondo alla metà degli anni Settanta con una PIIN equivalente al 25% del PIL a essere il più grande debitore, con una percentuale simile di rapporto con il PIL. Un altro elemento che risalta dal grafico 6 è la differenza tra l’ammontare totale netto dei flussi di capitale (entrate/uscite) che caratterizzarono il mercato statunitense nel periodo analizzato e la crescita del PIL, che per il 2004 si è assestata attorno ai 1.300 miliardi di dollari. Questa differenza si spiega con i cosiddetti cambi di valore. Siccome la PIIN è il risultato della differenza dei dati aggregati attivi e passivi, dei cambiamenti dei tassi di cambio, dei tassi di crescita economica e di interesse, influiscono sul suo valore sia quelli attivi sia quelli passivi, cosicché bisogna che periodicamente essi siano rivisti per correggerne il valore: questi sono i cosiddetti cambiamenti di valore. Nel caso statunitense, i cambiamenti di valore meritano molta attenzione poiché durante gli ultimi quindici anni hanno consentito di ridurre la PIIN di una misura equivalente a circa un terzo dei flussi netti di capitale verso gli Stati Uniti. In Cline (2005) si fa un’analisi della composizione dei cambiamenti di valore negli Stati Uniti a partire dal 1990 fino ad oggi, il cui principale merito consiste nel segnalare che circa l’83% dei guadagni ottenuti grazie ai cambiamenti di valore non si spiega con variazioni dei tassi di cambio né dei prezzi, bensì con cause non identificabili che si sono tradotte, nel frattempo, in un incremento del valore degli attivi degli Stati Uniti di 60 miliardi di dollari all’anno, qualcosa che gli autori chiamano eufemisticamente “manna dal cielo”. Chiunque analizzi queste cifre vedrà che questo “magico” incremento ha pochissimo a che vedere con il cibo biblico, e molto di più con il riciclaggio di denaro proveniente dal narcotraffico e dal traffico internazionale di armi che effettua sistematicamente la Banca centrale statunitense: ecco spiegato questo “magico” incremento. Proseguendo nella nostra analisi, ci imbattiamo forse nel maggior paradosso: nonostante la PIIN sia attorno al 25% del PIL, gli Stati Uniti registrano comunque un saldo favorevole tra bilancia di rendita e bilancia dei pagamenti, che comprende le entrate meno i pagamenti sul possedimento di capitali, di circa 36 miliardi di dollari (si veda tabella 2). Ossia gli Stati Uniti sono debitori in termini contabili e creditori dal punto di vista economico: sino ad oggi l’accumulazione di disavanzo di bilancio non ha rappresentato un problema né per l’economia statunitense né per quella mondiale, tema su cui torneremo più avanti. Parte della spiegazione di questo paradosso la troviamo nella tabella 1, in cui si scompongono gli attivi e i passivi degli Stati Uniti per gli anni 1995 e 2004. Gran parte degli attivi all’estero, poco più del 50%, è concentrata nelle categorie di investimenti diretti e azioni, mentre gran parte dei passivi si trova, sempre per una cifra superiore al 50%, in obbligazioni ufficiali, buoni del tesoro, bonos corporativos e obbligazioni bancarie. È importante segnalare questa differenza, poiché risulta chiaro vedendo queste cifre che la maggior parte del denaro che confluisce a finanziare il deficit non arriva per cercare alti livelli di ritorno ma di sicurezza, come dimostra il caso dell’acquisto di securities del Tesoro da parte delle Banche centrali o dei bonos corporativos; il ritorno su questi investimenti risulta minore di quello ottenuto dall’investimento in azioni o dagli investimenti diretti. Allora è nella differente composizione del portafogli di attivi e passivi che si ritrova il fenomeno del maggior tasso di ritorno sugli attivi all’estero rispetto a quello sui passivi, che permette agli Stati Uniti di mantenere elevati livelli di passivi senza che al momento ciò costituisca una minaccia per il paese. Di fatto si può osservare nella tabella 2 che è nella rendita netta generata dagli investimenti diretti che gli Stati Uniti presentano gran parte del sopravanzo di rendita menzionato prima, mentre il resto dei saldi netti (buoni ecc.) presentano saldi negativi o vicino a zero. Tuttavia, il fatto già menzionato che la maggior parte del passivo del paese sia costituita da obbligazioni che rispondono principalmente ai tassi di interesse si traduce in una maggiore vulnerabilità, tenendo conto dell’attuale ciclo restrittivo della politica monetaria degli Stati Uniti, che si può osservare chiaramente nel comportamento dei pagamenti del settore ufficiale negli ultimi anni. Un altro elemento importante della tabella 1 emerge dall’analisi della partecipazione del settore ufficiale all’interno dei passivi totali degli Stati Uniti negli anni 1995 e 2004. Nel dibattito recente è stata data notevole importanza alla partecipazione delle autorità ufficiali, ossia le Banche centrali, che hanno accumulato riserve con l’obiettivo di arrestare una possibile rivalutazione delle rispettive monete rispetto al dollaro, nel finanziamento del deficit statunitense. Guardando congiuntamente il grafico 7 e la tabella 1, si ha una prospettiva relativamente chiara di quello che sta succedendo attualmente, permettendoci di rilevare la reale importanza della partecipazione delle autorità ufficiali quando si tratta di finanziare il deficit. Così vediamo che, sebbene a partire dal 2001 sia aumentata la partecipazione ufficiale ai flussi di capitale degli Stati Uniti, passando da uno 0,3% del PIL al 3,5% nel 2004, da un lato i flussi di capitale provenienti dal settore privato continuano a rappresentare la maggior parte dei flussi di capitale che entrano nel paese, dall’altro nonostante il menzionato incremento dei flussi di capitale ufficiali negli ultimi anni, la partecipazione del settore ufficiale ai passivi degli Stati Uniti nel 2004 è dello 0,2% inferiore che nel 1995, ossia è rimasta praticamente stabile. Tali cifre consentono di affermare che sebbene le autorità ufficiali