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Andrea Micocci
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Professore all’Università di Malta-Link Campus

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Logiche viziate e risposte mancate.
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“Deorumque nominibus appellant secretum illud, quod sola reverentia vident”
Andrea Micocci


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“Deorumque nominibus appellant secretum illud, quod sola reverentia vident”

Andrea Micocci

(per una risposta a Carchedi)

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1. Introduzione

Il vizio di circondarsi di misteri tutti intellettuali è tipico delle società organizzate, qualsiasi il loro grado di sviluppo. Il mistero e la complicazione evolvono con la civiltà, cambiando oggetto. Per Tacito i Germani, nella loro pur ammirevole e virtuosa inciviltà, chiamavano tali misteri con il nome degli dei; ma tutto originava in visioni prodotte dalla “sola reverentia”, il mero timore sacrale. Gli economisti di oggi fanno la stessa cosa: si pongono un problema nato dalla “sola reverentia”, e lo complicano dandogli connotazioni religiose. Come per i Pitagorei, per gli economisti una matematica malintesa ed elementare è il linguaggio degli dei. Il problema della trasformazione è un caso tipico. Carchedi mi fa l’onore di una risposta al mio scritto nel quale parlo anche del suo sistema (Micocci, 2006, Carchedi, 2006). Io gli sono molto grato, perché malgrado tali polemiche debbano essere la norma in accademia, avvengono raramente in quanto gli economisti, come ho segnalato in (2005), non leggono. È dunque mio preciso dovere rispondergli con il massimo rigore possibile. Purtroppo Carchedi, come molti economisti, tralascia o neglige gli aspetti teorici, anche entro un singolo scritto. Per concentrarsi su ciò che gli sta a cuore egli non considera adeguatamente il ragionamento generale. Ciò lo porta ad equivocare la mia opposizione al suo sistema, ad attribuirmi posizioni che non ho, a rifiutare di considerare il ragionamento proposto, ed addirittura a definirmi, con un sillogismo peraltro logicamente viziato, un “apologeta” del capitalismo. Come se non bastasse, malgrado il ripetuto tentativo di dare coerenza ad un Marx i cui scopi evidentemente deve conoscere meglio di tutti gli altri, Carchedi utilizza metodi non marxisti (l’approccio economico); di conseguenza, chi leggesse i due scritti troverebbe un marxista, me, ed un economista, Carchedi. Ciò mi fa sorridere. Il problema principale è che come la stragrande maggioranza degli economisti Carchedi non immagina nemmeno che: a. Vi possano essere novità teoriche; b. L’economia possa essere criticata veramente, e definita per quello che è, una inutile assurdità logica il cui motivo di esistere non ne è il valore come scienza ma la corrispondenza intellettuale-logica con le assurdità del capitalismo così come lo conosciamo. Ma vedremo a tempo e a luogo. Sia chiaro che in (2005) e (2006) intendevo mostrare, sia pur brevemente, i problemi logici dell’economia, e proporre, anche se come primo tentativo, una nuova - nuova vuol dire mai detta prima - visione del problema della trasformazione, che consideri il dramma dietro alla questione teorica, quello di chi lavora. Non “scomodo” dunque Hegel, Bacon, Marx e Smith: faccio invece esercizio di modestia filosofica affermando che la novità della mia proposta non può prescindere dal loro lavoro. Gli economisti considerano queste cose inutile erudizione perché ricavano orgoglio anziché umiliazione dalla corrispondenza tra la loro materia e la mentalità capitalista. Eppure avevo avvertito (2006, p.106) che la lettura non era “per menti pavide e conservatrici” ma per “bambini e menti avventurose”. Non facevo, né farò qui, “scienza, ma filosofia” (ibid.), perché è necessario comprendere in tutta la sua durezza il dramma dei lavoratori nel capitalismo. Comincerò con il riprendere alcuni temi fondamentali per la comprensione del resto. Evidentemente non li avevo espressi con sufficiente chiarezza, e non posso che ringraziare Carchedi per l’opportunità datami di ripetere la spiegazione. Nella sezione successiva passerò in rivista i vari punti proposti da Carchedi, confutandoli. Nella quarta darò una breve visione di quello che la trasformazione è se si segue il mio ragionamento. Nelle conclusioni mi concentrerò sulla relazione di tutto quello che dico con il concreto, il materiale, cioè la realtà dei problemi del lavoro nel capitalismo, per dare ancor più risalto alla metafisica proposta invece da Carchedi. Non ho mai provato soddisfazione a vincere dispute e giochi, né la provo ora. Vorrei solo contribuire alla comprensione dei fenomeni nella forma più logicamente diretta: questo è ciò che chiamo libertà, e per questo mi batto.

