Ciò che mi propongo in queste pagine è tracciare un
rapidissimo profilo del processo, che ha condotto l’economia ad assumere lo
status di disciplina a se stante. Il mio scopo è mostrare (in questa sede,
solo, mostrare, non dimostrare) che tale ‘separatezza’ dell’economico è
possibile unicamente all ’interno di una fase storica, dominata da una ‘forma
di vita’, la cui logica profonda, da un lato, è quella della scissione della
totalità sociale e, dall’altro, quella del recupero - ma sotto la forma della
relazione “esterna”, “esteriore”, puramente “necessaria” - dei nessi
tra i vari livelli dell’esperienza collettiva.
In questo modo, com’è chiaro, confesso il mio franco
collocarmi all’interno della prospettiva dialettica, che fu di Hegel e di
Marx. Ad ulteriore chiarimento.. Termini come obiettivo, obiettività,
obiettivamente, certo, sono di uso frequentissimo; ma proprio questa circostanza
rischia di non farne avvertire la polisemia e, dunque, l’ambiguità. Sembra,
infatti, che quei termini possiamo usarli secondo due prospettive di
significato: (a) in quanto sinonimi di razionale, cioè, di connessione organica
all’interno di un concetto (o “linea di movimento”, come dice il Marx dei
Grundrisse), caratterizzante certi processi storici; ovvero, (b), come
connotazione di un mèro “esserci”, di un irrefutabile “star-là”, di
una presenza opaca, gratuita, ingiustificata ma, pure, vincolante, ineluttabile.
Va da sé che obiettività nel senso (b) è espressione di una scissione -tra un
mondo del soggetto, che trova nell’oggetto solo il suo limite; e un mondo dell’
oggetto, che non ha altra ragione se non il suo mèro “esserci”. La
prospettiva dialettica -la sua scientificità- consiste nel rintracciare nella
“linea di movimento della cosa stessa” (ovvero, nel suo concetto) ciò che
conduce alla scissione ed al suo possibile superamento. Rispetto al nostro tema,
ciò significa che superare la concezione dell’ economia -come disciplina a se
stante, solo esteriormente relazionata ad altro-, è operaziona razionale, se e
solo se si connette ad un processo reale, capace di togliere il mondo scisso di
cui quella concezione è espressione.
Esaminiamo due brevi testi di Marx -esattamente, l’uno
tratto dai Grundrisse, l’altro dalla Misère de la philosophie.
Nel primo, -che indicherò con F, perché fa parte della
sezione dei Grundrisse dedicata alla “Forme, che precedono la
produzione capitalistica”-, leggiamo che “dire che la storia pre-borghese ed
ogni sua fase hanno, da sempre, anche una loro economia e un fondamento
economico del loro movimento, in fondo, è una mèra tautologia, poiché la
vita degli uomini si basa su una produzione, su una produzione d’une
manière ou de l’autre sociale, i cui rapporti noi chiamiamo rapporti
economici.”.
Tenendo presente che gli interi Grundrisse son
dedicati all’analisi del movimento economico che sta alla base della storia
borghese, comprendiamo facilmente che, nel testo citato, Marx esprime, in
realtà, una tesi generale (non limitata, cioè, alle fasi storiche
precapitalistiche), tutt’altro che consonante con la vulgata marxista,
ovvero, con l’immagine del marxismo, che, a partire dagli anni Trenta del
nostro secolo, si è andata imponendo alla coscienza comune di seguaci ed
avversari.
Sappiamo, infatti, che appartiene a questa vulgata l’affermazione,
secondo cui principio cardine della concezione dialettica della storia (il
cosiddetto materialismo storico) sarebbe proprio l’affermazione
che <alla base del movimento storico c’è un movimento economico>.
Ebbene, il testo citato ci mostra, invece, che quella affermazione, per
marx, ha il valore di una mèra tautologia.
Nel secondo testo -che indico con M, essendo tratto, come
ricordavo, dalla Misère de la philosophie-, troviamo l’affermazione
generale, secondo cui comprensione della dialettica e compensione del
movimento storico fan tutt’uno; affermazione, da cui Marx ricava che
Proudhon, non intendendo un’acca del movimento storico reale, non è in grado
neppure di intendere la dialettica di Hegel che, nelle sue mani, diviene mèra
“fantasmagoria”, robbaccia travisata. Insomma, non potendosi comprendere
secondo Marx- lo sviluppo dell’economia se non si comprende lo sviluppo
storico dell’umanità, lo svolgersi reale delle categorie economiche è
destinato a restare, per Proudhon -data la sua ignoranza in ambito storico-, un
autentico mistero. Di nuovo, il testo di Marx smentisce la vulgata
marxista.
