1. Premessa
Ri pare che per comprendere cosa sta effettivamente accadendo
all’università italiana, per valutare in maniera adeguata i progetti di
riforma di questa istituzione, in parte realizzati e in parte da realizzare,
bisogna distinguere due ordini di problemi. Da un lato, si deve collocare il
problema ‘università’ nell’ambito delle profonde trasformazioni
economiche, innescate da questa nuova fase capitalistica, instauratasi anche a
causa del disfacimento dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati.
Molto brevemente si può dire che, in questa nuova fase, si
sta realizzando un gigantesco trasferimento di risorse, messe insieme dal
cosiddetto Stato sociale essenzialmente prelevandole con la tassazione dei
redditi da lavoro, da quelle istituzioni sociali che forniscono servizi alle
industrie grandi e piccole, che si trovano a competere in un mercato sempre più
“globale”.
Che questo sia un processo internazionale e che esso riguardi
direttamente l’università, a cui lo stato darà sempre meno risorse, lo ho
già illustrato in due precedenti articoli (cfr. Contropiano n° 4 e n°
5), sottilineando come ciò significhi anche escludere dalla formazione
universitaria gran parte dei figli dei lavoratori a reddito fisso e dei
disoccupati (evito volutamente di utilizzare l’espressione neodarwiniana e
mistificante “fasce deboli”).
L’altro aspetto della questione, che cercherò qui di
trattare, è invece di ordine culturale e scientifico. Esso contiene la seguente
domanda: una università trasformata dalle riforme già messe in atto o in via
di realizzazione, ossia in sostanza non più aperta alle masse, e non più in
grado di avvalersi in toto del finanziamento pubblico, che tipo di cultura e di
scienza produrrà?
Cercherò di illustrare questo secondo aspetto, analizzando
per quanto è possibile i provvedimenti legislativi che sono stati presi negli
ultimi anni, e che stanno per essere approvati nel prossimo futuro.
Naturalmente questo secondo aspetto è di fondamentale
importanza per il ruolo strategico che ha la ricerca scientifica nella società
industriale, ma anche per un’altra questione, che a chi si occupa di scienze
sociali non può apparire di secondaria importanza.
Come è ovvio ogni sistema sociale elabora un proprio sistema
di valori e di credenze, un’ideologia, il cui scopo fondamentale è di creare
consenso, di elaborare una visione del mondo che renda accettabile il sistema in
vigore (in questo senso, ogni sistema sociale è tendenzialmente omologante).
Tale visione del mondo nasce sicuramente dai gangli della vita sociale, ma uno
di questi gangli è sicuramente rappresentato dalle elaborazioni culturali
prodotte nelle università. Gran parte della ideologia quotidiana è il
risultato impoverito e semplificato, diffuso attraverso i mass media, i grandi
giornali nazionali, di queste ultime. In questa forma le elaborazioni culturali
contribuiscono, dunque, alla costruzione del cosiddetto senso comune, filtro
attraverso il quale volenti o nolenti finiamo col vedere le cose. Il senso
comune può essere sia uno strumento di sviluppo della coscienza sociale, sia
uno strumento del suo ottundimento. Da questo punto di vista la funzione dell’università
non è solo quella di un’istituzione specialistica; essa ha anche una funzione
più generale, ossia, di dare un contributo fondamentale al modo critico o
acritico in cui un certo sistema sociale vede se stesso e si giudica. Per questa
ragione la “questione università” non è di esclusiva pertinenza degli
addetti ai lavori, ma è piuttosto un problema fondamentale per chi voglia
trasformare le forme attuali di coscienza sociale.
Ma c’è anche un’altra ragione per la quale la funzione
dell’università è stata e resta centrale. Mi sia concesso spendere qualche
parola sull’argomento, troppo spesso trascurato dalla pubblicistica anche di
sinistra. L’università è stata e resta ancora oggi il luogo della
riproduzione della classe dirigente. Basti un dato per mostrare quanto sia vera
questa affermazione: circa il 10% dei parlamentari sono professori universitari.
Se ciò non sembrasse sufficiente, potremmo far riferimento ad un articolo di
Raffaele Simone, il quale - pur essendo lui stesso docente universitario -
descrive in maniera polemica il ruolo politico-sociale dei professori
universitari. Egli sottolinea giustamente che questi ultimi occupano al contempo
posizioni-chiave nelle istituzioni statali e private (industrie, banche,
authorities, ecc.) [1], riescono anche a diventare ministri, consulenti ben pagati
dell’amministrazione pubblica, se non addirittura capi di governo come Prodi
in Italia e Jospin in Francia.
Simone definisce questi personaggi con l’efficace
espressione Professori-Professionisti-Presidenti ed osserva con amarezza che,
per dispensare le proprie energie nello svolgere questo faticoso e complicato
ruolo, i docenti finiscono col trascurare l’insegnamento e la ricerca,
dedicandosi invece a tempo pieno ad attività assai più lucrose e, sicuramente
dal loro punto di vista, più gratificanti.