2. Alcune inevitabili premesse

Cominciamo con il dire che il marxismo è una tradizione di pensiero (e non una ideologia monolitica) che fa parte della più ampia tradizione materialistica Europea (Micocci, 2002). Chi si riferisce a questa tradizione deve concentrarsi sul concreto, e da questo partire. Un metodo di questo genere non implica quello che le scienze sociali chiamano “multidisciplinarità”, cioè il mettere insieme aspetti e strumenti di varie materie. Un metodo materialista ha bisogno di concentrarsi in maniera logica sul concreto superando proprio gli schemi di interpretazione forniti dalle intellettualità dominanti: la parola per questa cosa esiste da migliaia di anni, ed è “filosofia”. La tradizione materialistica marxista è perciò una “critica” filosofica dell’economia e delle scienze sociali borghesi. Un economista o sociologo marxista non possono esistere. Le implicazioni di questa faccenda sono importantissime: un metodo esclusivamente economico non può essere marxista, né risolvere problemi marxisti. La trasformazione dei valori in prezzi è un caso tipico. Essa avviene in pratica ogni momento nella realtà malgrado gli economisti credano di non poterla risolvere, o credano di averla risolta quando ne hanno dato una interpretazione economica. Lo scritto di Carchedi pone poi un secondo problema generale: la presunta coerenza di Marx. Questo è proprio un problema da economisti: si vuole trasformare il ricchissimo ed inconcluso lavoro di Marx in un insieme di regolette applicative, partendo da un minimo insieme di altre regolette. Mi dispiace, ma non ho tempo da perdere con questa roba: il dovere di uno studioso non è di far dire qualcosa di coerente (cioè di stupido, visto che la forza intellettuale è fatta anche di idee abbandonate e ripudiate) ad un autore morto, ma di dire qualcosa di altro da quello che l’autore morto ha detto, pur riconoscendo l’importanza del passato (lo scomodare Marx e Bacon che Carchedi disprezza). Marx può dunque benissimo essere incoerente, perché serve a farci pensare, e non è un idolo che ognuno si costruisce dalla “sola reverentia”. Ma forse sono troppo abituato ad essere chiamato marxista dai liberali e liberale dai marxisti, ed ora anche “apologeta del capitalismo”. Un tempo ero conosciuto anche come “anarchico musulmano”, e vi è stato addirittura chi mi ha dato dello stalinista. Il terzo punto generale importante è la logica dell’economia. Per non ripetere quanto già detto in vari luoghi (si veda oltre ai due scritti ai quali ci riferiamo qui Micocci, 2002, 2004a, 2004b) dirò solo che (vedi Micocci, 2002) Marx aveva criticato le ipostatizzazioni degli economisti Classici, cioè la loro a-storicità. Il dibattito degli anni ‘60 e ‘70 con Colletti e Della Volpe aveva ampliato questa critica agli economisti mainstream, quelli dominanti (borghesi). Ciononostante, l’economia non è stata fermata, ed abbiamo avuto addirittura i marxisti analitici (rational choice). Nei miei (2002, 2004a, in preparazione) cerco di provare l’identità intellettuale-logica tra teoria economica e relazioni economiche e sociali capitaliste. Parto da quanto lì acquisito per spiegare in quanto segue un paio di cose importanti. In primo luogo, l’economia dominante ha ottime possibilità di rendere, interpretare ed operare nella realtà capitalista. Sono due identiche assurdità logiche le cui conseguenze sulla psiche