A tener presente quest’ultima, infatti, Marx... dovrebbe
dire il contrario di ciò che dice. Dovrebbe affermare, insomma, che
senza comprendere lo sviluppo dell’economia non si comprende nulla dello
sviluppo dell’umanità e che, dunque, proprio intendere il modo di svolgersi
delle categorie economiche mette, anche, in condizione di intendere la dinamica
dialettica reale. Senonché, come abbiamo visto, Marx dice esattamente l’opposto.
Non solo per mèro divertimento (sia pure ‘colto’), è
utile a questo punto citare un testo antico - veramente antico, perché si
tratta di un frammento, in cui si dà testimonianza del contenuto di un ‘opera
aristotelica, Della filosofia, andata perduta; ciò che a noi interessa
in particolare è che, nel frammento, l’illustrazione/spiegazione degli usi
diversi del termine <sapienza>, conduce l’autore antico a delineare una
sorta di filosofia della storia ed a render conto, in un certo modo, dei vari
livelli della vita sociale, del loro sorgere storicamente e del loro rapportarsi
l’uno all’altro. Ma ecco il testo:
“la sapienza dunque ebbe un nome tale, quasi si trattasse
di una qual certa chiarezza, nel senso che chiarisce ogni cosa. E questa
chiarezza è stata così chiamata in quanto è qualcosa di luminoso, che trae il
suo nome da quelli del chiarore e della luce, per il fatto che porta alla luce
le cose nascoste. Poiché dunque le realtà intellegibili e divine, come
dice Aristotele, anche se sono le più chiare nella loro propria sostanza,
tuttavia a noi sembrano tenebrose e oscure per l’annebbiamento che incombe su
di noi a causa del nostro corpo, a buon diritto gli uomini dettero il nome di
sapienza alla scienza che per noi porta alla luce quelle realtà. D’altra
parte, dal momento che facciamo un uso generale dei nomi di ‘sapienza’ e di
‘sapiente’, bisogna sapere che i nomi di ‘sapienza’ e di ‘sapiente’
sono omonimi: furono infatti intesi dagli antichi in cinque sensi, di cui parla
anche Aristotele nei dieci libri dell’opera Della filosofia. Si deve
infatti sapere che di diverso tipo sono i flagelli per cui gli uomini periscono:
a causa di pestilenze, carestie, terremoti, guerre, e malattie di ogni sorta e
ancora per altre cause, ma soprattutto a causa di inondazioni troppo impetuose,
come si dice che fosse quella ai tempi di Deucalione, che fu certo grande, ma
non tale da superare tutte le altre. i pastori e tutti coloro che trascorrono la
loro vita sulle montagne o sui luoghi elevati sono così in salvo, mentre le
pianure e coloro che vi abitano restano sommersi. E così per l’appunto si
narra che Dardano, a causa di un’inondazione, si salvasse passando a nuoto
dalla Samotracia a quella che in seguito fu chiamata Troia; fu dunque per paura
che coloro che erano scampati dalle acque abitarono i luoghi elevati... Questi
sopravvissuti dunque, non avendo di che nutrirsi, spinti dalla necessità
escogitarono ciò che occorreva al loro bisogno: [a] sia macinare grano
con le mole, sia seminare, sia altro; e chiamarono sapienza una tale capacità
di escogitare, che scopriva ciò che giovava alle necessità della vita, e
sapiente colui che possedeva quella capacità. Successivamente [b]
inventarono le arti, come dice il poeta, per i suggerimenti di Atena: arti
costituite non per le sole necessità della vita, ma che via via pervennero fino
a ciò che è bello e civile. E tutto ciò, ancora una volta, chiamarono
sapienza e chiamarono sapiente colui che era autore di quelle invenzioni, come
nei versi <un sapiente artefice ha costruito> e <lui che ben conosceva
per i suggerimenti di Atena>. A causa dell’eccellenza delle scoperte,
infatti, essi attribuivano alla divinità la loro invenzione. In seguito,
ancora, [c] volsero lo sguardo alle faccende politiche e scoprirono le
leggi e tutto ciò che tiene insieme le città; e chiamarono sapienza anche
questa scoperta: di tal genere erano i sette sapienti, scopritori di alcune
virtù politiche. Procedendo così in seguito essi volsero la loro attenzion [d]
ai corpi stessi e alla natura che li ha prodotti: e questa fu chiamata più
specificamente indagine naturale (e noi diciamo sapienti coloro che si applicano
alla natura); in quinto luogo, da ultimo, [e] si servirono di quel nome
in relazione alle realtà divine, sopramondane e immutabili per se stesse, e
alla conoscenza di queste realtà dettero nel modo più appropriato il nome di
sapienza.” (Aristotele. Opere. XI, Bari 1973: 202ss).
