Il lavoro ”cognitivo” nella fase dell’accumulazione flessibile: uno schema interpretativo del “fenomeno“ dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”
Gianni Cirino
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3. Il “Capitalismo Cognitivo”: un “approccio” all’analisi
economica della forma di produzione del capitalismo nell’attuale fase di “accumulazione
flessibile”
La rivoluzione informatica, la trasformazione dell’organizzazione
del lavoro (sia della produzione di merci in fabbrica, sia delle attività intellettuali,
informative nel settore del “terziario”), la centralità del sapere (non solo
come fattore tecnico-scientifico della produzione, ma dal punto di vista dei
processi di produzione in cui esso stesso viene prodotto), le rivoluzioni epistemologiche
nel dominio delle scienze sociali, costringono a ripensare gli strumenti di
analisi teorica della società capitalista e delle sue forme organizzative.
Per produrre capitalisticamente le merci in un regime altamente
concorrenziale, quale quello determinatosi con la finanziarizzazione a livello
internazionale dei capitali, all’internazionalizzazione della produzione e dei
mercati, ed in cui la forma della tecnica produttiva concerne la struttura delle
comunicazioni e comporta il trattamento automatico dell’informazione, si determina
per il funzionamento dell’impresa e per la costituzione del sistema economico
nel suo complesso la necessità che ad essere prodotte, come merci, siano “le
menti dei soggetti”. Si tratta di una complessa sintesi evolutiva - anche filosofica
- tra la produzione capitalista di merci e la forma-merce (del lavoro) con cui
la produzione capitalista opera.
La fabbrica sta divenendo una “gigantesca fabbrica delle
menti”, non solo nel senso che la produzione manufatturiera si costituisce
come supporto della “produzione di conoscenza”, ma anche nel suo reciproco,
in quanto il processo di produzione “della conoscenza” sta assumendo la conformazione
di una enorme fabbrica sociale, è la “produzione dell’individuo”, della sua
“struttura cognitiva e mentale”.
Sta mutando la fisionomia del luogo di produzione che ha caratterizzato
la storia del capitalismo dalle sue origini: la fabbrica diviene un reticolo
di produzioni informative ed il reticolo delle produzioni di conoscenza diventa
una fabbrica, della quale assume la disposizione ad essere organizzato secondo
modelli industriali e finalizzato alla valorizzazione capitalistica tramite
incrementi della produttività del lavoro.
Il processo lavorativo viene caratterizzato da una profonda
trasformazione: esso è sempre più caratterizzato da ciò che sinteticamente
viene chiamato riflessività e creatività “coatta” del lavoro.
Il compito prevalente del lavoro salariato nella sua congenita
subordinazione al comando del capitale si era costituito, nel corso di secoli,
prima nella manifattura, poi nell’industria, intorno ad una funzione prevalentemente
esecutiva delle direttive che il capitalista ed i suoi agenti (i capi-intermedi,
i managers) impartivano. Il lavoro salariato (manuale, operaio) si contrapponeva
storicamente al comando capitalistico nella misura dell’espropriazione delle
prerogative ideative e decisionali cui veniva sottoposto in merito alle modalità
del suo estrinsecarsi; in altri termini la direzione dei processi di lavoro,
la loro finalità, loro modalità, e soprattutto la loro trasformazione per conseguire
incrementi di produttività erano prerogative sottratte al lavoro operaio, e
poste al suo esterno. Il lavoro operaio salariato era per definizione “esecutivo”
e, grazie alla sua capacità “esecutiva”, veniva utilizzato nel sistema dei rapporti
capitalistici per valorizzare il capitale, per produrre il profitto.
La “rivoluzione”, che le tecnologie della conoscenza e della
comunicazione hanno reso possibile, è quella di tramutare in “ necessità
ideative” le prerogative delle funzioni esecutive; operare
come “appendici” delle macchine e delle conoscenze formalizzate, basate sui
processi informativi, presuppone, presto o tardi, un’emancipazione delle pure
funzioni esecutive e di controllo; questo fatto costituisce il lato progressivo
dello sviluppo delle “forme cognitive “ del capitalismo, cui corrisponde uno
“nuovo e diverso” sviluppo a livelli più elevati e complessi delle forme di
subordinazione del lavoro, anche nelle sue “nuove forme”, al dominio del capitale.