umana sono uguali: necessità di un quadro istituzionale fermo, altrimenti detto stato-nazione, incapacità di avvicinarsi in pratica al libero mercato (che ne riaprirebbe i limitati orizzonti emotivi ed intellettuali), abitudine a ragionamenti basati su sillogismi sempre identici e poveri (le regole dell’economia marginalistica, per esempio). Da tutto ciò deriva il secondo punto: non vi è né vi può essere, malgrado la vuota retorica al riguardo, innovazione/novità di alcun tipo sotto il capitalismo. Le condizioni descritte sopra lo rendono un luogo a funzionamento iterativo. Tali iterazioni, con le loro piccole ed inevitabili variazioni, sono quanto gli economisti con vuota esagerazione chiamano innovazione, e più in generale addirittura il “dinamismo” del capitalismo. Ma il capitalismo non è dinamico nel senso sperato da Adam Smith: è statico nel senso spiegato da Walras. Questo è importantissimo per capire gli errori di base del metodo di Carchedi. Carchedi ha capito comunque in qualche modo che Walras e Samuelson hanno, secondo me, punti di contatto con la realtà. Ma si tratta della realtà capitalista, cioè una costruzione basata su di un’intellettualità logicamente errata e non su cose concrete, qualcosa dunque a metà tra l’astratto ed il materiale: una metafisica (2002, 2004a). Questa è “pura apologia del capitalismo”? Veniamo infine alla questione della matematica e delle tabelle. Tali strumenti sono utilissimi quando accorciano il testo, o per fare un esempio esplicativo, ma inutili e dannosi altrimenti. L’equazione 90c + 10v + 5s = 105V è identica alla più generale c + v + s = V ma errata e fuorviante se si vuole dimostrare che c + s + v = V nei Dipartimenti I e II devono perequare i profitti per poi procedere oltre. Se si lasciano le lettere nell’espressione si dà al lettore la possibilità di capire che si tratta di uno schema semplificato, che serve per fissare un pensiero generale dal quale poi passare alla realtà, al concreto. Mettendo i valori numerici si dà l’impressione fraudolenta di possedere dati reali, che Carchedi né alcun altro può avere, e che non servono al ragionamento in ogni caso. Carchedi in sostanza fa deviare il lettore sostituendo al ragionamento di base un esempio numerico. Ma gli esempi servono appunto a chiarire il ragionamento di base, non il contrario. In più, i numeri danno l’impressione (errata) che si sappia di cosa si sta parlando (i Dipartimenti I e II, due luoghi della teoria che servono da esempi schematici!) in termini tecnici ingegneristici (perché 90c e non 567c, o 12,9999999c?). In terzo luogo, mentre una espressione come c + v + s = V dà ampia libertà di lavoro su varie possibilità sia matematiche sia empiriche, l’aggiunta dei valori numerici riduce tutto all’inutile esposizione delle proprietà dei numeri in aritmetica. Qualsiasi operazione aritmetica potrà essere operata con garanzia di successo per definizione, visto che è proprio dalle proprietà dei numeri N che tali operazioni derivano le loro regole ed usi. I Dipartimenti I e II sono una utile schematizzazione introdotta da Marx. Però qualsiasi operazione aritmetica su valori numerici che vada oltre il ristretto ruolo di un modestissimo esempio tradisce il metodo materialistico, dunque Marx, e va a costituire una operazione meramente economistica. Il capitalismo è assurdo logicamente ma complesso, e merita più rispetto.