ricoprano oggi un ruolo importante nel finanziamento del disavanzo di bilancio statunitense, data la capacità che hanno di influenzare il valore del dollaro attraverso i cambi nella composizione del loro portafogli di riserve e i chiari interessi strategici che esistono per la difesa del valore del dollaro, è nel settore privato che si trova la chiave di finanziamento del disavanzo di bilancio statunitense. A differenza del settore ufficiale, la cui principale preoccupazione è la ricerca di sicurezza, i privati investono negli Stati Uniti in cerca di rendita, per cui in uno scenario di crisi finanziaria i fondi di denaro privati sarebbero già fuggiti all’estero, anche se le Banche centrali straniere possono intervenire con decisione per evitare tale scenario. Dopo aver analizzato brevemente la situazione attuale, possiamo affermare che al momento il disavanzo di bilancio non rappresenta una seria minaccia per l’economica mondiale, ma per il domani? Differenti proiezioni delle tendenze future del disavanzo di bilancio fatte da Mann (2004), Roubini e Setter (2005) e Papadimitrou (2005) giungono alla conclusione che alle condizioni attuali, ossia con un valore del dollaro stabile e un deficit fiscale in espansione, il disavanzo di bilancio continuerà ad aumentare fino ad arrivare nel 2010 a una percentuale del PIL compresa tra l’8% e il 12%, cioè oltre 1.000 miliardi di dollari. Uno scenario simile può essere problematico per diversi motivi. In primo luogo, per l’incremento della PIIN. Mussa (2005) segnala che anche se si tenesse il disavanzo di bilancio ai livelli attuali e presupponendo che l’economia statunitense continui a crescere di pari passo con il suo potenziale a lungo termine, ossia del 3%, la PIIN supererà in meno di dieci anni la barriera del 50% e quella del 100% in venticinque anni. È difficile fissare un limite oltre il quale la crescita dalla PIIN sfoci in una crisi finanziaria, tuttavia data l’importanza dell’economia statunitense per il mondo, del dollaro all’interno del sistema monetario e della partecipazione significativa dei passivi degli Stati Uniti ai portafogli degli investitori a livello globale è certo che si dovrebbe procedere ai necessari aggiustamenti all’interno e all’estero per evitare un deterioramento dei passivi in maniera così netta. In secondo luogo, per il bilancio di rendita di conto corrente. Sebbene sino ad oggi esso sia rimasto favorevole in termini di entrate per il paese, la continua accumulazione di passivi finirà inevitabilmente per cambiare il segno dei trasferimenti di risorse, diventando così una vera e propria zavorra per la crescita economica del paese. Le stime di Roubini e Setter (2005) indicano che per il 2010 il bilancio di rendita si troverà a essere in deficit in una quantità superiore ai 100 miliardi di dollari, ossia il 10% del disavanzo di bilancio attuale e circa l’1% del PIL. Ciò significherà una tendenza molto negativa per il paese, in termini di trasferimenti reali di risorse. Il terzo problema sono le difficoltà, in termini di costi, che il finanziamento di un deficit di tale grandezza significherebbero per il mondo intero. Al riguardo c’è chi sostiene che, nella misura in cui gli investitori stranieri cominceranno a esigere tassi di ritorno più alti in conseguenza dell’aumento della partecipazione ai passivi statunitensi, i tassi di interesse a livello mondiale dovranno per forza aumentare mettendo a dura prova la presunta stabilità del sistema finanziario internazionale con conseguenze poco favorevoli per quei paesi con fragile finanziamento esterno (Goldstein 2005). Tuttavia in questo caso non si fa un’analisi realistica dei meccanismi che operano attualmente e che consentono di finanziare il deficit. L’argomento centrale in tal senso sarebbe che mentre esistono agenti economici disposti a finanziare il deficit in ogni circostanza, per esempio le Banche centrale del Sudest asiatico, è difficile che si verifichi un brusco rialzo dei tassi di interesse a lungo termine. Perché? Il primo segnale del fatto che il settore privato non sarebbe disposto a continuare a finanziare il deficit oltre i tassi di interessi vigenti sarebbe la svalutazione del dollaro. Se ciò non avvenisse, nessuna autorità ufficiale interverrebbe, anche se in caso contrario è chiaro che il finanziamento e le misure ufficiali sarebbero sufficienti a impedire la svalutazione del dollaro e quindi il brusco aumento dei tassi di interesse a lungo termine. D’altro canto, una simile attitudine aumenta chiaramente l’elemento del riesgo moral e quindi degli incentivi da parte del settore per agire concordemente a esso, d’accordo con gli elementi di fragilità inerenti ai sistemi finanziari. Esistono comunque agenti disposti a finanziare il deficit statunitense, ad ogni costo e per ragioni strategiche che vanno oltre la semplice accumulazione di riserve con il fine di creare una war chest contro l’instabilità finanziaria e che si spiegano con il semplice fatto che le principali vittime di una svalutazione del dollaro all’interno dello schema attuale sarebbero in primo luogo l’Europa e l’Asia, le cui esportazioni perderebbero competitività rispetto a quelle statunitensi. Tutto ciò, insieme alle osservazioni fatte all’inizio di questa sezione, ci permette di affermare che innanzitutto il deficit statunitense non ha finora rappresentato un problema e che, sebbene le tendenze di lungo periodo potrebbero diventare preoccupanti nella misura in cui tali misure diventassero un fattore importante di riesgo moral, nel breve e medio periodo il disavanzo di bilancio non rappresenta un problema reale, sempre che i paesi asiatici siano nelle condizioni di poter continuare a finanziare tale deficit e che gli Stati Uniti siano in grado di mantenere l’attuale ritmo di crescita, due condizioni a rischio per diversi motivi, come abbiamo segnalato per quanto concerne gli Stati Uniti e come vedremo in seguito nel caso cinese.