Il lavoro operaio, così come quello “impiegatizio” e quello
dei “quadri aziendali, deve sempre più occuparsi della propria organizzazione
procedurale; da puro esecutore di funzioni, esso deve “riflettere” sui metodi
organizzativi della sua “estrensicazione” e deve trasformare continuamente
le procedure, per cui il mutamento innovativo dell’organizzazione
della produzione cessa di essere esterno alle attitudini del lavoro subordinato,
mutando la forma stessa di subordinazione del lavoro
Per “lavoro cognitivo” [1] si deve intendere il lavoro che viene investito
della riflessività: esso trasforma la struttura organizzativa e procedurale
con cui si esplica e ciò facendo genera nuova conoscenza. [2]
La “creatività” diventa prerogativa indispensabile
per l’esecuzione del compito, e, nel momento in cui si esprime,
sottoposta com’è alla valorizzazione del capitale, diventa la forma stessa
della costrizione ovvero è una “creatività coatta”, condizionata e vincolata
da fini esterni alla struttura dei bisogni dei soggetti che la esprimono.
Scrive R.Finelli nel saggio introduttivo del volume di L.Cillario,
R.Finelli: “ Capitalismo e conoscenza -l’astrazione del lavoro nell’era telematica-
“ 1998 a pag. 17: “Il postmoderno nasce quando oggetto del dominio del capitale
sulla forza-lavoro cessa di essere il “corpo” e comincia ad essere la “mente”.
Quando cioè funzione fondamentale del processo produttivo per quanto concerne
la forza-lavoro è la subordinazione e l’omologazione della coscienza. Sia che
si tratti infatti di erogazione di energia alla macchina informatica sia che
si tratti di partecipazione alle procedure della cosiddetta “qualità totale”,
ciò che è in gioco nella sussunzione reale della forza -lavoro al capitale non
è più la materia ma lo spirito del lavoratore. L’intelligenza di questi, la
sua capacità di scelta, la sua intera complessità emozionale-intenzionale è
ciò che serve ora al capitale da quando l’automazione unita all’informatica
espelle forza-lavoro manuale e richiede forza-lavoro mentale
e da quando la filosofia dell’azienda tende a richiedere un lavoro riflessivo,
capace di assumere il proprio costante e continuo miglioramento [3] come oggetto
di se-stesso. In particolare la macchina informatica richiede una forza-lavoro
mentale particolarmente subalterna ed omogenea, essendo la sua caratteristica
fondamentale quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori
del cervello umano e di dar luogo così ad una mente artificiale di cui quella
umana diventa solo funzione e appendice. Il paradosso del nuovo lavoro- del
lavoro cosiddetto post-fordista - consiste nel fatto che ciò che ora viene normalizzato
e colonizzato, nel nuovo sistema forza-lavoro mentale- macchina informatica,
è non più il corpo ma la mente stessa del lavoratore. E’ cioè la sua “coscienza”,
sia come attitudine alla comprensione globale ed intuitiva sia come capacità
logico-discorsiva (insomma ciò che fin’ora veniva definito come la caratteristica
più personale e non normalizzabile del soggetto umano...”.
La combinazione dei lavori cognitivi espressi negli
ambiti dell’attività produttiva nei diversi settori dell’industria, del terziario,
della produzione delle merci culturali, etc, dà luogo ad una progressiva astrazione
del sapere prodotto. Dal processo di astrazione del sapere dipende la
sua accumulazione e la possibilità dello scambio delle conoscenze in forma di
merci, nonchè la possibilità della misurazione, del calcolo e della razionalizzazione
e della ottimizzazione del lavoro che le produce.