3. Gli errori minori di carchedi

Ormai da molti anni Carchedi si intestardisce, con i suoi amici, a voler spiegare il problema della trasformazione a tavolino, cioè da economista2. Per lui e per gli altri del suo gruppo la cosa si è addirittura trasformata in un aspetto fondamentale del marxismo, che solo può reggersi su di una soluzione coerente con Marx: “deorum nominibus appellant secretum illud, quod sola reverentia vident”. Mentre questi signori ripropongono (iterativamente, guarda caso) le loro tabelle numeriche dei Dipartimenti I e II il mondo capitalista compie infinite volte in pratica quella trasformazione dei valori in prezzi che dà a quasi tutti noi, ed in maniera ingiusta, il pane quotidiano. Ma ripercorriamo il ragionamento di Carchedi, cui non piace che io non sia stato convinto. “In primo luogo”, dice Carchedi, io concedo che il tempo esiste nel suo sistema: così è. Ma si chiede perché per me non si tratti di tempo storico né del ciclo produttivo. Banalmente, non è tempo storico perché si riferisce ad un fittizio ciclo produttivo espresso numericamente e non concreto né astratto, cioè espresso attraverso la pura logica che sola può sintetizzare la complessità del concreto ai fini della brevità descrittiva. Non si riferisce nemmeno al ciclo produttivo reale, perché non considera un’industria ma i Dipartimenti I e II, entità fittizie, schematiche ed esemplificative. Ecco, chiara ed evidente, l’analogia con le formule della matematica finanziaria. Qui Carchedi la dice giusta, ma intende il contrario: è la sua matematica finanziaria a non stare né in cielo né in terra, non essendo né materiale né astratta. “In secondo luogo”, dice Carchedi, io dò una strana definizione del problema della trasformazione. Egli mi attribuisce infatti una definizione dei “prezzi di produzione” che riecheggia quella di Bohm-Bawerk, e di qui parte a fare quello che sa, cioè confutare Bohm-Bawerk. Già che ci sta, confuta anche von Bortkiewicz. Ma non doveva confutare me? Un poco più di attenzione avrebbe permesso a Carchedi di vedere che io dico “prezzi” e non prezzi di produzione. Ancora più importante è notare che io parto da Adam Smith (p.106) che afferma che “though labour be the real measure of the exchangeable value of all commodities” (sebbene il lavoro sia la misura vera del valore scambiabile di tutte le merci), non lo si può usare in nessun modo in quanto è la realtà capitalista a determinare i valori volta per volta. Se avesse notato tutto questo avrebbe anche capito il discorso della seconda parte, quello fatto citando Rosenthal. Per finire su questo tema, Carchedi conclude il suo “secondo luogo” ribadendo (contra Bortkiewicz, e non me) il suo tempo ed invitando a confutare la sua tabella 3. Già fatto nella sezione 2, sopra. “In terzo luogo”, Carchedi mi accusa (giustamente) di dire che se fossero empiricamente dati i suoi prezzi sarebbero incongrui al resto della spiegazione, ed inoltre che la sua spiegazione è un ciclo di trasformazioni già avvenute. Proprio così. Vista la natura spuria e metafisica della sua spiegazione, prezzi empiricamente dati, appartenendo al concreto, sarebbero incongrui al resto, così come, del resto, prezzi determinati in astratto. Mi pare di non dover più perdere tempo al riguardo. Quanto alla seconda parte della sua critica, Carchedi si lancia in una lunga discettazione dalla quale deduce che (nel vero Marx solo a lui noto) i prezzi di produzione hanno un ruolo regolatore dei prezzi di mercato (perché faccia questa osservazione non so). “Per chiarificare” (chiarire?), rieccoci ai suoi tempi t1, t2 e t3, che chiamerò per maggiore semplicità cicli produttivi di matematica finanziaria 1 e 2. Misteriosamente, alla fine del periodo 1 gli output sono venduti “ai loro prezzi di mercato (valori non trasformati)”. A che è servito allora il ciclo produttivo? Alla fine del periodo 2 ciò avviene di nuovo, con i prezzi di mercato che tendono verso i prezzi di produzione (si può così stabilire la direzione tendenziale dei prezzi di mercato, ma chi se ne importa?). Qui le cose sono due: o la trasformazione c’è, ed allora ho ragione io, o non c’è come dice Carchedi, ed allora dove è il “susseguirsi di trasformazioni alla fine di ogni ciclo”? Se vi è un ciclo vi è una trasformazione, se un ciclo fornisce di input il seguente trasformazione vi è stata, ma è stata inutile ai fini di Carchedi. “In quinto luogo” Carchedi si perde. Dopo aver ricordato la mia affermazione che