Proprio perché l’università ha la funzione di riprodurre
la classe dirigente, coloro che si collocano al vertice della struttura debbono
essere accuratamente vagliati e giudicati.
Non a caso proprio recentemente è stata approvata una nuova
legge sui concorsi universitari, i cui meccanismi più o meno velati di
cooptazione di studiosi “non meritevoli” avevano già in passato suscitato
un vivace dibattito. Questa nuova legge taglia la testa al toro e rende la
cooptazione esplicita e dichiarata. Infatti, il bando del concorso locale - non
più nazionale come in precedenza - indica quali dovranno essere le
caratteristiche “didattiche e scientifiche” del vincitore. Di modo ché la
facoltà che bandisce il concorso, o meglio i professori ordinari che la
governano, potranno stabilire in anticipo chi vincerà, indipendentemente da
come i candidati supereranno le prove concorsuali.
Nonostante sia evidente il carattere mistificante di tale
concorso molti docenti di fama, e che si considerano democratici e di sinistra,
hanno plaudito una legge, la quale a loro parere moralizzerebbe la vita
universitaria e renderebbe più rapidi i concorsi.
Il loro atteggiamento diventa del tutto chiaro se si
comprende che il docente universitario - di sinistra o di destra - quasi sempre
si identifica con i fini dell’istituzione cui appartiene, ed è quindi
interessato al mantenimento degli attuali equilibri di potere al suo interno.
2. Polemiche
In questi ultimi tempi i giornali hanno dedicato un qualche
spazio alla questione ‘università’, generalmente considerata un problema
specialistico non interessante per la massa dei lettori. Ciò è avvenuto in
occasione della discussione e della quasi approvazione di una legge riguardante
lo stato giuridico dei ricercatori, la figura che sta alla base della piramide
universitaria. Non affronto qui il tema per dare un qualche spazio alle
rivendicazioni dei ricercatori (categoria cui appartengo), ma per fare un quadro
delle diverse posizioni assunte da uomini di cultura appartenenti sia alla
destra che alla sinistra. Dirò solo brevemente che la legge, affossata in
seguito ad una violenta campagna di stampa, riconosceva ai ricercatori la
funzione docente - da essi svolta pienamente di fatto - e li faceva partecipare
agli organi collegiali da cui sono stati sempre esclusi. Il capofila di questa
battaglia è stato Angelo Panebianco, che ha scritto un fondo sul Corriere
della sera (13-12-1999), in cui denunciava indignato l’ope legis.
Ma più avanti affermava chiaramente qual’era l’obiettivo vero della sua
rabbia: i ricercatori immessi nei consigli di facoltà avrebbero sicuramente
messo a rischio delicati equilibri e - se mi è consentita un’interpretazione
costituito un ostacolo al modo in cui i docenti dei ranghi più elevati hanno
fin’adesso governato la vita universitaria, con la relativa distribuzione di
posti. Questione quest’ultima assai rilevante, dal momento che - come si è
visto - chi giunge all’apice della carriera universitaria, diventerà al
contempo membro della classe dirigente.
Il riconoscimento della funzione docente ai ricercatori deve
essere inserito nell’ottica della riforma dell’università partita con la
legge sull’autonomia, su cui avremo modo di soffermarci, e sulla conseguente
trasformazione dell’insegnamento universitario contenuta nel Regolamento dell’autonomia
didattica negli atenei. Trasformazione praticabile se sarà disponibile un
numero maggiore di insegnanti, giacché essa si fonda sull’istituzione di
diplomi universitari di vario livello, i quali dovrebbero avere inoltre la
caratteristica di essere professionalizzanti.
Possiamo dire che grosso modo esistono due schieramenti, nei
quali si trovano fianco a fianco uomini di destra e di sinistra (ammesso che nel
panorama politico odierno queste parole abbiano ancora un significato). Il primo
schieramento, capeggiato per la sua notorietà da Angelo Panebianco, ma in cui
troviamo anche Giorgio Manacorda (Corriere della sera 7-1-2000), osteggia
la riforma universitaria sia per il metodo (l’utilizzazione del collegato alla
Finanziaria per leggi importanti come lo stato giuridico dei docenti), sia per
il merito. In particolare, si sottolinea giustamente che i nuovi provvedimenti
non prendono in considerazione l’attività di ricerca e il suo fondamentale
rapporto con la didattica; rapporto che fa ovviamente dell’insegnamento
universitario qualcosa di totalmente diverso da quello scolastico. Si ribadisce
anche che si finirà col trasformare l’università in una scuola secondaria
professionalizzante, anche se poi non si aggiunge che gran parte delle
professioni previste dal nuovo ordinamento esistono solo sulla carta.
D’altra parte anche la Confindustria non ha sempre plaudito
le riforme, ora che ci è accorti che anche le multinazionali hanno bisogno di
laureati con formazione umanistica, che sono sempre stati la nostra specialità.
