Il lavoro ”cognitivo” nella fase dell’accumulazione flessibile: uno schema interpretativo del “fenomeno“ dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”
Gianni Cirino
|
Stampa |
1. Premessa
“Il lavoro è il fuoco che dà vita e forma;
le cose sono transitorie e temporali,
giacchè subiscono l’attività formatrice
del tempo vivente”.
(K. Marx dai “Gundrisse”)
Si sta svolgendo nei paesi industrializzati a sviluppo capitalistico
avanzato un processo di trasformazione del lavoro, in cui sembra che siano protagonisti
persone che svolgono lavori ad alta qualificazione, che nei gerghi aziendali
sono chiamati nei modi più vari e “variopinti” (tecnici, professionals, “knowlodge
workers”, etc.); esse operano in tutti i campi dell’attività delle imprese e
“tenderebbero” ad influenzare i “modelli comportamentali”, richiesti dalle
aziende pubbliche e private a tutte le tipologie dei lavoratori.
Naturalmente poi sui contenuti dei “diritti” contrattuali per
quel che concerne le protezioni e le “garanzie”, è noto che le aziende vorrebbero
anche, che il principio della “flessibilità”, che caratterizza i rapporti di
lavoro dei suddetti lavoratori, venisse generalizzato a tutta la società ed
a tutti i lavoratori.
L’impiego massiccio della “conoscenza” in tutti i processi
produttivi, l’inserimento di professionisti nelle organizzazioni aziendali complesse,
il “passaggio” (spesso “forzato”) di un gran numero di manager aziendali da
ruoli di struttura a ruoli di “servizio”, lo sviluppo di processi di servizio
che richiedono una concezione, gestione, erogazione, che sembra essere “materia
di lavoro professionale” organizzato, non solo modifica il “mix” di personale,
richiesto dalle organizzazioni - più lavoratori “qualificati” e meno lavoratori
a “ bassa qualificazione”, più “professionals” e meno impiegati (“white-collars”)
- ma starebbe spingendo verso una radicale trasformazione dell’intera struttura
dei sistemi di lavoro.
Già P. Drucker (1989) [1] individuava l’emergere di una nuova figura di “operatore della conoscenza”,
che tenderà a rimpiazzare operai, impiegati, tecnici e professionisti “tradizionali”;
secondo la ben nota “immagine” di Drucker, l’impresa del futuro tenderà sempre
di più ad assomigliare ad un’orchestra, ad un ospedale o ad un “università”,
dove le persone- gli “operatori della conoscenza”- saranno l’’“unità produttiva
fondamentale” delle organizzazioni aziendali. Come detentori del principale
mezzo di produzione del futuro, essi tenderanno ad operare come veri professionisti,
anche se, a differenza dei liberi professionisti, avranno bisogno di operare
in ambito di una organizzazione aziendale.
Questa profezia si sta avverando?
Le organizzazioni aziendali private, ma anche nelle Pubbliche
Amministrazioni (si considerino i vari “decreti Bassanini” anche in Italia,
che è notoriamente “arretrata” in ambito europeo per quel che riguarda l’efficienza
della Pubblica Amministrazione) stanno cambiando ed a determinare una vera e
propria esplosione di un’ampia crisi strutturale dei modelli organizzativi tradizionali,
sono stati e sono i caratteri tipici dello sviluppo economico degli anni 90
ovvero:
• l’impatto della rivoluzione provocata dall’introduzione
nei luoghi di produzione industriale, così come nei servizi, delle tecnologie
informatiche e telematiche;
• la maggiore pressione competitiva collegata dalla “globalizzazione”
dell’economia;
• la segmentazione dei “mercati” dei prodotti, intrecciata
con i processi di terziarizzazione dei paesi più sviluppati, che comporta
un processo di personalizzazione e di aumento dei servizi nei prodotti;
• la flessibilizzazione dei rapporti dei lavoro sia per il
lavoro dipendente sia per quello “autonomo”, specie quello chiamato “eterodiretto
di seconda generazione”.