le sue tabelle non hanno alcun contatto con la realtà comincia a non capire più nulla di quello che dico. In una nota a piè di pagina asserisce che ciò che dico è strano visto che io credo nella causa intellettuale della sopravvivenza delle relazioni economiche e sociali del capitalismo. Credo di aver già spiegato sopra questa cosa, e vi ritornerò nella sezione che segue. Mi preme segnalare invece un più grave errore di Carchedi, non attribuibile ad un problema di battitura. Carchedi, dopo un’altra premessa sulla mia furia iconoclasta che farebbe scempio delle teorie della distribuzione e della produzione di Marx, che non so se corrisponda a verità, ma che come giustamente nota Carchedi “non mi turba”, arriva al punto. Per me l’economia non serve a molto: è esattamente così, qui l’ha detta giusta, anche se non sembra capire le implicazioni di quanto dico. Poi però si lancia in una citazione malandrina (pagg.111 e 112 del mio). “lo studio della trasformazione [...] è lo studio del capitalismo stesso [...] l’analisi di un mondo illogico [...] che non è [...] quello della teoria economica”. Carchedi ne deduce che “il problema della trasformazione è risolto abbandonando [...] tutta la teoria economica di Marx (e non solo di Marx)”. Ma ecco l’ultima frase della citazione vera: “[...] un mondo illogico che non è quello che prometteva di essere: non è dunque quello della teoria economica”3. Devo anche riportare un’ulteriore citazione, sempre dal mio (2006). “Se ci fosse soluzione economica al problema della trasformazione vorrebbe dire che il mistero della speculazione si è dissolto, e perciò la soluzione economica stessa sarebbe nulla” (ibid., appena sopra la citazione riportata da Carchedi). Carchedi procede dicendo che per me tutti i prezzi sono monetari e sono determinati solo dalla domanda e dall’offerta, deducendone una mia apologia del capitalismo. Forse avrebbe dovuto dedurne una mia incoerenza preoccupante, visto che all’inizio, proprio intorno alla citazione di Smith, dico che l’approssimata valutazione (monetariamente automatizzata) del lavoro è data “da ciò che è sufficiente a portare avanti la gestione della vita normale” (p.106). Da questo deriva che il problema va riportato ad un approccio storico-logico (marxista), dentro al concreto e fuori dal misticismo razionale dell’economia (di cui sono esempi eclatanti proprio domanda ed offerta, due entità che sono la più pura metafisica e risultano introvabili nella realtà se non a livello di termini ipostatizzati in economia, politica e nelle relazioni sociali, che per l’appunto esprimono pura metafisica). Nessuno può negare che il mondo concreto, non essendo quello del libero mercato che prometteva di essere per Smith e Marx, ha comunque risolto in pratica il problema della trasformazione. Anche concedendo a Carchedi che la sua soluzione è senza fallo (e non lo è), si dovrebbe perciò concludere in ogni caso che è completamente inutile: essa ha luogo nel mistero della speculazione, ove impera l’errore logico fine a sé stesso, e che è sempre un passo indietro rispetto alla realtà capitalista, ove il caso e l’istinto giocano parti importanti e dove l’ingiustizia comanda, e che quindi trova le proprie assurde pratiche soluzioni per vie analoghe a, ma diverse da, quelle della teoria economica. Andiamo a vedere la trasformazione da materialisti, nella “realtà storica” capitalista. 4. Breve ripetizione della trasformazione dei valori in prezzi Il capitalismo così come lo conosciamo, vale a dire la realtà economica e politica che ci circonda e che maltratta quelli di noi che lavorano in posizione subordinata, non è quella serie di oggetti e relazioni che Smith, Mill, Marx e gli altri si immaginavano che diventasse. La teoria economica (anche quella marxista) si è evoluta partendo per una tangente metafisica di indole dialettica, in questo riflettendo la metafisica dialettica che stava formando la base delle relazioni reali del capitalismo (condizionando perciò anche le entità materiali ad esse legate) nella direzione di quello che vediamo oggi. Non vi è libero mercato, non vi è stato minimale né anarchia, il corporatismo è la regola a tutti i livelli, il nazionalismo e l’imperialismo la fanno da padroni, i movimenti anti-capitalisti sanno solo proporre immagini speculari del capitalismo così come lo conosciamo. La teoria economica usa le stesse procedure della logica capitalista, e può accomodare tale presunta “realtà” nelle proprie teorie