3. Le modalità dell’aggiustamento

Come abbiamo visto nella sezione precedente, anche se attualmente il deficit non rappresenta un problema, la tesi più comune è che gli sviluppi futuri rappresenteranno eccome una minaccia per la stabilità dell’economia mondiale. Analizziamo dunque alcuni dei possibili percorsi per ottenere una correzione “armoniosa” del disavanzo di bilancio statunitense e degli squilibri globali che genera. È necessario avere ben chiaro, a questo punto, a che cosa ci riferiamo quando parliamo di riduzione a livelli sostenibili del deficit. Mussa (2005) e Papadimitrou (2005) fissano la soglia di sostenibilità tra il 2% e il 3% del PIL, ossia si rende necessaria una riduzione di circa tre punti percentuali del PIL; ciò consentirebbe di stabilizzare la PIIN a un valore ragionevole e di mantenere il tasso attuale di crescita economica reale al 3%. In tal senso, sono tre le modalità comunemente accettate per l’aggiustamento; esse sono intimamente legate e in loro assenza è poco probabile che si giunga a una soluzione concertata a livello globale. La prima è l’aumento dei livelli di risparmio nazionale degli Stati Uniti, per mezzo dell’aumento del risparmio privato (difficile da ottenere data l’impossibilità di influire in modo sensibile, tramite misure di politica economica concrete, sulle tendenze al risparmio nel breve periodo) oppure per mezzo della riduzione del deficit fiscale, settore in cui le misure economiche prese dal governo possono influire direttamente. Questo punto ha un’importanza chiave quando si pensi a possibili accordi internazionali, poiché è uno dei nodi gordiani che Rodrigo Rato, dirigente del Fondo Monetario Internazionale, ha definito “blame game” (FMI 2005). In questo gioco globale avremmo tre attori principali: gli Stati Uniti, l’Unione Europea e il Sudest asiatico più il Giappone. Mentre gli Stati Uniti accusano le altre due parti - il Sudest asiatico per l’applicazione di politiche valutarie che impediscono la svalutazione del dollaro, a scapito degli aggiustamenti; l’Unione Europea per la sua passività nel proporre riforme strutturali che le consentano di riprendere la crescita, riducendo così il peso in termini di domanda aggregata globale sulle spalle degli Stati Uniti - Unione Europea e Sudest asiatico puntano insieme il dito contro gli Stati Uniti, sostenendo che è assurdo pensare di aggiustare le loro economie in risposta a uno squilibrio “made in USA”, risultato di decisioni di politica economica di quel paese. Stando così le cose, solo una promessa credibile da parte del governo degli Stati Uniti di mettere in ordine le faccende domestiche, ossia ponendo fine al disavanzo di bilancio fiscale, può stimolare l’adozione di misure concrete dall’altra parte. Nonostante la precedente argomentazione presenti diverse lacune11, essa ci consente di entrare in pieno nel complesso meccanismo fiscale statunitense. Come già segnalato nella prima sezione, la risposta principale da parte dell’amministrazione Bush di fronte alla recessione di inizio millennio è stata un cambiamento radicale dell’impostazione fiscale, che si è basata su due elementi chiave: i tagli alle imposte e l’aumento delle spese per la “difesa”12, in risposta agli eventi dell’11 settembre. Nel caso dei tagli alle imposte, inizialmente temporanei, sono state approvate ottanta disposizioni, tra cui si segnalano per l’importanza e per gli effetti generati l’Economic Growth and Tax Relief Reconciliation Act del 2001 e il Jobs and Growth Tax Relief Reconciliation Act del 2003 (CBO 2006). Nonostante alcune di queste disposizioni siano state abrogate nel 2005, la porzione più estesa del pacchetto di tagli ha validità nel periodo compreso tra il 2006 e il 2016; per esempio il 31 dicembre 2010 non saranno più in vigore i due provvedimenti sopraccitati. In linee generali, sotto l’influsso dei principi dell’economia dell’offerta, si è pensato di ridurre le obbligazioni tributarie dei contribuenti statunitensi (grafico 9), in particolar modo quelle di coloro con elevati livelli di entrate, attraverso misure come l’esenzione dalle imposte su dividendi e capitale, riduzioni sensibili delle imposte cooperative e cancellazione di imposte statali, con l’obiettivo di stimolare l’economia grazie all’aumento dei livelli di risparmio e quindi di investimento, secondo quanto predicato dalla squadra di economisti dell’amministrazione Bush. La cosa certa è che, oltre a quanto profondamente errata sia questa visione dell’economia, che sicuramente si basa più su elementi