Ma queste caratteristiche dello sviluppo recente del sistema
capitalistico, hanno veramente cambiato il modo di produzione capitalistico?
Siamo veramente in una società in cui non esistono più classi sociali in contrapposizione
e sono stati superati i vecchi modelli di produzione industriale manifatturiera
e poi taylorista e fordista?
Il “movimento antagonista dei lavoratori”, la “sinistra sociale
e politica” non può più ignorare queste domande. Chi scrive, ritiene già da
molto tempo che è urgente che ci si doti di modelli teorici e di analisi, adatti
all’interpretazione della realtà economica e sociale in cui viviamo, e che sia
necessario che anche il sindacato, specie quello che fa riferimento alle realtà
sociali di base, affronti il problema della “ridefinizione del sistema di protezione
contrattuale”, per includere tutte le figure del lavoro caratterizzate da flessibilità
ed estrema mobilità nei rapporti di lavoro. E’ necessario favorire processi
di ricomposizione sociale tra le diverse figure di lavoratori, al di là delle
specifiche condizioni di lavoro; è necessario che maturino condizioni per cui
si organizzino lotte che facciano di nuovo crescere il potere contrattuale dei
singoli lavoratori e del complesso dei lavoratori dipendenti nei servizi nell’industria,
dei lavoratori “eterodiretti” di seconda generazione, dei precari, dei disoccupati.
Chi scrive, si prefigge di presentare in questo articolo uno
schema d’interpretazione, che sia coerente con l’analisi marxiana ovvero la
“critica della politica economica” dell’economia capitalista, ma che, contemporaneamente,
permetta di inquadrare in modo corretto, le caratteristiche e le specificità
dei lavori e dei lavoratori cosiddetti “atipici”, caratterizzati cioè da forti
contenuti di tipo cognitivo ed informativo.
Tenendo presente poi i risultati “fondamentali” di questo schema
teorico, si analizzerà in maniera più dettagliata quello che, chi scrive, chiama
una fenomenologia dei “nuovi lavori atipici” ed in particolare
quella dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”, presentando i risultati
di una ricerca internazionale, condotta nel 1995, riguardante questi lavoratori
in Francia, Germania, USA.
Purtroppo non sono disponibili analoghi dati di ricerca per
la situazione in Italia, se non alcune specifiche ricerche a carattere campionario
e comunque ristretto; chi scrive, ritiene che questa “lacuna” debba essere al
più presto superata, avviando anche in Italia, a cura soprattutto del sindacato
di base, una ricerca più significativa e seria.
L’obiettivo primario di questo contributo di analisi consiste
soprattutto nel tentativo di motivare e stimolare questa ricerca, analisi-inchiesta,
in linea con la tradizione dell’analisi-inchiesta del movimento operaio dei
“Quaderni Rossi” di Panzieri, e, chi scrive, ritiene che ciò costituirebbe un
risultato ed uno strumento di conoscenza di importanza rilevante per il movimento
“antagonista” dei lavoratori.
2. “Globalizzazione”, esternalizzazioni, lavoro autonomo
ed “economia della conoscenza”
Le grandi imprese capitaliste hanno vissuto la crisi economica
iniziata nei primi anni settanta sotto forma di una intensificazione della competizione
internazionale e di una caduta dei profitti. Come sottolineava nel 1984 il presidente
del Fondo Monetario Internazionale Jacques de Larosiere, si era di fronte ad
un chiaro modello di “forte declino di lungo periodo dei tassi di resa del capitale”;
le grandi imprese cominciarono a considerare sempre di più i sistemi nazionali
di regolazione dell’economia ed il compromesso di classe, realizzato con le
politiche economiche “keynesiane” di Welfare State, come ostacoli alla crescita
dei profitti ed a considerare il taglio del costo del lavoro e di altre spese
come soluzione del problema.