proprio perché le teorie stesse sono piene di buchi e salti logici. Il neoliberismo è l’esempio più eclatante di tale situazione: esso predica liberi mercati, de-regulation, nessuna dogana e poco stato e pratica l’oligopolio, la regolazione statale, il protezionismo ed il corporatismo. La realtà materiale non esiste più nelle percezioni di chi è entro il capitalismo così come lo conosciamo, mediata da questa logica comune alle teorie ed alle relazioni capitaliste (metafisiche). Il problema è dunque, per noi che guardiamo la realtà, recuperare il concreto, il materiale: uscire dalla mentalità capitalista. Questo, io credo, è il messaggio di fondo della tradizione materialistica di cui il marxismo è parte (vedi Micocci, 2002, 2004a, 2004b, in preparazione) e poco conta se Marx sia d’accordo. Gli schemi marxisti sono solo un’utile maniera di cominciare una classificazione. La realtà è però molto più frenetica (non “dinamica”, come credono gli economisti) ed “impura”, come direbbero ancora gli economisti con un orrido termine tipico del masochismo religioso del misticismo razionale. Nel capitalismo così come lo conosciamo i cicli di produzione e distribuzione si intersecano e si incrociano in mille modi a volte temporalmente incongruenti. Lo sfruttamento prende spesso forme non capitaliste (la schiavitù ad esempio, di cui vediamo ancor oggi molti casi), la composizione organica del capitale cresce e diminuisce in maniere del tutto inconsulte (si pensi all’outsorcing ed al post-fordismo in generale), lo stato è fascista, e chi più ne ha più ne metta. Che cosa rende tutto questo congruente e funzionante, e sopportabile a milioni di persone? Se lo sfruttamento fosse solo l’estrazione di un surplus quantificabile basterebbe sedersi attorno ad un tavolo e discuterne, o fare una rivoluzione proletaria. Perché tutto questo non è avvenuto? Perché la forza del capitalismo così come lo conosciamo è doppia: da un lato è complicatissimo, impuro e frenetico (lontano dalle teorie economiche e sociali), e dall’altro è intellettualmente ed emotivamente stabile ed univoco proprio nello stesso senso delle teorie economiche e sociali. Il capitalismo è dialettico, cioè segue una logica errata ed inibente. Secondo questa logica, come rilevo in (2002, 2004a, in preparazione) ed in (2006) citando Rosenthal (ho citato lui per non citare me stesso; siamo gli unici due anti-Hegeliani che conosco), le normali relazioni materiali vengono trascese, o, per usare le parole di Marx, divengono altre da sé stesse pur rimanendo sé stesse, proprio come nella dialettica Hegeliana. Le relazioni uomo-uomo non sono più dettate dall’istinto e dalle condizioni materiali ma trascese ed istituzionalizzate in concetti e regole che ne determinano il comportamento estraniandole (alienandole) dall’uomo e dal materiale in genere. Lo scambio di merci non è solo uno scambio: è il reciproco riconoscimento di fare parte di questa infelice metafisica4. È facile ora capire il ruolo del denaro, il “Gesù Cristo” delle merci di Marx, quello che automatizza e lubrifica l’intero sistema. È ancor più facile vedere che Adam Smith non aveva tutti i torti a rilevare la possibilità di una enorme massa di scambi quasi auto-regolantisi derivante dalla divisione del lavoro, dall’egoismo del macellaio e da tutto il resto. È anche evidente che le merci incorporano lavoro umano, che è ad un tempo “alienazione capitalista” e privazione non restituibile, e nemmeno retribuibile in alcun modo, di tempo e di fatica (di vita: una operazione non dialettica, il ritorno vendicativo della natura nel capitalismo, che fa scomparire ciò che mai più tornerà) per l’individuo che lavora: per la classe lavoratrice. Smith, fuorviando anche Marx, si adegua all’alienazione capitalista (metafisica e comunicabile con i mezzi maieutici intellettuali del capitalismo) piuttosto che guardare alla concreta perdita di vita individuale. La comunicabilità dell’alienazione (del lavoro) viene sottratta al materiale in termini dialettici che tutto trascendono, e consegnata al metafisico, diventando comunicabile sotto forma di “valore” incorporato nei prezzi. E qui tutto quadra in termini capitalistici. Il Gesù Cristo delle merci ci raggruppa in un ecumene guidato dal misticismo razionale. Un dramma (il lavoro) diventa un modo di determinare i prezzi e rendere le atrocità conseguenti la normalità capitalista. In questo quadro dove tutto è misurabile relativamente al resto gli scambi possono