ideologici che accademici, i tagli alle imposte rispondono a un progetto politico che va ben oltre l’attuale amministrazione e che lentamente ma senza ombra di dubbio durante gli ultimi venticinque anni sono divenuti la struttura fiscale del paese, che è passata da basarsi principalmente sulle imposte sulla rendita - e quindi essere mediamente progressiva - a basarsi sulle imposte sul consumo. Il carico fiscale è quindi stato trasferito in maniera decisa sui ceti inferiori. Inoltre le spese per la difesa sono diventate durante l’amministrazione Bush la voce del bilancio con l’aumento più rilevante, passando dai 298 miliardi di dollari nel 2001, esattamente il 3% del PIL, a circa 500 miliardi di dollari nel 2005, ossia oltre il 4% del PIL. A quanto appena detto andrebbero aggiunti i fondi speciali approvati dal Congresso per finanziare le illegittime occupazioni militari in Afghanistan e Iraq e per portare a termine i programmi dell’Homeland Security Act: ossia altri 324 miliardi di dollari tra il 2001 e il 2005, circa 80 miliardi di dollari all’anno. L’analisi attenta dell’evoluzione dell’economia statunitense nel secondo dopoguerra rivela che l’esistenza di deficit fiscali ha giocato un ruolo chiave per l’equilibrio dell’economia del paese. La scomparsa del deficit fiscale alla fine degli anni Novanta, a tutti gli effetti una pietra miliare, implicò però la comparsa di un deficit del settore privato nel suo insieme, altra pietra miliare, e di conseguenza elevò i livelli di indebitamento a livelli, perché no, storici. L’esistenza di questo fenomeno permette di affermare che il tema di fondo non è se il deficit sia buono o cattivo, siccome è necessario se si vuole mantenere un’economia in salute o livelli vicini al pieno impiego. Il punto cruciale non sono solo le decisioni di politica economica, che definiscono sia i livelli sia la composizione delle spese e delle entrate dello Stato, ma anche la forma e le modalità con cui si prendono tali decisioni. Riguardo alle recenti decisioni di politica economica dell’amministrazione Bush, si potrebbe pensare se un’altra strada, alternativa a quella dei tagli e della guerra, poteva essere intrapresa: è proprio l’analisi delle istanze e dei meccanismi decisionali a porre fine alla questione con un no deciso. Questo no deriva dal fatto che sia le politiche di tagli alle imposte sia la guerra al terrorismo avevano fin dall’inizio13 il chiaro obiettivo di beneficiare un piccolo e selezionato settore della società statunitense, la cosiddetta élite del potere, a scapito del resto della popolazione. In tal senso entrambe le politiche furono semplicemente un favore da parte dell’amministrazione Bush ai potentati politici ed economici che la elessero, ricorrendo per giunta alla frode elettorale. È l’esistenza di questo tacito compromesso che permette alla presente amministrazione di vedere con chiarezza il futuro della politica fiscale statunitense (si veda il grafico 8). Sebbene la proiezione base, realizzata a partire dalla legislazione tributaria e fiscale vigente, indica che già nel 2012 il bilancio registrerà di nuovo un piccolo sopravanzo, è davvero poco probabile che ciò accada, in primo luogo perché l’amministrazione Bush si batterà sino all’ultimo per l’adozione permanente di tagli alle imposte, coronando venticinque anni di sforzi per trasformare in maniera definitiva il sistema tributario statunitense, in secondo luogo perché, lontane dal diminuire, le voci di spesa destinate al complesso militare e industriale continueranno ad aumentare a ritmi vertiginosi14, con il pretesto dell’instabilità politica internazionale, generata “ironicamente”15 dalla stessa guerra globale al terrorismo. Per quanto concerne le implicazioni economiche di lungo periodo del deficit attuale, è molto acceso il dibattito sulla crescita del debito governativo. Secondo l’ultimo rapporto del CBO (CBO 2006), il debito federale degli Stati Uniti è di circa 7.900 miliardi di dollari e se è cresciuto ai ritmi degli ultimi tempi esso deve essere arrivato al suo massimo limite fissato per legge di 8.134 miliardi di dollari... il gennaio scorso16. Anche se è indubitabile che un elevato livello di debito possa giungere a limitare la capacità di uno Stato di soddisfare i propri obblighi verso i cittadini, nel caso statunitense il problema del debito federale si basa su studi che sovrastimano l’impatto del medesimo. In Galbraith (2005) si dimostra chiaramente come le stime della crescita del debito federale aumentano considerevolmente il rapporto debito