Come sottolineava, sempre “delicatamente”, de Larosiere, “per
recuperare degli incentivi all’investimento adeguati” era necessaria “una graduale
riduzione del tasso di crescita dei salari nel medio periodo”; di fronte ad
una crescente competizione internazionale le imprese hanno iniziato a sperimentare
strategie volte ad aumentare i profitti mediante il taglio dei salari e di altri
costi; tale strategie comprendevano lo spostamento delle attività verso luoghi
con costi più bassi, la trasformazione delle strutture organizzative delle imprese
e dei processi di produzione e di erogazione dei servizi (Computer Integrated
Manifacturing (CIM), toyotismo, “Qualità Totale” prima e poi “Business Process
Reenginering” (BPR) e Knowlodge Management” più recentemente [2]), per adeguarle ad un sistema economico globale fortemente
competitivo, provvedendo parallelamente alla creazione di strutture internazionali
per il sistema di governo mondiale (FMI, NAFTA, GATT, ecc), che assecondasse
le loro scelte strategiche.
La situazione attuale viene descritta ed interpretata attraverso
il termine di “globalizzazione”, in cui risulta decisiva la presenza delle nuove
forme e tecnologie dell’informazione e della comunicazione ed il loro svolgersi
in tempo reale; diversi teorici hanno insistito sulle “novità” dei fenomeni
in atto, sul loro carattere “epocale” che cambia il quadro geo-politico del
mondo, per cui la globalizzazione sembra configurare un nuovo ordine mondiale,
che investe i rapporti tra spazio e produzione, tra capitale e spazio.
L’OCSE, l’Organizzazione per l’economia e lo sviluppo, ha definito
la globalizzazione un “processo attraverso cui i mercati e produzione nei diversi
paesi diventano sempre più dipendenti fra di loro, a causa della dinamica di
scambio di beni e sevizi e attraverso i movimenti di capitali e tecnologie [3]”.
Tale definizione mette in evidenza la trasformazione del sistema
di economie a base nazionale in una economia globale, resa possibile dalle nuove
tecnologie dell’informazione, della comunicazione e dei trasporti.
D’altra parte la “globalizzazione finanziaria” permette il
distacco del mercato dei capitali dagli Stati-Nazione e crea la dipendenza sempre
stretta dei sistemi produttivi dal mercato mondiale. Il capitale si emancipa
totalmente dai vincoli dello spazio, in quanto le imprese non fanno più riferimento,
nelle loro strategie, ad uno spazio territoriale definito, ma piuttosto alla
posizione, per lo più mutevole, da occupare rispetto ad una o più reti produttive.
Ma che cosa sta succedendo ai lavoratori “dipendenti” (operai, impiegati) ed
ai lavoratori “autonomi” nei paesi capitalisticamente avanzati?
Certamente la classe operaia industriale, gli operai-massa
della fase “fordista”, si è ridotta numericamente, anche se continua ad avere
un livello di specializzazione medio-alto e livelli di reddito bassi per gli
standard industriali dei paesi occidentali, ma livelli salariali ancora alti
rispetto ai lavoratori delle aree semi-periferiche ed altissimi per quelli della
nuova periferia produttiva dove vigono nuove forme di schiavitù industriale
(India, Cina, Est-Europa ‘ex-socialista’, Asia del Sud-Est.).
Anche in Italia si va estendendo la nuova organizzazione del
lavoro- la lean production o ‘produzione snella’- che assegna alla fase finale
di una catena del valore, distribuita ormai a livello internazionale (le ‘filiere
mondiali di produzione’), una particolare enfasi.
E’ qui che avviene l’assemblaggio, la presentazione e commercializzazione
di manufatti o semilavorati prodotti in Romania, in Albania, in Marocco, in
Cina, etc.
[1] P.Drucker “Economia, Politica e Management”
1989.
[2] Si veda il
glossario e la bibliografia allegata relativamente alle varie teorie organizzative
citate.
[3] Si
veda la raccolta di articoli in “Indice Internazionale” n. 2, 1996.