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Aziendalizzazione dell’Università e deficit di democrazia

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Università: il suo nome deriva dal latino universitas nel significato di corporazione. Il termine, medioevale, (secondo il dizionario Treccani) fu utilizzato a Bologna, la nostra più antica Università, con riferimento alla corporazione degli scolari e non dei professori, come qualcuno potrebbe pensare.

Non deriva da universitas, nel significato di universalità o pluralità di cose o persone, né da universum: totalità. Viceversa, in ambito accademico, molto frequentemente e tutto sommato ingenuamente, si ritiene che l’Università sia chiamata così in quanto luogo dell’universalità, nel senso dell’eccellenza del sapere, se non della totalità del sapere.

La genesi storica del nome è illuminante e mi sembra confermi e conforti chi ha sempre ritenuto che la centralità non sia nella sapienza dei docenti ma, più opportunamente, nella necessità di sapere degli studenti.

Una buona università è dunque una università con buoni (sapienti) laureati. Non ci sono dubbi sul fatto che per avere buoni laureati occorrano buoni insegnanti anzi, oltre a questi, almeno qualche buon maestro, visto che i due termini non sono sinonimi e in genere si indica come maestro colui che rivela particolari doti, eccelle, nell’arte di insegnare. Maestro è colui che, essendo un buon docente, sa essere un punto di riferimento positivo per i suoi allievi, sapendo sollecitare la loro curiosità di sapere nel senso più generale, rispetto alla specifica professione, ma non solo.

I docenti hanno un ruolo essenziale nel processo di formazione dei giovani, ma esso poggia, ancor più che nella dimensione della loro sapienza, nella loro capacità di porla al servizio degli altri. Questo è l’impegno morale del buon docente e credo possa dirsi contento chi riesca in questa sua impresa, almeno per qualcuno dei suoi allievi.

Dunque, università come corporazione degli studenti e non come luogo di eccellenza del sapere, però alcune università sono dette grandi.

Come sappiamo, storicamente si chiamano grandi le università con grandi tradizioni e queste sono esaltate ricordando sia l’insegnamento di grandi maestri, che i molti discepoli divenuti grandi nel senso di importanti per il proprio ambito scientifico e per il paese.

In questo senso ognuno di noi, anche per l’oggi, avrà in mente qualche nome, forse non gli stessi nomi.

Se però andiamo a verificare la sapienza dei nostri discenti, attraverso l’analisi dei curricola dei loro studi, scopriamo che in Italia, fatta salva qualche piccola isola e un certo numero di studenti, tra i quali almeno alcuni sapienti per proprie forti qualità, nessuna delle nostre università può essere detta grande, giacché gli esiti positivi riguardano una parte troppo esigua degli iscritti.

Dunque è meglio che, come sempre più spesso accade, una università sia detta grande solo perché è una università con molti studenti.

A laurearsi nelle nostre grandi e piccole Università, grandi e piccole Facoltà, in cui lavorano grandi e piccoli docenti, è comunque sempre un numero molto limitato, piccolo, di studenti, che mediamente hanno conquistato il titolo di dottore attraverso un percorso il più delle volte lungo, spesso tortuoso.

Il nostro paese è in Europa un fanalino di coda quanto a numero di persone con un alto livello di scolarizzazione e questo vale anche per le generazioni più giovani. Non per nulla un ex Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica, un po’ furbescamente, aveva proposto di riconoscere come titolo universitario l’aver superato un numero minimo di esami, anche non coerenti quanto a formazione.

Nel confronto sempre più frequente dei nostri laureati e laureandi con quelli degli altri paesi, in particolare del resto d’Europa e degli USA, i nostri studenti fanno sempre un’ottima figura, qui non è in discussione il livello della loro preparazione, ma il loro numero. Numero che nasce soprattutto dalla rinuncia di una parte consistente di quanti si immatricolano. Il fatto tragico è che non è affatto scontato che a non laurearsi siano sempre e soltanto i non idonei.

L’abbandono degli studi avviene soprattutto durante il primo anno di studio ed è legittimo dedurre che non esista corrispondenza tra livello di preparazione degli studenti all’accesso e quello presunto nella didattica universitaria.

Senza dimenticare che una parte di quanti rinunciano tenta di sostenere esami e quindi, almeno per loro, si dovrà parlare di espulsione.