federale/PIL, comparando la crescita del debito in scenari nei quali il deficit fiscale è maggiore di quello dello scenario base del CBO. In altre parole, tali studi non riconoscono l’impatto che può arrivare ad avere sulla crescita economica un deficit fiscale di 2 o 3 punti percentuali del PIL maggiori che nello scenario base, sovrastimando così il reale rapporto debito/PIL nel futuro. Tutti gli elementi appena esposti consentono quindi di concludere questa sezione: in primo luogo è poco probabile che l’amministrazione Bush mantenga la promessa di ridurre il deficit della metà entro la fine del proprio mandato; in secondo luogo tale attitudine non rappresenta una minaccia reale in termini di debito federale, per cui sarebbe una speranza illusoria ottenere una riduzione del deficit commerciale attraverso una riduzione del deficit fiscale, anche se il settore privato fosse capace di migliorare la posizione deficitaria attuale e così provvedere alla riduzione del deficit fiscale, senza ripercussioni sulla crescita economica del paese. Una seconda modalità di aggiustamento, su cui tende a concentrarsi la discussione a livello mondiale, è la svalutazione del dollaro. Una riduzione significativa del valore del dollaro aiuterebbe a sanare gli squilibri della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti, in due modi: in primo luogo sarebbe il meccanismo dei prezzi a incentivare al meno in teoria una riduzione dei livelli di importazione, migliorando così le esportazioni nette del paese; in secondo luogo ci sarebbe l’effetto sulla PIIN. Essendo gran parte dei passivi in dollari e circa il 70% degli attivi in altre valute, una svalutazione uniforme del dollaro rispetto alle altre monete significherebbe un aumento del valore degli attivi all’estero misurato in dollari (con la diminuzione del valore dei passivi), riducendo così in maniera considerevole la PIIN degli Stati Uniti. Studi specializzati sul tema - Dos Santos (2004), Mann (2004), Rajan (2005) - indicano che il valore del dollaro rispetto al picco del suo valore nel febbraio 2002 deve diminuire tra il 25% e il 50% per ottenere una diminuzione significativa del deficit commerciale statunitense. Esistono però importanti forze dell’economia mondiale che hanno impedito tale riduzione: in primo luogo le economie del Sudest asiatico, soprattutto la Cina, che con l’obiettivo di mantenere alti tassi di crescita economica basati fondamentalmente su una riuscita strategia esportatrice, sono intervenute sistematicamente sui mercati valutari accumulando riserve, poi depositate nelle securities del Tesoro degli Stati Uniti, per impedire che le proprie monete si valutassero rispetto al dollaro. Di pari passo, esse registrano crescenti sopravanzi di bilancio, che oggigiorno, nel loro insieme, si aggirano sui 200 miliardi di dollari (si veda la tabella 3 e il grafico 14). Tuttavia allo stato attuale non sono i paesi del Sudest asiatico a registrare il maggior sopravanzo di bilancio, ma i paesi esportatori di petrolio, che in conseguenza dell’aumento del prezzo di questo bene hanno avuto sopravanzi di bilancio di 400 miliardi di dollari, ossia quasi il doppio di quello registrato dai paesi del Sudest asiatico; essi sono diventati così i grandi beneficiari del disavanzo di bilancio statunitense e del suo impatto sull’economia globale. In tal senso è importante segnalare che una caratteristica comune ai due gruppi consiste nell’applicazione di politiche monetarie mirate a mantenere fisso il valore della loro moneta rispetto al dollaro17, nonostante l’incessante aumento dei rispettivi sopravanzi commerciali. Nel caso dei paesi asiatici, la principale resistenza alla rivalutazione proviene dalla necessità di mantenere l’attività esportatrice, generatrice di posti di lavoro, anche se la competizione dentro lo stesso blocco commerciale potrebbe scatenare una reazione a catena di rivalutazione, una volta che la Cina, su cui vengono esercitate forti pressioni, decida finalmente di rivalutare la propria moneta in modo apprezzabile. Per quanto concerne i paesi esportatori di petrolio, la principale reticenza a rivalutare la propria moneta è dovuta alle esperienze del passato, associate all’aumento del prezzo del petrolio, in primo luogo il fatto che i prezzi del petrolio non rimangono alti per molto tempo. Così sebbene oggi i sopravanzi commerciali sono aumentati in modo spettacolare grazie al rialzo proprio dei prezzi del petrolio, facendo apparire le monete dei paesi esportatori come notevolmente svalutate, una diminuzione