Dunque, illustrare i cinque usi del termine sapienza
consente all’autore antico una sorta di teoria stadiale della storia, ovvero
di scandire lo sviluppo storico per stadi, che progressivamente conducono l’umanità
dall’iniziale, assorbente preoccupazione economica, all’impegno pienamente
teoretico dell’indagine metafisica. Ciò facendo, lo stesso autore individua
livelli diversi dell’esperinza sociale e li dispone secondo un ordine
determinato l’uno rispetto agli altri: il testo, dunque, mentre ci dà una ‘filosofia
della storia’, ci dà anche una ‘teoria dell’insieme sociale’.
Soffermiamoci su quest’ultimo punto.
Due osservazioni è importante fare: il primo stadio dello
sviluppo sociale (ovvero, il primo uso dei termini sapienza e sapiente)
è economico, nel senso che indaga il rapporto uomo/natura, mediato dall’uso
di strumenti e finalizzato alla soddisfazione di necessità materiali. E’ solo
in un secondo stadio, che l’umanità giunge ad arti, che hanno a che
fare con preoccupazioni non economiche, dalle quali, per altro, essa si
allontana progressivamente sempre di più, fino a giungere al quinto ed ultimo
stadio, che potremmo dire metafisico.
Le fasi di sviluppo storico -ma anche i diversi livelli dell’esperienza
sociale- si susseguono l’uno all’altro, crescono l’uno sull’altro;
in altre parole, non coesistono mai, se non nella forma del residuo che
giace accanto al nuovo, ma che -appunto perché residuo- ha con il nuovo
un rapporto di esteriorità. Ricordando Feuerbach, si potrebbe dire che
la rappresentazione dello svolgimento storico e sociale, che l’autore antico
ci propone, è tutta nel tempo ma, mai, anche nello spazio. C’è
diacronia, insomma, ma non sincronia.
Il che significa, in altre parole, che -entro la
rappresentazione dell’autore antico- non è concepibile un uomo, che viva nel
primo stadio di sviluppo sociale, il quale non solo usi certi strumenti per
piegare la natura ai suoi bisogni, ma anche li usi in un certo modo,
perché già ha rappresentazioni e preoccupazioni, poniamo, politiche e
religiose, che gli proibiscono determinati animali o vincolano, in una qualche
maniera, il suo rapporto con certi oggetti naturali.
Insomma, se vale la rappresentazione dell’autore antico,
non è possibile -al primo stadio di sviluppo- un rapporto economico, che già
sia più che economico, in quanto rappresentativo di una coscienza politica,
sociale, religiosa, operante ‘fin dall’inizio’. Né d’altronde, valendo
sempre quella rappresentazione, sarebbe possibile una preoccupazione poniamo di
ordine metafisico (caratteristica, sappiamo, del quinto stadio), in qualche modo
vincolata a preoccupazioni economiche, politiche o giuridiche, collocandosi
queste entro stadi di sviluppo precedenti.
Il paradosso vuole che questa concezione rigorosamente
diacronica dello svolgimento storico e del costituirsi dell’insieme sociale
ricompaia, in realtà, nella vulgata marxista, quando essa dispone i
diversi piani dell’esperienza storico-sociale (giuridico, politico,
ideologico, religioso) secondo la crescente distanza loro dalla base
economica. E l’errore che si ripropone è sempre lo stesso: il non vedere
la coesistenza nello spazio (la sincronia) di quei diversi piani.
E’ del tutto chiaro che a questo errore se ne lega subito
un altro, che consiste nel rappresentre il sovrapporsi dei vari livelli sociali
(giuridico, politico, ecc...) come progressivo allontanamento dal reale (l’economico).