guadagnare il centro della scena lasciando il resto invariato, e farlo anche quando non di scambi si tratti ma di oligopolio e di tutto il resto che imprecisamente chiamiamo capitalismo. La composizione organica del capitale o i Dipartimenti I e II naturalmente sono ancora lì. Stiamo solo usando una semplificazione, la più generalizzabile semplificazione, per affermare un concetto generale concernente i meccanismi di funzionamento interno dell’economia capitalista. Riassumiamo: Anche se il valore (capitalista) delle merci incorporate nei prezzi è razionalmente (in senso capitalistico) determinato dal lavoro in esso incorporato, è la realtà dello scambio (di ciò che viene chiamato scambio, che è molto meno ma molto più dello scambio, visto che non vi è libero mercato) che determina il prezzo. Tale prezzo si allontana, a seconda delle circostanze, dal “valore” immaginario di riferimento della quantità di lavoro incorporato. Quanto qui detto non è una teoria, ma avviene in continuazione nel capitalismo in pratica. In altre parole il capitalismo permette nei fatti una continua trasformazione dei valori in prezzi in quanto tutte le variabili capitaliste sono passibili di trasformazione (basta che sia dialettica). Ci si può concentrare sul lavoro perché è la più immediata fonte di esistenza delle merci nonché il principale modo di sfruttamento dell’uomo. Ma il concetto generale è che è possibile effettuare la trasformazione perché tale è la proprietà della metafisica (dialettica) del capitalismo così come lo conosciamo. La trasformazione è l’essenza del capitalismo. Il continuo variare della relazione valori-prezzi è parte della (il)logica del sistema: concentrarsi su di esso è un grave errore. L’oggetto di studio del problema della trasformazione sono le condizioni per le quali la metafisica è preservata malgrado il ritorno vendicativo della natura con le sue relazioni non dialettiche. L’economia, come Carchedi vorrebbe, può credere di misurare questa continua variazione della relazione valori-prezzi proprio perché è un’altrettale e logicamente identica metafisica (dialettica). Non solo dunque è una perdita di tempo (la trasformazione e l’economia sono due aspetti del medesimo problema). L’economia, come il capitalismo, colpevolmente neglige il fatto che è la perdita di vita umana, fosse anche di un istante di vita umana, la caratteristica del lavoro sotto il capitalismo. Lo sfruttamento, qualunque ne sia l’intensità, è una variabile di secondo grado rispetto alla perdita di vita. Esso serve a spiegare il capitalismo e le sue ingiustizie economiche, ma non può rimpiazzare la questione centrale della vita dei lavoratori, che è l’oggetto vero dell’emancipazione umana. Vi è in sostanza una differenza di ruolo tra teoria dello sfruttamento e teoria dell’emancipazione umana. Il fatto che sembra stare tanto a cuore a Carchedi della misurazione dello sfruttamento diventa così una macabra ironia. È vero, per esempio, che l’operaio occidentale è sfruttato x, mentre quello latinoamericano o dell’Asia Orientale sono sfruttati nx (con n>1, purtroppo). Ma ambedue hanno perso preziose ore della loro vita in fabbrica: le hanno buttate per sempre, e non per loro scelta ma per dura necessità. La logica capitalista dice che l’operaio sfruttato x sta meglio durante le poche ore che passa fuori dalla fabbrica perché è meno povero, e tanto basta. Dà, in altre parole, un prezzo alla vita. La trasformazione è uno dei tanti modi di mostrare la crudeltà del capitalismo, si potrebbe concludere. Ma la trasformazione come carattere principale delle relazioni capitaliste (così come le conosciamo, e non come ce le raccontano le teorie marxiste e non) è anche: a. Una critica dell’economia politica. b. Una maniera di dare nella forma più breve possibile un’idea della logica generale del capitalismo. c. Un modo di sottrarre la trasformazione stessa alla logica perversa dell’economia. Come dico in (2006) “se vi fosse una soluzione economica [...] vorrebbe dire che il mistero della speculazione si è risolto, e perciò la soluzione economica sarebbe nulla. Non ci resta che [...] tornare ad una economia politica del capitalismo che abbia digerito la filosofia e possa usare la storia” (p.111) La trasformazione dei valori in prezzi è uno degli indicatori più chiari della natura metafisica del capitalismo, che trascina nella sua logica errata le entità materiali. L’economia e le soluzioni economistiche ne sono un altro esempio.