Non ha però molto senso proporre tabelle (tipo quelle del Sole 24 ore che costituiscono esempio di come dare informazione numerica non sempre significhi comunicare informazione oggettiva) con graduatorie delle migliori università d’Europa o del Mondo, sulla base di informazioni non rese confrontabili. Ad esempio la proposta formativa della Gran Bretagna o degli Usa (dove esistono due livelli di formazione universitaria molto diversificati) non è confrontabile con la nostra, ma è in crisi proprio rispetto ai corsi di primo livello che probabilmente ci accingiamo a copiare. Una delle possibili graduatorie confronta i paesi secondo la percentuale del PIL destinato all’istruzione superiore, lì stiamo agli ultimi posti, con lo 0,5% contro il 2,5 e più di altri paesi.

Ma, tornando alla definizione di buona o grande Università, il peggio non è ancora venuto, mi sembra molto vicino il momento in cui il nostro metro di giudizio diventerà un altro e diremo “grande” un’università che abbia un grande bilancio.

Questa è, infatti, una delle parole chiave della riforma universitaria di questi giorni: l’università deve diventare Università-Azienda. Azienda che ha come riferimento le caratteristiche del mercato e che deve operare per incrementare il budget ricevuto dal MURST: cioè generare profitto.

Come per gli altri rapporti di lavoro, anche nel nostro caso alcuni provvedimenti hanno recentemente aumentati i margini di libertà nella gestione delle risorse umane e finanziarie; si potranno dare incentivi ad personam, si potrà assumere personale di vario livello con contratti di diritto privato. Ma a qualcuno non basta ancora e spinge a forza verso una università governata con un sempre più forte spirito manageriale. Fino a tempi recentissimi, si diceva che l’università chiudeva con un bilancio in attivo se venivano “prodotti” molti laureati con buona formazione e senza “sprechi di lavorazione” ossia abbandoni dello studio. Per il futuro essere in attivo significherà proprio “riempire le casse” della struttura.

Tra i principali sogni di molti buoni rettori di università e direttori di dipartimento vi è, già oggi, quello di riuscire ad attivare un cospicuo numero di contratti (convenzioni) con enti pubblici e privati, così da migliorare l’immagine della struttura e avere più margine di autonomia gestionale; fatti che in sé possono anche non essere giudicati negativamente, visto che possiamo con buona speranza ritenere che il denaro conquistato, sarà speso (soprattutto) per gli scopi istituzionali.

Questi impegni economico-professionali toglieranno però energie agli scopi istituzionali, senza costituire, nella maggioranza dei casi, occasione di approfondimento di questioni che possano consentire una sia pur minima ricaduta sulla ricerca teorica o applicata né, tanto meno, sull’offerta didattica.

Nell’Università-Azienda, l’ideale sarà sempre meno il professore-ricercatore e sempre più il professore-manager. È già emergente una nuova definizione del bravo docente: egli è colui che sa indicare e insegnare allo studente ciò che di momento in momento appare utile per il mercato.

A questi professori importanti per la struttura in cui operano, corrispondono a scala nazionale, altri grandi. I professori, grandi per i consigli di amministrazione, per il parlamento e per il governo.

Essi sono i veri grandi maestri, quelli che Raffaele Simone chiama i professori-professionisti-presidenti e che, proprio per la vastità degli impegni esterni, anche volendo non possono avere il tempo di esserlo. Evidentemente, fra questi ve ne sono stati e ancora ve ne saranno alcuni correttamente indicati grandi, in quanto (nel bene o nel male) importanti per il nostro Paese. Non credo però che ve ne siano molti positivamente grandi per lo specifico mondo universitario, anzi si può senz’altro dire che la loro più o meno costante presenza- assenza è un danno per le facoltà.

Questi non sono, però, una novità dei tempi, la novità riguarda piuttosto i primi, docenti-professionisti utili per la propria università, per i quali, infatti, con la legge sullo stato giuridico, ci si appresta a riaprire le porte della compatibilità con la libera professione.

Quella in atto nel mondo universitario non è certo solo una modificazione di atteggiamento, la nuova impostazione data alla politica per l’università, ha già avuto ripercussioni sulla struttura organizzativa e finanziaria degli atenei.

Il riconoscimento dell’autonomia degli atenei nella gestione dei fondi, ricevuti dal Ministero, ma ancor più la loro scarsità, evidentemente facilitano il prevalere di questa cultura d’impresa.