L’insistenza dei due testi citati, F ed M, nel sottolineare
il primato della storia sull’economico dice con inequivoca chiarezza che, per
Marx, reale è, invece, il complesso dell’esperienza
storico-sociale; ovvero che non esiste rapporto economico che non sia
espressivo, anche, di relazioni sociali, di rappresentazioni culturali, di
livelli di conoscenza raggiunti, di condizionamenti fisico-ambientali, ecc.
In definitiva, se volessimo indicare -al di là della vulgata-
le caratteristiche essenziali -cioè, differenzianti- della concezione
dialettica della storia, dovremmo sottolineare (a) come essa liberi la nozione
di rapporto economico da ogni riduzionismo economicistico, in quanto la
concepisce come intersezione del rapporto uomo/natura e uomo/altro uomo; (b)
come essa enfatizzi la storicità di ogni categoria economica e, dunque, di ogni
modo di produzione, perché rispondenti sempre a condizioni definite e, dunque,
transeunti; (c) dovremmo richiamare, ancora, il suo legare queste condizioni
definite al grado di sviluppo delle forze produttive, dunque, al livello
raggiunto di sapere e di abilità pratiche -nel duplice senso di ciò che
si sa e di come lo si sa; (d) infine, dovremmo sottolineare il suo
radicale anti-empirismo, che poi non è altro che la relazione fra economia,
storia e dialettica, quale risulta dal citato testo M.
Il rifiuto marxiano di tematizzare l’economico come
dimensione a sé stante [1], certo, non costituisce storicamente una novità; è vero
piuttosto che l’indagine economica solo recentemente è andata contraendosi
nel limite di una scienza particolare (vedi box “Il termine economia”).
Nell’epoca a Marx contemporanea, con l’eccezione forse di
Ricardo, ancora l’indagine economica viene condotta in stretto legame con la
ricerca storica, con la problematica morale e, in questo contesto, con tematiche
epistemologiche.
Non è un caso, ovviamente, che da questo approccio ai
processi economici siano derivate una varietà di prospettive in varia misura
critiche verso il modo capitalistico di produzione. Prospettive, a cui Marx è
va da sé- fortemente interessato, verso le quali ha debiti precisi, ma anche
come nel caso di Sismondi [2], su cui qui brevemente ci soffermeremo- che egli
sottopone a critiche, che vanno alla radice della loro struttura teorica.
Marx si interessa di Sismondi non solo ai primi inizi dei
suoi studi economici (i Pariser Manuskripte); non solo quando si
tratta di indicare le correnti di pensiero da cui il comunismo scientifico si
distingue (il Manifesto); ma anche in tutte le sue opere più mature e
significative dal punto di vista dell’analisi socio-economica (il Per la
critica..., i Grundrisse, le Teorie sul plusvalore, Il
capitale).
Proprio in quest’ultimo caso, la presenza di Sismondi è
particolarmente rilevante: nel primo libro del Capitale, infatti, egli è
citato quando si tratta di definire il capitale, il prezzo della forza-lavoro,
il plusvalore relativo, la riproduzione semplice, il processo capitalistico di
produzione, l’accumulazione del capitale, la conversione primitiva del denaro
in capitale, il carattere antagonistico della produzione capitalistica e la
nozione di salariato.
Nel secondo libro della stessa opera, Marx si esprime sì
criticamente nei confronti di Sismondi, ma del suo pensiero, tuttavia, fa conto,
in primo luogo, nell’elaborazione degli schemi della riproduzione (che, in
realtà, sono una riformulazione di tesi espresse da Sismondi); in secondo
luogo, quando si tratta di operare la distinzione fra capitale costante e
variabile, nello studio del movimento circolare del reddito, nella formulazione
della teoria della crisi ed, infine, nell’analisi del ruolo del credito nel
processo di produzione.
La consonanza dell’opera di Sismondi con la prospettiva
marxiana consiste -lo accennavamo- nel fatto che, in essa, i fenomeni economici
figurano solo come aspetto particolare di un più generale ambito
storico-sociale: ciò non capita per caso, ma sì per il riproporsi -nella
cultura ottocentesca- di un motivo che appartiene alla tradizione classica
(Platone, senofonte, Aristotele). Da tale impostazione deriva, anche per
Sismondi, la convinzione che le ‘necessità’ (le regole, le leggi) dell’economia
abbiano da equilibrarsi con altre ‘necessità’, che appartengono alla più
generale vita ‘politica’.