dei prezzi del greggio e quindi delle bilance commerciali potrebbe cambiare radicalmente la stima del valore “corretto” delle monete di tali paesi. Anche per i paesi della zona dell’euro e del Giappone e per il loro possibile contributo alla correzione del valore del dollaro non esiste un panorama ben delineato. Non solo perché entrambi i blocchi hanno registrato per più di un decennio un comportamento economico negativo in termini di crescita, ma anche perché hanno scommesso fortemente sulle esportazioni nette come fonte di domanda per rilanciare le proprie economie, per cui il valore delle loro monete rispetto al dollaro è un fattore chiave all’interno della loro strategia. Ciononostante è stato l’euro a dovere sopportare gran parte del peso del breve periodo di svalutazione del dollaro - tra il 2002 e il 2005 - rivalutandosi del 23%; è difficile dunque aspettarsi un’ulteriore rivalutazione nel futuro prossimo. Agli elementi precedenti che hanno reso difficile la svalutazione del dollaro, e che sono in larga parte i responsabili della tendenza all’aumento del suo valore durante tutto il 2005, vanno aggiunti i differenziali dei tassi di interesse e gli elevati prezzi del petrolio (si veda il grafico 10). Il primo caso è il risultato del ciclo di incrementi dei tassi di interesse che sta portando avanti la Federal Reserve [la Banca centrale] degli Stati Uniti dal giugno del 2004 e che ha fatto registrare dodici aumenti consecutivi, fissando il tasso di interesse della FED sulla soglia del 4% (si veda il grafico 11). Se si tiene conto del fatto che i tassi di interesse in Europa sono rimasti stabili al 2% per oltre due anni e che i tassi di interesse in Giappone sono dello 0%, è facile comprendere perché gli investitori internazionali hanno smesso di preoccuparsi tanto del deficit statunitense e hanno cominciato a pensare maggiormente agli utili dei propri investimenti. Nel secondo caso, nonostante possa sembrare paradossale segnalare che gli alti prezzi del petrolio hanno aiutato a sostenere il valore del dollaro (si veda il grafico 12), tenendo conto del fatto che un aumento di 10 dollari nel prezzo del greggio significa un aumento di 60 miliardi di dollari nel conto delle esportazioni, è certo che secondo quanto stimato dal Credit Suisse First Boston per ogni 10 dollari di aumento della quotazione del petrolio, la domanda di dollari aumenta di 300 milioni di dollari al giorno18. È così evidente che con la nascita dell’euro, più che il controllo diretto sulle fonti di petrolio, la chiave è la moneta in cui si commercializza tale bene19. Il terzo modo per ottenere l’aggiustamento e attorno al quale dovrebbe concentrarsi tutta l’attenzione è un cambio dei patrones della domanda aggregata globale. In termini economici, ciò significa che negli Stati Uniti la domanda domestica dovrebbe crescere a un ritmo più lento della produzione, con l’obiettivo di creare margine per l’espansione delle esportazioni nette. La controparte di questo processo è che a livello mondiale la domanda domestica dovrà crescere più rapidamente della produzione per consentire una riduzione delle esportazioni nette e il conseguente miglioramento delle esportazioni nette degli Stati Uniti. Il problema di quest’approccio di transizione armoniosa è che esso non prende in considerazione il problema chiave: nell’attuale sistema monetario e finanziario tutto il peso ricade sopra il debitore deficitario. Allo stesso tempo è l’economia deficitaria che deve deprimere il proprio mercato interno per ridurre il deficit e rendere possibile il pagamento del debito, diminuendo così il sopravanzo commerciale del resto del mondo, deprimendo l’economia globale nel suo insieme. È importante ricordarlo poiché gli Stati Uniti non sono un’economia qualsiasi, ma insieme alla Cina è la principale fonte di domanda aggregata globale (si veda il grafico 13), per cui una riduzione del deficit senza che esistano altre fonti di domanda sarebbe catastrofica per l’economia mondiale. Infatti anche se i sostenitori del Global Savings Glut (si veda il grafico 14) sostengono che ciò che serve sono maggiori livelli di investimento in Asia e maggiori livelli di spesa nei paesi esportatori di petrolio, risulta chiaro che dopo vent’anni di aggiustamenti strutturali, che hanno depresso i mercati nazionali, concentrato le entrate e provocato crisi finanziarie in ogni dove, è molto difficile che la transizione possa avvenire in maniera incruenta. Un’analisi profonda di questo tema esula comunque dai propositi di questo lavoro.