Produrre automobili, scarpe, pratiche di ufficio nelle banche
o nella Pubblica Amministrazione, qualsiasi merce o servizio, è segnato dalla
differenza fenomenica del prodotto/servizio, ovvero soggiace alla naturale legge
della diversità delle forme, dei materiali, dei corpi fisici e delle realtà
simboliche degli oggetti; ma produrre metodi per la produzione
di automobili, scarpe, di questa o quella merce o servizio, configura un processo
di omogeneizzazione dei prodotti/servizi, per cui gli oggetti prodotti sono
i metodi; ciò ci fa entrare in una dimensione “meta-lavorativa”, ove le conoscenze
relative si rendono omogenee, i linguaggi si uniformano, i frutti del sapere
si interconnettono, si scambiano, si sovrappongono.
Tale dimensione meta-lavorativa del processo di produzione
si avvita su se stessa, perchè la produzione di metodi a sua volta richiede
metodi, per cui la complessità dei processi aumenta, ma si è “costretti
a realizzare” contemporaneamente un processo di unificazione dei criteri guida
di progettazione dei metodi di produzione.
Insomma la complessità della società “solo apparentemente
vive di diversificazione”, mentre nelle sua struttura profonda obbedisce
ad una legge sempre più ferrea ed omogenea, che si può far risalire al nodo
cruciale della valorizzazione del capitale attraverso incrementi della produttività
e dell’efficacia del lavoro, in particolare espressi nella sua forma
“riflessiva” e “cognitiva”.
L’“astrazione riflessiva” è pertanto la forma capitalistica
dell’ ”astrazione del lavoro” che sembra essere adeguata alla fase della informatizzazione
della società; che rende praticabile la valorizzazione del capitale nelle nuove
forme ed alle nuove condizioni storiche della produzione di merci.
In quello che è stato chiamato in questo approccio schematico
di analisi “capitalismo cognitivo” il valore economico viene generato
dall’uso della conoscenza come forza produttiva, il capitale cognitivo si
presenta come una componente del capitale economico-finanziario che si riferisce
alla ricchezza generata dalle prestazioni riflessive del lavoro.
Esso si riferisce a quella quota di ricchezza, esprimibile
in denaro, che è associata al lavoro espletato per incrementare la forza produttiva
del lavoro in termini di efficacia ed efficienza ovvero il valore prodotto dal
lavoro nel momento in cui innova ed ottimizza i propri metodi di produzione.
E’ evidente che il “capitale cognitivo”, definito in
maniera scientifica, [4] stabilisce rapporti con le altre forme del capitale,
in una reciproca indipendenza ontologica, nel senso che la preminenza di una
determinata forma del capitale (in questo caso cognitiva) su altre forme,
storicamente precedenti quali il capitale commerciale, il capitale industriale,
il capitale finanziario, genera nuovi rapporti sociali, che possono spiegare
le fondamentali specificità della forma di produzione capitalistica nella fase
di accumulazione flessibile, ma non portano necessariamente all’eliminazione
delle precedenti forme di capitale, che anzi convivono con esso nel “sistema
capitalistico complessivo” della fase della “globalizzazione”.
In nessun modo insomma, il capitale cognitivo può essere
considerato sostituirsi alle altre manifestazioni del capitale (in questo
errore ad esempio incorre P. Barcellona nel volume “ Il capitale come puro spirito”);
in realtà esso non ha titoli per arrogarsi tale prerogativa, costituendo
solo uno stadio che il capitale attraversa in determinate fasi del ciclo della
sua produzione complessiva. Altro è il capitale industriale, altro il capitale
finanziario,... e altro ancora il capitale, che racchiude in sè, unitariamente,
le sue diverse forme di manifestazione ed i diversi modi di strutturazione dei
processi lavorativi che vi presiedono.
Come alle altre forme, al capitale cognitivo, va attribuito
carattere storico e determinato entro i rapporti sociali capitalistici determinati
in una specifica epoca.