Insomma, possiamo dire che per Sismondi esiste un insieme
<vita sociale>, di cui l’economia è parte, necessariamente
subalterna rispetto al tutto. Il problema propriamente scientifico (o
teorico) inizia qui: com’è pensato da Sismondi il rapporto parte/tutto?
Considerate isolatamente -sostiene l’economista svizzero,
contemporaneo ed interlocutore di Malthus- ricchezza e popolazione non sono
altro che astrazioni e l’autentico compito dell’uomo di Stato è, invece,
riuscire a combinarle proporzionalmente, in modo da garantire agli uomini, in
uno spazio dato, la maggiore possibile felicità (bonheur). Condizione
per conseguire un tale risultato è che l’accrescimento della ricchezza
risulti proporzionato a quello della popolazione e che la sua distribuzione
avvenga, anch’essa, secondo una ratio, che non può esser turbata se
non con grande pericolo. Insomma, per la felicità di tutti è necessario che il
reddito cresca con il capitale, che la popolazione non
superi il reddito che deve farla vivere, che il consumo cresca con
la popolazione e che la riproduzione sia proporzionata al capitale
che la produce, come anche alla popolazione che la consuma. E’ del
tutto ovvio che alla base di questo argomento c’è la drammatica esperienza,
che anche Sismondi fa, delle violente contraddizioni sociali, che
caratterizzavano il capitalismo della sua epoca. [3]
Va da sé che Sismondi scrive in un contesto storico-sociale,
nel quale -per le caratteristiche proprie del modo capitalistico di produzione-
l’ambito economico si presenta dominato non solo da ferree necessità, ma
anche -ciò che nel nostro caso conta ancor di più- da ‘necessità’, che
risultato del tutto esterne rispetto agli imperativi etico-politici e,
quindi, ad essi indifferenti.
In altre parole, se per Platone ed Aristotele -posto il mondo
in cui essi vivevano- non aveva senso pensare la riflessione economica come
investigazione specifica, accanto ad altre scienze particolari,
ma, al contrario, era del tutto ragionevole intrecciare strettamente i rapporti
fra politico, etico ed economico-, nel contesto, invece, in cui opera Sismondi,
quelle tre dimensioni si sono distaccate e differenziate l’una dall’altra,
sufficientemente da stabilire ormai tra loro rapporti solo di esteriorità
reciproca. Il che implica ovviamente che sulla base di imperativi, che nascono su
uno dei tre piani, non si può pretendere di esercitare una qualche
azione efficace su uno qualunque degli altri due.
Il limite teorico di Sismondi, in effetti, sta proprio in
questo: per un verso, egli sa cogliere la necessaria correlazione tra etico,
politico ed economico; per l’altro, tuttavia, non riesce a tematizzare la forma
specifica (di implicazione esteriore, naturale -come dicevano
Hegel e Marx), che quella correlazione assume nel contesto della moderna
società capitalistica. Per comprender meglio, consideriamo una pagina
hegeliana, che risale al 1824/25.
“L’economia politica deve indicare le leggi che regolano
il sistema dell’appagamento di tutti i bisogni. Inizialmente essa ha davanti a
sé individui coi loro bisogni infinitamente molteplici, e che dipendono dal
caso, dall’arbitrio, dall’immaginazione, dalle capacità, una moltitudine
infinita di particolarità. Ci sono alcuni bisogni universali come mangiare,
bere, vestirsi; ma dipende esteriormente da circostanze del tutto accidentali il
modo in cui possono essere appagati. Il terreno è, qua o là, più o meno
fertile, produce questo o quello; le annate hanno una diversa produttività; un
uomo è laborioso, l’altro è pigro, uno ha più terra, l’altro meno; in
questo ramo dell’industria si inseriscono in molti, potrebbero essere anche di
più, o tutti. Ci si presentano solo accidentalità, solo arbitrio, ma questo
universale brulichio degli arbitri produce da sé determinazioni universali;
questi arbitri sono governati e retti da una necessità, che interviene di per
sé. Cogliere in essi questa necessità e conoscerla è l’oggetto dell’economia
politica.” [4]
Per quanto la pagina hegeliana rischi di non far risaltare
come nel sistema capitalistico non sia la domanda (i bisogni) a guidare l’offerta
(la produzione) ma esattamente il contrario, tuttavia in essa appare del tutto
chiaro come le <determinazioni universali>, le <necessità> della
moderna vita economica siano qualcosa di oggettivo, nel senso di leggi
che, incontrollate, si impongono di fatto, attraverso un processo che si svolge
con caratteri di casualità, arbitrio e contingenza; come, dunque,
particolarità della odierna vita economica sia che, paradossalmente, in tanto
la <legge> può imporsi, in quanto domini il suo contrario.