5. Conclusione

Con quanto fatto nella sezione 4 abbiamo sottratto il problema della trasformazione alle elucubrazioni metafisiche dell’economia: rendendolo astratto teoricamente l’abbiamo restituito al concreto. Ora, avendo capito che la trasformazione è un meccanismo centrale alla logica capitalista possiamo smettere di cercare impossibili schemi economici e cominciare il nostro studio storico (del concreto). Il materiale è tutto là, pronto: basta non deviare più dal ragionamento logico. L’oggetto di studio che dobbiamo approfondire è la realtà, e non le tabelle di Marx (tanto meno le tabelle di chi “sa veramente” cosa intendesse Marx). Tali tabelle devono ritornare al loro giusto ma limitato posto in termini teorici. La cosa più importante è però il fatto che stiamo parlando del lavoro, cioè della vita degli uomini e donne che compongono la classe lavoratrice. Far tornare il problema della trasformazione ai suoi giusti termini sottraendolo alle inutilità economiche è una maniera per ridare dignità proprio a chi lavora. È proprio alla liberazione dell’uomo infatti che la teoria marxista è rivolta, e non alla perfezione di inutili tabelle che riflettono solo la mentalità dominante del capitalismo.

Bibliografia Carchedi, G. (1991), Frontiers of Political Economy, Verso,London Carchedi, G. (2006), “I Vecchi Miti non Muoiono Mai... Purtroppo!”, Proteo, 1, 108-113 Freeman, A., Carchedi, G. (eds.) (1995), Marx and Non-Equilibrium Economics, Edward Elgar, Aldershot Glyn, A. (2006), Capitalism Unleashed, Oxford University Press, Oxford Micocci, A. (2002), Anti-Hegelian Reading of Economic Theory, Mellen Press, Lewiston Micocci, A. (2004a), “Critical Observations on Economics, Taxonomy and Dynamism”, Rethinking Marxism, no.1, 73-94 Micocci, A. (2004b), “The Philosophy of Economics”, International Journal of Applied Economics and Econometrics, vol.12, no.1, 1-24 Micocci, A. (2005), “La Presunta Varietà delle Idee Economiche”, Proteo, 2, 126-184 Micocci,A. (2006), “Il Mistero della Speculazione. Il Lavoro e l’Uso che Se ne Fa sotto il Capitalismo”, Proteo, 2, 106-112 Micocci,a. (in preparazione), Individuality Tacito (1991), Germania, Oscar Mondatori, Milano Vasapollo, L. (ed.) (2002), Un Vecchio Falso Problema, MediaPrint, Rome

note

* Prof. Univ. di Malta - Link Campus.

1 Tacito (1991), Germania, 9, p.14. Trad. “E chiamano con i nomi degli dei quel segreto che vedono solo con il loro timore sacrale”.

2 È divertente notare come tutti gli appartenenti al gruppo insistono che la loro soluzione esiste da molti anni: anche le teorie della terra piatta esistono da millenni, ma questo non le rende migliori.

3 La teoria economica si riferisce ad un mondo idealizzato tratto dalle ipotesi di Smith e Marx, ma intellettualmente parallelo alle relazioni economiche e sociali capitalistiche che si riferiscono ad un mondo altrettanto idealizzato. Qui sta la compatibilità.

4 Guy Debord la chiamava “società dello spettacolo”, P.K.Dick la raccontava come fantascienza, Oscar Wilde ne metteva in evidenza la ripetitività in “The Soul of Man under Socialism”.