Infatti in sintesi scrive molto efficacemente Finelli (vedi
saggio introduttivo dal volume “Capitalismo e conoscenza”, opera citata pag.11)
[5]. La
tesi che si sostiene in questo saggio invece è che il postmoderno sia il
compimento del moderno nel senso della sua piena realizzazione: e specificamente
che la caratteristica essenziale e più evidente di tale realizzazione consista
in un processo che si può definire come la diffusione nell’intera realtà sociale
ed individuale di un soggetto astratto: ovvero come lo svuotamento
del concreto da parte dell’astratto.Tale soggetto astratto e impersonale
è il capitale, come è stato teorizzato da Marx, quale ricchezza non antropomorfa
(ossia solo quantitativa), che ha come proprio fine costitutivo l’espansione
inesauribile e non limitabile della sua quantità: cioè come ricchezza
che piega alla sua accumulazione l’intero mondo qualitativo dei valori d’uso
e dei bisogni umani. Il capitale nella teorizzazione che ne ha fatto Marx
è infatti quantità pura, al cui essere è indifferente qualsiasi determinazione
concreta qualitativa e quantitativa. Può assumere la forma (qualità) di
qualsiasi produzione che identifica la sua natura e che è appunto di quantità
in divenire. Esteriore e indifferente al mondo delle qualità, il capitale
è quantità in generale e tale sua natura lo destina a un progresso quantitativo
infinito.
Ma affermare questo significa porre come soggetto della storia
contemporanea una mera quantità: una quantità cioè talmente astratta dal mondo
delle qualità che le uniche differenze qualitative che albergano in essa sono
quelle appunto quantitative, della sua crescita o della sua diminuzione.
E significa distinguere il capitale dal capitalista [/b]:
giacchè una cosa è il capitale come soggetto tendenzialmente infinito (in
quanto pura quantità in rapporto di continua accumulazione con se stessa) e
un’altra cosa sono i capitalisti, quali soggetti finiti nel tempo e nello spazio
che di quel primo soggetto si fanno rappresentanti interpreti nella concretezza
del mondo differenziato e qualitativo dei processi di produzione e vendita dei
valori d’uso. Così il capitale, nel suo essere quantità pura, destinata ad un
accumulazione infinita, istituisce un piano di realtà astratta e sovrasensibile
che va ontologicamente distinto - ma non opposto- all’agire psicologico del
capitalista, in quanto soggetto umano contestualizzato nello spazio e nel tempo”.
L’ipotesi di una interpretazione del “marxismo dell’astrazione
reale” di Finelli centra la sua attenzione sul processo di lavoro
e costituisce, a fondamento della sua analisi teorica e sociologica, l’analisi
dell’uso della forza-lavoro, il modo cioè in cui, nel sistema uomo-macchina,
la classe o l’insieme delle classi, portatrici di energia-lavoro in tutte le
sue forme, viene utilizzata per i processi produttivi.
In questa visione la teoria marxiana della “critica dell’economia
politica” supera la visione “positivistica e neutrale”, tramandata dall’interpretazione
engelsiana e kautskiana (tipica della tradizione socialdemocratica), dello sviluppo
progressivo e meccanicistico delle forze-produttive ed in particolare dello
sviluppo delle macchine e della tecnologia, presentando la produzione nel sistema
economico capitalista in relazione al suo strutturarsi secondo “lo sviluppo
dei processi d’interazione uomini- macchine”.
I sistemi organizzativi del lavoro ed i processi non devono
essere solamente indagati secondo la categoria antropomorfa della divisione
del lavoro, come lo stesso Marx ha fatto in alcuni luoghi della sua opera, suggerendo
una concezione della tecnologia, esclusivamente come progressivo svuotamento
ed appropriazione, da parte del sistema tecnologia-macchine, delle capacità
e delle funzioni del soggetto umano, favorendo esclusivamente una visione puramente
meccanicistica dell’appropriazione, da parte del “sistema delle macchine e della
tecnologia”, del “sapere operaio” (General Intellect) e la sua incorporazione
nelle procedure automatizzate ed informatizzate dei processi di produzione.