Dalla pagina hegeliana risulta chiara, insomma, la disarmonia
il carattere puramente oggettivo e ‘naturale’- che, nell’economia moderna
o capitalistica, caratterizza il rapporto fra evento particolare e
determinazione universale, tra quotidianità del movimento economico e sua
<regolarità>. Di qui, l’evidente impossibilità di sottoporre tale vita
economica -ed il rapporto fra le sue categorie e momenti- ad una razionale,
equilibrante direzione.
Se il rapporto fra eventi economici e leggi loro è
descrivibile nel modo in cui Hegel lo fa, se dunque già all’interno
dell’ambito economiconon è possibile regolarità se non mediante il suo
contrario -l’anarchia-, è del tutto chiaro che ancora più complessi e
problematici risulteranno i rapporti tra dominio economico e regole, che valgono
su piani addirittura distinti e separati da esso (quello politico e morale).
Ecco la fonte dell’utopismo di Sismondi, il limite teorico,
che origina il carattere piccolo-borghese del suo pensiero: egli pretende di
introdurre regolarità vincolanti nella necessaria anarchia del movimento
economico, pur non contestandone le impalcature di fondo (il cosiddetto
<rapporto di capitale>), che ne determinano, però, quel carattere
<naturale>, che già hegel coglieva. [5]
Con grande chiarezza questa contraddizione interna al
pensiero di Sismondi si mostra nella sua riflessione politica.
Sismondi parla di una scienza del governo, che deve
assicurare a tutti una vita degna, nello stesso momento in cui sappia
riconoscere il merito di ognuno -una scienza, dunque, che deve riuscire ad
equilibrare istanze contraddittorie: egalitaria l’una, discriminante l’altra.
Tale scienza del governo si articola in due parti.
La prima ha il nome di alta politica. Il suo scopo è
la felicità morale dell’uomo, la quale deve essere assicurata
largamente (il più largamente possibile) in tutte le classi sociali. Le armi
dell’alta politica sono la libertà, la cultura, la virtù; ma non basta,
dacché essa deve pure assicurare ai cittadini la speranza, anche
attraverso una religione, che prometta in una vita futura la compensazione delle
sofferenze patite in questa terrena.
La seconda parte della scienza del governo è, invece, l’economia
politica, ovvero l’amministrazione scientifica della ricchezza nazionale,
allo scopo di assicurare la felicità a tutte le classi sociali.
Vediamo bene da questa presentazione della scienza del
governo che sia la distinzione che la relazione tra alta politica ed economia
politica non rispondono ad una oggettiva articolazione interna della ‘cosa’,
ad una sua dinamica o vitalità propria; sì piuttosto sono introdotte da
Sismondi per dar corpo alla duplice, contradditoria esigenza di assumere, da un
lato, le ‘necessità’ dell’economia e, dall’altro, di sottoporle ad
imperativi etico-politici. E’ la riconferma dell’utopismo che dicevamo e del
suo legame con un’insufficiente costruzione teorica della scienza da Sismondi
proposta.
In altre parole, Sismondi è ben consapevole che lo sviluppo
del capitalismo, quando accresce godimento (joussance), lo fa
limitatamente ad una parte della società e solo in senso materiale.
Addirittura -come egli registra e descrive con grande
efficacia- lo sviluppo della ricchezza capitalistica si accompagna a crescita
della miseria per settori larghissimi della popolazione, a crisi ed a
disoccupazione.
“i ricchi -egli scrive- possono aumentare le loro ricchezze
sia attraverso una nuova produzione, sia accaparrandosi una parte di quanto era
riservato ai poveri.”
E’ a questo punto, di fronte a tali drammatiche
contraddizioni, che si rende necessaria non la trasformazione dei meccanismi
fondanti il movimento economico moderno o capitalistico; ma sì l’alta
politica, ovvero un’azione del governo per regolarizzare la
divisione della ricchezza fra le classi sociali, per renderla finalmente giusta.