4. Il fantasma della grande crisi

Si è molto dibattuto sulla possibilità di una grande crisi del sistema capitalista, originata dagli squilibri globali dovuti al disavanzo di bilancio statunitense. Un’analisi attenta delle informazioni disponibili consente di constatare con una certa chiarezza che, sebbene il fantasma della grande crisi si intravede all’orizzonte, anche se dovesse crollare il ritmo di crescita economica degli Stati Uniti, sarebbe comunque una recessione in più per la storia, di certo traumatica per gli Stati Uniti e per il mondo, ma che permetterà di alleviare e di correggere - dipende dall’estensione della crisi - gli squilibri della bilancia dei pagamenti mondiale e i grandi squilibri presenti all’interno dell’economia statunitense. In tal senso la preoccupazione maggiore dell’economia statunitense oggi ha a che vedere con la capacità dei consumatori statunitensi di continuare a essere la fonte principale della domanda aggregata del paese. Come già segnalato, la base dell’espansione economica degli anni Novanta era stato l’incremento del consumo delle famiglie statunitensi attraverso la riduzione degli già esigui loro livelli di risparmio e un aumento dei crediti che permisero di finanziare l’aumento dei consumi. La crescita della ricchezza delle famiglie, resa possibile dal boom azionario e dei bienes raíz, consentì l’incremento dei crediti che portò alla fine degli anni Novanta all’indebitamento delle famiglie a livelli record. Tuttavia, l’esplosione della bolla speculativa significò un duro colpo per le famiglie, che come risposta tagliarono i propri consumi con l’obiettivo di ricomporre la propria ricchezza finanziaria. Ciò fu la causa della recessione che colpì gli Stati Uniti tra il 2001 e il 2003. Il governo rispose sostituendo i consumatori come principale fonte di domanda aggregata, tramite l’applicazione di un keynesianesimo di guerra e la riduzione dei tassi di interesse. Quest’ultimo elemento ha permesso alle famiglie indebitate di mantenere elevati livelli di consumo, con la riduzione al minimo del pagamento degli interessi come parte delle entrate disponibili e dando nuova linfa al mercato ipotecario statunitense. Il presente processo di risalita economica però, caratterizzata dalla scarsa creazione di posti di lavoro e quindi dalla mancanza di un incremento sensibile delle entrate delle famiglie, sta portando all’estremo la resistenza delle famiglie che si trovano di fronte al dilemma se continuare a consumare ai livelli attuali a costo di vedere aumentare i propri livelli di indebitamento oppure se diminuire il consumo e far fronte alle proprie obbligazioni. In questo dilemma svolge un ruolo chiave quello che potrà accadere con il valore della propiedad raíz. Per nessuno è un segreto che il settore dei bienes raíces negli Stati Uniti sia in una bolla, in cui i prezzi in rialzo hanno assunto vita propria, per lo meno sino a poco tempo fa, quando hanno cominciato a dare segnali di rallentamento nel settore (Papadimitrou 2005). La domanda è quando esploderà la bolla. Accadrà in mezzo a una spettacolare caduta dei prezzi in un breve lasso di tempo oppure succederà come nel caso britannico, in cui i prezzi nominali si sono ridotti pian piano durante un decennio, permettendo di ridurre l’impatto dell’esplosione della bolla? In questo modo, la cosa veramente preoccupante non è che il consumo diminuisca - deve farlo poiché si è mantenuto su livelli che per forza non sono sostenibili - ma che non esista un’altra fonte di domanda aggregata che consenta di mantenere l’economia statunitense in piedi. Tenendo conto del fatto che la spesa fiscale è già ai limiti massimi, gli investimenti si scontrano con i tassi di interesse più alti degli ultimi sei anni e le esportazioni nette sono una nuova fonte tramite cui si filtra il 6% della domanda dell’economia statunitense.

note

* Direttore del dipartimento di Marxismo dell’Università di Pinar del Río, Cuba.

** Laureato in Economia presso l’Università di Pinar del Río, Cuba.

1 L’autore ringrazia i partecipanti al VII Incontro Internazionale di economisti sulla Globalizzazione e sui Problemi dello Sviluppo tenutosi all’Avana, Cuba, per i loro utili commenti alle versioni precedenti del presente lavoro.

2 Diversi studi hanno dimostrato che gli Stati Uniti hanno un’elevata propensione marginale a importare e quindi le importazioni crescono a una velocità più rapida che le esportazioni, compreso il caso in cui il PIL degli Stati Uniti fosse uguale a quello del resto del mondo. Si veda Godley (2000).

3 La riduzione del valore del dollaro si traduce nella diminuzione del PIL statunitense quando lo si paragoni con il PIL degli altri paesi, misurato in altre valute, che è poi convertito in dollari.

4 È in corso un acceso dibattito se l’architettura del sistema monetario e finanziario adottato dalla Conferenza di Bretton Woods fosse la miglior scelta possibile, alla luce dei problemi che ha causato l’evoluzione della struttura monetaria e finanziaria internazionale. L’emergere al termine della Seconda guerra mondiale degli Stati Uniti come potenza egemonica fece pendere il piatto della bilancia verso la proposta statunitense del professor Harry Dexter White, per cui il dollaro diveniva lo strumento di cambio e la riserva di valuta dell’economia mondiale, a scapito della proposta keynesiana avanzata dalla Gran Bretagna, che prevedeva la creazione di una moneta emessa dal Fondo Monetario Internazionale, in un sistema di riserve unificate e di un controllo assoluto sui flussi privati di capitale, senza che necessariamente ciò implicasse che la proposta statunitense fosse più coerente e percorribile in termini economici.