L’azione di governo dell’ateneo trova un cardine in ruoli manageriali di tipo aziendale, cui l’organizzazione universitaria era finora rimasta estranea. Ruoli che spesso sono attribuiti a personale esterno, profumatamente pagato, perché già questo è ritenuto indice di cambiamento verso l’imprenditorialità; e poco importa se sarebbero state presenti personalità idonee sia tra il personale amministrativo, per qualifica professionale, sia tra quello docente, per dovere di insegnamento o per piacere di libera professione.

Se questa diventa la cultura permeante l’azione di governo degli atenei si arriva, tra l’altro, alle aberranti campagne pubblicitarie dell’inizio di questo ultimo anno accademico.

 

2. A caccia di matricole con la pubblicità

 

Con le immatricolazioni di quest’ultimo anno accademico è entrata in molte università italiane una ventata di modernità: l’uso delle tecniche del marketing per migliorare il grado di appetibilità dell’offerta didattica.

In realtà nella maggioranza dei casi ad entrare è stato solo il linguaggio del marketing e non le sue tecniche (e tutto sommato, è già meglio!!).

Tempo fa un giornalista e professore universitario, che non nomino perché non voglio rischiare di fargli pubblicità, notava con grande soddisfazione che: L’Herald Tribune del 16 settembre 1999 ha inneggiato alle università italiane, “che finalmente hanno capito che occorre farsi pubblicità”.

Quel professore e giornalista parlava dell’Herald Tribune perché è più elegante indicare una testata di lingua inglese, ma avrebbe potuto parlare della stragrande maggioranza dei nostri giornali, che già da giorni avevano scoperto la bella novità: le università vanno a caccia di studenti.

Ho visitato il sito web:http://www.snur-cgil.org e vi ho trovato: “Marketing per farsi conoscere tra i giovani e aumentare le iscrizioni. A caccia di matricole con la pubblicità: Qualità delle strutture e vivibilità delle città in primo piano negli slogan”.

Appare implicito un acritico consenso circa le iniziative delle diverse sedi, messe a confronto. Si tratta sostanzialmente di pubblicità di tipo turistico, che esalta la bontà del clima o la bellezza dei monumenti, quando non raggiunge il tono del rettore del Politecnico di Torino: “Puntiamo su una pubblicità moderna e aggressiva per raggiungere quella fascia di studenti potenzialmente motivati. Non abbiamo dubbi sul fatto che si usa la pubblicità per attirare le persone più motivate e non per attirare le maggioranze distratte e disincantate”. In questa frase c’è già una risposta alle mie perplessità circa il numero dei laureati: le maggioranze sono distratte e disincantate!

La verità è che lo studente è già diventato e ancor più diventerà “merce rara” e bisogna contendersela, perché in qualche modo i fondi continueranno, direttamente o indirettamente ad essere correlati con il loro numero, in calo per motivi anagrafici.

Cosa, se non la pura e semplice pubblicità avrebbero potuto usare per invogliare gli studenti a iscriversi a Firenze piuttosto che a Siena, alla 2a piuttosto che alla 3a o 1a università di Roma, a Catania piuttosto che a Palermo? Perché sul piano culturale e organizzativo, ognuna delle nostre sedi universitarie potrà evidenziare il suo ruolo in uno o più settori disciplinari, ma come abbiamo già notato, nessuna di loro può vantare, in via generale, l’efficacia della didattica offerta. A laurearsi in tempi accettabili e con buoni voti sono soprattutto i pochi studenti che arrivano all’università con un buon curriculum.

Proprio facendo nostri i criteri delle tecniche di marketing per la valutazione del nostro particolarissimo servizio, dovremmo ammettere di avere sbagliato tutto e o chiudere bottega o finalmente affrontare il problema. Quello dell’insegnamento è un servizio essenziale, costoso, che risulta poco efficace, perché trasforma in laureati una piccola parte di quanti vi entrano e ancor meno efficiente, perché a fronte degli scarsi risultati (cui si arriva in tempi quasi biblici) si hanno alti costi economici e sociali.

Al contrario non manca chi nota che la scarsa efficacia deve essere letta in positivo, sostenendo che essa dipende dal fatto che la nostra università è molto selettiva e potrà arrivare al titolo solo chi lo merita veramente; chi dice così o è un inguaribile ottimista o un cinico, visto che non si pone il problema dei costi economici né tanto meno di quelli umani.