Essi devono essere indagati analizzando anche gli impatti che
l’utilizzo “capitalista” della scienza e delle tecnologie provoca sui cambiamenti
della struttura e dell’organizzazione del processo di lavoro; il capitale infatti,
obbligato dall’obiettivo primario di “valorizzazione continua di se stesso”,
provvede, attraverso l’utilizzazione del progresso scientifico ed il variare
dei suoi paradigmi, ad un miglioramento “ più efficiente ed efficace” del
processo di normalizzazione e controllo dell’uso della “forza-lavoro”.
Il filo conduttore per comprendere i processi innovativi, quali
quelli derivanti dall’introduzione delle tecnologie informatiche e delle comunicazioni
nei processi di produzione e di distribuzione nell’attuale fase del sistema
capitalista nei paesi più avanzati, consiste, in una prospettiva macro-economica,
non tanto principalmente nell’espellere forza-lavoro, quanto soprattutto
di subordinare, regolarizzare e controllare la forza-lavoro, ancora attiva,
attraverso un sistema sempre più esteso ed efficiente d’informazioni-comandi,
che costituiscono la dimensione “meta-lavorativa” (espressa nelle forme “riflessive”
e “cognitive” del lavoro), il cui fine è quello di disporre di lavoro
sempre più conforme alle esigenze di valorizzazione del capitale.
Perciò le visioni teoriche e sociologiche, quali quelle citate
nel precedente paragrafo, che analizzano e teorizzano lo sviluppo dei processi
lavorativi del sistema capitalista, come un susseguirsi (taylorismo, fordismo,
post-fordismo) di fasi di riorganizzazione e trasformazione in termini di processi
organizzativi, rischiano di non cogliere i nessi essenziali che caratterizzano
l’attuale fase d’accumulazione flessibile.
Secondo tali concezioni i processi organizzativi innovativi
agiscono inizialmente solo sul polo della forza-lavoro, attraverso una divisione
ed una parcellizzazione sempre più minuziosa delle mansioni della forza-lavoro
e successivamente (o contemporaneamente) tramite fasi di trasformazioni produttive
che agiscono fondamentalmente sulla dimensione tecnologica delle macchine, incorporando
e formalizzando i processi lavorativi, precedentemente analizzati e semplificati,
in procedimenti automatico-meccanici o meglio automatico-informatici.
[1] Il lavoro “cognitivo”
è altro dal lavoro “intellettuale” ed in parte anche dal lavoro “ideativo”,
non si contrappone al lavoro “operaio” o “manuale; esso è “cognitivo” se e solo
se “riflette”, modifica ed ottimizza le sue procedure organizzative, le sue
modalità di svolgimento.
[2] Si vedano,
a questo proposito per un maggior approfondimento teorico, i saggi di L.Cillario
nel volume “L’uomo di vetro nel lavoro organizzato” 1990 oppure nel volume “
Il capitalismo cognitivo. Sapere, sfruttamento ed accumulazione dopo la rivoluzione
informatica, in Aa.Vv Trasformazione e persistenza - Saggi sulla storicità del
capitalismo - “, 1990.
[3] “kaizen”
direbbero i teorici giapponesi della “qualità totale”.
[4] Si faccia riferimento, per una trattazione più completa
e dettagliata della presente, ai testi citati di Cillario e Finelli, riportati
nella bibliografia.
[5] Per questa interpretazione del Capitale di Marx, nell’ambito di una riflessione
complessiva della sua opera giovanile e della maturità, si rimanda per un approfondimento
al testo di R. Finelli “Dal paradigma del lavoro al paradigma della forza-lavoro.
Sulla trasformazione dei concetti di storia e dialettica nel Marx della maturità”
in Aa.Vv “Trasformazione e persistenza” Franco Angeli, 1990.
[/b] o dai
suoi “funzionari esecutivi” (imprenditori, top management aziendale nell’attuale
contesto organizzativo delle imprese multinazionali o transnazionali).