5 Como si sostiene in Arriola e Vasapollo (2004), era il riferimento all’oro che agiva come limite all’espansione dell’indebitamento reale degli Stati Uniti. Così la nascita dell’euro è stata la risposta del blocco europeo all’instabilità valutaria generata dalla fine del sistema aureo, così come un tentativo di ridurre la dipendenza dal dollaro come moneta con cui saldare i pagamenti internazionali.

6 Gran parte del materiale e dell’analisi presentati in questa sezione proviene dalle eccellenti pubblicazioni e studi realizzati sull’evoluzione dell’economia statunitense dagli accademici del Levy Institute of Economics (www.levy.org).

7 Di fatto, nel secondo dopoguerra il settore privato non aveva mai fatto registrare un bilancio negativo; esso tendeva a fluttuare attorno al suo livello storico, ossia un saldo favorevole di circa il 2% del PIL statunitense. Si veda Godley (2005).

8 La composizione di tale stimolo fiscale è criticabile da innumerevoli punti di vista che discuteremo più avanti nel presente lavoro.

9 Di fatto, il numero di famiglie che ha llenado aplicaciones per coprirsi in caso di bancarotta è salito ai massimi storici negli ultimi anni. Si veda Arestis (2004).

10 Sia che si tratti di investimenti diretti esteri, di Inversión en Cartea, di prestiti, di buoni ecc.

11 La principale è l’omissione del fatto che l’attuale situazione è il risultato di una combinazione di politiche che rispondono a congiunture interne ai diversi blocchi e quindi semplici accordi internazionali non influenzeranno tali politiche, a meno che non si verifichi un evento di forza maggiore per cui tutti gli interessati saranno obbligati a sedersi al tavolo delle trattative e trovare un accordo per salvare il sistema.

12 È comunque difficile definire “spese per la difesa” fondi di bilancio che finanziano la costruzione dell’infrastruttura militare più potente e letale del mondo, su cui si basa la rediviva e a volte dimenticata dottrina nazista della guerra preventiva, assunta dall’amministrazione Bush.

13 Il fatto che lo sviluppo di piani di guerra contro l’Iraq da parte dell’amministrazione Bush sia iniziato evidentemente ben prima dell’11 settembre permette di ritenere che anche senza gli attacchi dell’11 settembre l’amministrazione Bush avrebbe cercato un altro pretesto, come per esempio la presunta connessione tra Saddam Hussein e Al-Qaeda oppure le armi di distruzione di massa, per spingere l’opinione pubblica verso una guerra contro l’Iraq.

14 Non è quindi casuale che l’amministrazione Bush utilizzi fondi extra per finanziare una parte importante delle spese per la difesa. Ciò sarà sempre più parte di una strategia più ampia in cui si destineranno fondi appositi per compiacere ai “fiscal hawks” di Washington, per la copertura di tutte le spese militari. Durante l’anno fiscale, si procede ad appropriazioni, che negli anni passati sono state dell’ordine di 80 miliardi di dollari, che consentono di soddisfare le bramosie del complesso militare e industriale e che di fatto non fanno che aumentare le spese per la “difesa”.

15 La creazione di zone di instabilità attraverso il sostegno a gruppi fondamentalisti o radicali - così come l’esaltazione della minaccia comunista - è uno strumento utilizzato storicamente dai diversi governi degli Stati Uniti per giustificare la successiva presenza di truppe nelle varie regioni di importanza geostrategica ed economica.

16 Tale limite fa parte di una legge di responsabilità fiscale approvata proprio per evitare che un’amministrazione porti il debito federale a livelli insostenibili per la nazione, mettendone in pericolo il futuro stesso. La stessa legge prevede che una volta che si giunga al limite massimo di indebitamento il Tesoro degli Stati Uniti è impossibilitato a emettere nuovo debito (CBO 2006). Non risulta quindi casuale che da marzo 2005 il Tesoro abbia smesso di pubblicare las cifras de M3, con l’obiettivo - avanziamo un’ipotesi - di diminuire il ritmo a cui si emette nuovo debito, finanziando il restante con emissioni di dollari, mentre si sta negoziando con il Congresso un nuovo limite al debito federale, senza così danneggiare il grande affare della guerra.

17 Esiste però una differenza importante tra i due gruppi. Nel caso dei paesi esportatori di petrolio, la maggior parte delle riserve non è maneggiata da una Banca centrale ma da fondi di stabilizzazione petrolifera il cui obiettivo è l’ottimizzazione dei guadagni, che può quindi minare la stabilità del valore del dollaro.

18 “Reciclyng the Petrodollars”, The Economist online edition, 10 novembre 2005.

19 Questo spiegherebbe l’avversione, al punto di muovere guerra, da parte degli Stati Uniti alla creazione di una Borsa in Iran, in cui si commercia il petrolio in euro (Dierckxsens 2006).