Eppure anche da queste cose parte la cattiva fama delle nostre università e la disaffezione che spesso le viene manifestata. Basta ricordare l’immagine che dell’Università di Roma venne proposta da alcuni giornalisti e subito recepita dall’opinione pubblica, in occasione del tragico caso di Marta Russo, quando questo terribile evento fu colto per porre sotto processo, non solo le regole di comportamento, ma addirittura l’intero personale universitario.

Restando all’efficacia dello studio, il problema reale parte da molto lontano, dalla riforma del 1969 che ha liberalizzato l’accesso all’Università e introdotto la possibilità di organizzare piani di studio individuali, prescindendo dalla tipologia di titolo di scuola media posseduto. Conquista trasformata in beffa, senza le necessarie modifiche nella organizzazione della didattica, senza il necessario adeguamento delle strutture e dei programmi, senza prevedere forme di sostegno per chi si spostava di ambito culturale. Realizzando così nel peggiore dei modi la transizione da una università d’elite a quella di massa, possibile mai che si trattasse solo di incolpevole disattenzione?

Nulla nelle università, ancor meno nella scuola media superiore. Anzi, nel frattempo anche qui la didattica è entrata in crisi, perché a monte vi era una scuola media inferiore trasformata.

È indiscutibile, rispetto a ciò, la responsabilità dei governi “della prima repubblica” e dei loro Ministri della Pubblica Istruzione, soprattutto perché l’esistenza del problema era perfettamente noto.

La questione era perfettamente chiara nel 1990, quando infatti con la legge n. 341 si istituì il tutorato, di cui però nelle Università si discute ancora come di un oggetto strano di non chiaro utilizzo.

Non possiamo non riconoscere che il problema era ed è fortemente presente, come problema da risolvere, per l’attuale maggioranza di governo. Quando il Ministro Berlinguer fu nominato sia Ministro dell’Università che della Pubblica Istruzione, questo trovava giustificazione solo nella necessità di andare alla radice del problema, assicurando il necessario raccordo tra le iniziative nelle due aree.

Nei confronti dei governi dell’attuale maggioranza le perplessità non riguardano il livello di attenzione ma le soluzioni scelte.

 

3. Lo studente universitario, questo sconosciuto

 

Bisogna riconoscere che al centro dell’azione della politica di ristrutturazione dell’università c’è ancora lo studente, ma è ormai cambiato, direi si è perduto, il significato della parola studente. Di fronte al docente, che in senso generale o specifico continua ad insegnare, non si sottintende però più la presenza di un allievo, discepolo che ne segue l’indirizzo.

Sembra che considerare lo studente come un individuo in via più o meno avanzata di formazione, non sia rispettoso della sua personalità.

Egli infatti viene indicato, in alcuni casi come utente di un servizio e in quanto utente, con piena cognizione di causa, in grado di giudicarlo nel momento stesso in cui ne usufruisce; in altri casi, come un cliente che va e paga per un prodotto di cui è ugualmente sin dall’inizio perfettamente in grado di misurare il grado di soddisfazione, che evidentemente dipenderà dal grado di corrispondenza dell’avuto con il voluto.

Questo ha chiarito il documento della commissione “Martinotti” (gruppo di lavoro su “Autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio a livello universitario e post-universitario” istituito nel febbraio del 1997 e presieduto dal sociologo, prof. Martinotti) e non è un documento di poco conto se, come ci informa il professor Umberto Eco (La Repubblica, 4/1/2000), l’attuale riforma è detta, tra gli intimi, riforma Martinotti.

Lo studente è dunque un cittadino che, nel momento in cui si iscrive, stipula con l’università un contratto. Mi piacerebbe sapere a quale autorità terza potrà presentarsi qualora, insoddisfatto del servizio, non ritenga rispettato il suo contratto.

Il problema è che lo studente è perfettamente in grado di valutare il docente da tutti i punti di vista meno uno: soprattutto se è uno studente dei primi anni di corso, non può saper dire se il docente, al di là delle maniere corrette, il linguaggio chiaro, nel rispetto dell’orario di lezione e ricevimento, stia insegnando quanto servirà alla comprensione degli esami successivi, alla formazione di riferimento, alla futura professione. Viceversa è proprio questo che definisce l’efficacia “interna” dell’insegnamento e dunque anche la soddisfazione oggettiva dello studente.

Inoltre il diritto dello studente ha un riscontro in un diritto ancora più importante che è quello della società che sostiene i costi dell’università (non solo di quella pubblica) perché ha bisogno, per il suo sviluppo, di poter contare su: medici, ingegneri, fisici... e non ultimi, politici di buona cultura ed elevata professionalità (efficacia esterna).