Noi “invochiamo pressocché costantemente -precisa
Sismondi, con utopismo, che sarebbe azzardato definire inattuale- quell’intervento
del governo, che Adam Smith respingeva. Noi guardiamo al governo come a quello
che deve (sott. mia, S.G.) essere il protettore del debole contro il
forte, il difensore di chi non può difendersi da solo ed il rappresentante dell’interesse
permanente -tenace e sereno- di tutti, contro l’interesse temporaneo -e
passionale- dei singoli.” [6]
[1] Il che, è noto, non significa, per Marx, negare
l’esistenza di un modo di produzione -quello capitalistico- che rende reale
l’astrazione economica. Ma, appunto, il compito è riuscire a mostrare
come una determinata, complessiva epoca storica non possa
che realizzare quell’astrazione, dunque, render
<naturali> i processi economici e feticizzarne le categorie. Un
paradosso radicale del modo capitalistico di produzione consiste, appunto, nel
disgregare l’insieme storico-sociale in una molteplicità di piani, ognuno dei
quali è solo esteriormente collegato all’altro. Com’è noto, proprio
questa condizione reale rende per marx indispensabile ricorrere al patrimonio
linguistico-concettuale hegeliano per esporre la “linea di movimento”
del capitale.
[2] J-C. L. Sismondi nacque nel 1773 a Ginevra, dove
anche morì nel 1842. Le sue opere principali furono: i quattro volumi dell’ Histoire
des républiques italiennes du Moyen-âge (1807/8); i quattro volumi De
la littérature du midi de l’Europe (1813); i due volumi De la
richesse commercialle (1803); i due volumi dei Nouveaux principes d’économie
politique (1819) ed, infine, i due volumi di Etudes sur l’économie
politique del 1837/8. Per Marx e Sismondi, cf. N. Badaloni, Dialettica
del capitale, Roma 1980.
[3] Ed è anche evidente che
Sismondi sta ricollegandosi ad un tema classico: esattamente a quello svolto, ad
es., da Platone quando, nella Repubblica (III. 12. 372c), presenta
Socrate che disegna teoricamente il processo di costruzione ed organizzazione di
una città (di uno Stato). nel far questo Socrate sottolinea, appunto, che,
riunitisi in collettività, gli uomini “vivranno insieme con gioia e per
timore della povertà e della guerra non genereranno più figli di quanti ne
possano mantenere.” Il richiamo di fatto (intendo, consapevole o non) è
evidente; senonché la pagina di Platone nasce da un contesto storico in cui,
effettivamente, la dimensione economica non si era ancora ‘emancipata’ da
quella politica; in cui non esisteva ancora una società civile distint a e
separata dalla politica; in cui, insomma, la vita sociale era -rispetto alla
moderna società- ancora relativamente indistinta ed aveva nel momento politico
il suo centro effettivo. Proprio perché questa era la situazione, per un
pensatore come Aristotele, poniamo, la dimensione etica e quella politica non
risultavano separabili: sia la pagina aristotelica interpretata nel senso di
dare all’etica il primato sulla politica o viceversa, quello che resta è l’inseparabilità
dei due piani e l’inserimento -subalterno- del momento economico nella
complessiva dimensione etico-politica.
[4] G.W.F. Hegel, Le filosofia del diritto, Milano
Leonardo 1989: 225 (sott. mie, S.G.).
[5] In realtà è proprio questo suo
utopismo che rende attuale Sismondi: nel senso che, dopo il cosiddetto ‘crollo’
del mondo socialista, è tornata largamente ad imporsi, in ambiente
intellettuale ma anche politico-sindacale, la convinzione che sia possibile
sottoporre all’efficace vincolo di leggi e regole giuridiche la dinamica del
mercato. Ovviamente, l’odierna nuova fortuna di tale convinzione si lega ad un’altra:
che lo sviluppo tecnologico consenta di acquisire strumenti di risoluzione dei
problemi economico-sociali, in chiave puramente tecnica, ‘superando’ così
le asprezze della lotta di classe. Non per caso, una visione puramente operativa
della scienza e della tecnologia -la quale, a tutta priva, appare completamente
depurata da ‘presupposti’ filosofici o ‘ideologici’ (come oggi si
dice)-, di fatto, risulta il viacolo di una concezione della storia
esattamente, di una filosofia della storia-, che ricade nell’errore di
enfatizzare il momento giuridico-formale, quale fattore dirigente l’evoluzione
politica-, in analogica con certo neo-hegelismo, già criticato nelle opere
giovanili di Marx e di Engels.
[6] Sismondi, Nouveaux principles..., op. cit.:
89s.