Non si discute quindi la necessità di tutelare la qualità dell’insegnamento, si discute se la strada per farlo possa essere quella di caricare di ruoli impropri lo studente.

Tra l’altro immaginare che il tradizionale pagamento delle tasse d’iscrizione = pedaggio per l’ingresso nel mondo universitario, sia trasformato in un contratto = rapporto tra azienda fornitrice e cliente, significa immaginare lo studente come un estraneo al sistema e non più come una sua componente essenziale. Perdono peso gli interessi oggettivi vitali per l’intero paese, a favore degli interessi individuali, privati, di ciascuno di loro.

Così, mutata l’ottica, per l’università-azienda diviene di fatto molto più centrale il raccordo con gli interessi del mondo imprenditoriale, che infatti viene esplicitamente chiamato non solo a cofinanziare ma anche a supervisionare corsi.

Nota il documento Martinotti: ”flessibilità curriculare” vuol dire offrire agli atenei la possibilità di avviare nuove attività formative, anche temporanee, senza lunghe e defatiganti procedure di approvazione preventiva.”

Ben venga un’accentuazione del ruolo di formazione oltre a quella universitaria istituzionalmente dovuta, se si tratta di attività di formazione nel lavoro, per persone che a diversi livelli di competenza debbano colmare lacune sopravvenute nella formazione o utilizzare contenuti specifici dell’ambito culturale.

Non manca una disponibilità in tal senso da parte delle università e infatti non sono mai mancate esperienze di questo tipo. Attenti però a non rischiare di confondere i due fini, l’uno di addestramento diretto all’aggiornamento o rapida qualificazione per esigenze sopravvenute, l’altro, che dovrebbe restare il principale, di formare la classe dirigente del paese, di livello di professionalità anche media, con l’istituzione nel ’90 dei diplomi universitari.

Il rischio è reale e infatti non credo venga a caso la proposta, che ovviamente in via di principio piace al giornalista (opinionista) prof. Panebianco (Corriere della Sera, 12 gennaio 2000) e che prevede come ottimale per l’insegnamento universitario uno scenario in cui, accanto ad un percorso standard di basso profilo, possa esistere “un percorso più elevato, per gli studenti più dotati”. Più chiari di così!

Da una parte si sostiene che la riforma dei corsi ci porrà, competitivamente, nel mercato europeo, ma dall’altra si interpreta la proclamata “autonomia universitaria” come autonomia di definire localmente strategie culturali mirate al proprio, locale, mercato del lavoro.

Non si tratta solo di parole, già sono state messe in piedi strutture come quella di Campus, promossa dalla Conferenza dei Rettori (CRUI, associazione privata e con presenza paritetica delle università pubbliche e private, cui viene attribuito un sempre più importante ruolo di supporto rispetto al MURST, Ministero dell’Università e Ricerca Scientifica) in collaborazione col Ministero del Lavoro, la Regione, la Confindustria e buoni ultimi, i sindacati (CGIL, CISL, UIL, ovviamente). Questi, consorziati in funzione di un’azione di promozione ma anche di controllo della didattica, per ora solo dei corsi triennali di diploma universitario, attingono ai finanziamenti previsti dal Fondo Economico Europeo per il contrasto alla disoccupazione (e non a quelli finalizzati al sostegno per i corsi universitari, che pure esistono).

Si tratta, quanto a denaro, a volte di poca cosa (nel caso della mia facoltà, per lo scorso anno, si è trattato di un finanziamento di un centinaio di milioni) ma dal punto di vista di principio di un fatto rilevante. Perché le facoltà, in cambio, non sottopongono la loro scelta didattica al giudizio di un garante della collettività, ma più modestamente al vaglio di congruità con le esigenze del mercato del lavoro locale. A questo fine si giustifica la presenza di un esponente della Regione e dalla parte degli imprenditori, la presenza della Confindustria (che trova ufficializzato il suo ruolo di censore pubblico).

Ben venga una verifica di congruità del lavoro di docenza e ricerca delle università, essa dovrebbe opportunamente essere testimoniata, ma non certo da un ente esterno all’ambito pubblico e per di più doppiamente legato a interesse non pubblico. Infatti non bisogna dimenticare che dietro la CRUI, vi sono di nuovo le grandi industrie, singolarmente oltre che attraverso la Confindustria e il Vaticano, direttamente e attraverso suoi ordini ecclesiali.

Si è dunque intaccato un principio fondamentale che era proprio quello che voleva che le scelte didattiche, pur finalizzate alla formazione di figure professionali utili per il mercato del lavoro, non dovessero essere condizionate agli interessi immediati dei datori di lavoro.

A questo punto, non solo comprendiamo meglio la genesi del nuovo ruolo dello studente, ma ne riconosciamo anche l’effetto nelle azioni degli organi di governo delle Università. In particolare, tanto per limitarci all’esempio di costume, rispetto alle azioni dirette ad attirare nuovi studenti-clienti al nostro fornitissimo supermercato: per quest’anno pubblicità, l’anno prossimo forse in omaggio libri e qualche credito, ma tra non molto, prodotti di qualità solo per chi merita o, meglio ancora, per chi potrà pagare.

In realtà temo che il tentativo sia quello di far svolgere all’università pubblica un ruolo di formazione non universitaria di terzo livello, diretta appunto a favorire la transizione alla vita attiva e rispetto cui in altri paesi è stato attivo proprio il mondo imprenditoriale. Livello di formazione di cui un rapporto OCSE del 1998, esalta l’importanza, in quanto alternativa alla formazione-istruzione universitaria, lamentandone l’assenza per il nostro paese.

Il sistema formativo nel suo complesso è in crisi, non solo in Italia e non solo in Italia si discute di quali politiche debbano essere approntate per affrontare il problema. C’è senz’altro un problema di qualità e di produttività del sistema, c’è anche un problema di “educazione permanente”, per tener testa alle innovazioni tecnologiche e all’evoluzione del sapere.

Non credo ci sia il problema di copiare il sistema anglosassone, in America e in Gran Bretagna infatti è già stato realizzato quello che qualcuno vuol fare da noi oggi: una biforcazione del sistema formativo, da una parte curricoli leggeri, non troppo caratterizzati culturalmente, dall’altra i tradizionali saperi forti per i pochi che meritano. Il risultato piuttosto esplicito che si vuole ottenere è una massa di personale sufficientemente acculturato, ma non professionalmente caratterizzato, da poter essere spostato, senza costi, da un settore produttivo o di servizio ad un qualsiasi altro, a seconda dell’interesse dell’impresa.

Una filosofia diversa nel progetto culturale implicito nell’istituzione dei diplomi universitari previsti dalla legge 341 del 1990, che anche attraverso gli stage presso le aziende, doveva formare una professionalità.

Si è colpevolmente, prima svuotata e poi lasciata cadere l’opportunità offerta.

Questi diplomi, avrebbero dovuto realizzare un livello di professionalità interno al progetto culturale delle facoltà ma ben definito, quanto a capacità acquisite.

Si pretese di compiere questo atto, culturalmente abbastanza rivoluzionario per la stragrande maggioranza delle facoltà, a costo zero, ossia utilizzando i docenti e le strutture presenti. Tranne piccole oasi, come le facoltà di Statistica che avevano già dei diplomi e quindi personale docente in organico per essi, non furono perciò attivate forme di didattica innovative, dovendo gli studenti dei diplomi spesso svolgere solo una parte del programma delle lezioni, che restavano quelle di sempre. Dal diploma, con una quota maggiori o minore di crediti si doveva poter accedere al secondo livello della laurea, che però restava sostanzialmente separato, più rigoroso e, lui solo vera docenza universitaria! Il corpo docente (professori di Ia e IIa fascia e ricercatori) nella sua quasi interezza finì col ritenere un pericolo il diploma, che avrebbe dovuto rappresentare l’offerta di primo livello, nel tempo l’unica seguita dalla maggior parte degli studenti e su cui, prima o poi, si sarebbero dovuti spostare stabilmente una buona parte dei docenti, così declassati (in realtà dal loro stesso modo di insegnare).

L’attuale impostazione prevede lauree (e non diplomi, anche i nomi hanno il loro peso!) di primo livello di tre anni, seguite da lauree biennali (di approfondimento) di secondo livello e ancora non è chiaro che forma prenderanno.

Ancora le facoltà non hanno finito di discutere, ma i docenti che contano hanno già chiarito: loro dovranno insegnare al secondo o, in alternativa, al terzo livello, al primo non se ne parla neppure.

Ad essere sbagliata non era la legge di istituzione dei diplomi universitari!