Anche se queste critiche hanno un fondamento, non dobbiamo
dimenticare che esse sono espressione soprattutto delle preoccupazioni dei
professori universitari, i quali temono di perdere gran parte dei loro
privilegi. Ad esempio, si legge nell’organo del CIPUR (un‘associazione di
docenti universitari) che, proprio la peculiarità delle funzioni di questi
ultimi (tra la quali si annovera la formazione della classe dirigente) rende
inaccettabile la contrattualizzazione, sia pure parziale, del trattamento
economico, un altro dei punti cardine dei progetti di riforma.
Certo, in un’università che dovrà sussistere in grande
misura grazie ad investitori privati che faranno pesare i loro pareri, in cui la
ricerca di base sarà relegata in un ghetto, in cui bisognerà insegnare a tutti
i costi agli studenti a saper fare qualcosa, in modo da poterli inserire in
qualche modo del mondo del lavoro, il docente perderà la sua specificità, la
sua autorevolezza e non potrà più pontificare dall’alto delle testate di
prestigio. Non avrà più le carte in regola neppure per fare il consulente dei
politici. Non a caso Manacorda, che si dichiara di sinistra, lamenta il pericolo
di veder trasformato il docente universitario in maestro delle elementari e
considera di destra i progetti di riforma dell’università.
Aggiungo a margine che è stato osservato come, nella maggior
parte dei casi, le sovvenzioni private sono pura fantasia; esse sono
immaginabili per ricerche che siano di immediata utilità (le quali sono a loro
volta assai rare) e non certamente per le spese fisse. Inoltre, dal momento che
il budget versato dal MURST non contempla le spese per gli avanzamenti di
carriera del personale, se questo denaro non sarà ricavato dalle sovvenzioni
private o dalle tasse degli studenti, è evidente che le università - come
scrive Cesare Segre (Corriere della sera, 27-1-1999) - sono destinate ad
un lento declino, non potendo assumere nuovi lavoratori al posto di chi va in
pensione. Oppure - come prevede il Rettore della Sapienza di Roma - a chiedere
dei prestiti per inserire nell’organico quanti sono risultati idonei negli
ultimi concorsi.
L’altro schieramento, tra i cui esponenti possiamo inserire
Guido Martinotti, che ha coordinato un gruppo di lavoro sull’innovazione dell’insegnamento
universitario, parte da un’analisi assai superficiale dell’attuale
situazione dell’università, considerata antiquata, e dei suoi mali. E sulla
base di questa analisi sostiene la necessità di un cambiamento i cui punti
centrali: 1) la cosiddetta autonomia, violata in varie occasioni, che significa
sostanzialmente l’ingresso di denaro di privati nell’università; 2) la
riforma dei contenuti didattici e dei sistemi di valutazione degli studenti; 3)
l’istituzione di sistemi di valutazione a vario livello dell’attività del
docente universitario; 4) la riforma dello stato giuridico del personale
docente.
L’analisi dei fautori della modernità si basa
sostanzialmente sul dato di fatto rappresentato dallo scarso numero dei laureati
in Italia, e dalla loro lunga permanenza nelle strutture universitarie.
Se si vuole cambiare il dato di fatto, bisogna interrogarsi
sulle sue cause. Cosa che i fautori della modernità non possono fare a fondo
altrimenti verrebbero alla luce fatti come: la totale crisi della scuola
italiana che produce (ahimé) studenti semianalfabeti, la dilagante
disoccupazione e sottoccupazione, le quali inducono gli studenti a iscriversi
senza una reale motivazione all’università, l’estrema difficoltà in cui si
trova il docente universitario che deve trasformare uno studente semianalfabeta
in un individuo dotato di una cultura medio-bassa. A ciò dobbiamo aggiungere il
basso livello di molti docenti universitari, che sono stati arruolati con un
sistema clientelare e lobbistico, sul quale esiste un’ampia letteratura.
Naturalmente non è mia intenzione scaricare le colpe della
cattiva preparazione degli studenti sugli insegnanti della scuola; sarebbe
ingiusto e semplicistico. La causa di questa grave carenza si trova nei
contenuti dell’ideologia pervasiva, di cui si nutre la nostra stessa società.
Sarebbe necessario analizzare questo punto in profondità, ma non mi è
possibile in questa sede. Mi limito perciò a sottolineare che i nostri giovani
hanno spesso personalità narcisistiche, e sono pertanto incapaci sia di
affrontare gli inevitabili smacchi sia di sottomettersi ad un impegno serio e
duraturo, fondato sulla autodisciplina. Tutto ciò si può dire con una semplice
battuta: è stata tolta ai nostri figli quella piccola dose di super-io, che li
avrebbe dotati di ambizioni e di progettualità.
Per concludere la riflessione su questo tema mi pare si possa
dire che, se l’analisi dei fautori della modernità è effettivamente
superficiale, non produttivi saranno certamente i rimedi da loro proposti.
Perciò è assai probabile che il risultato sarà - come gridano i “reazionari”
l’abbassamento di qualità delle nostre università e la loro trasformazione
in licei più o meno professionalizzanti, ammesso che esistano effettivamente le
professioni per le quali dovremo preparare gli studenti.
Bisogna aggiungere che l’università tradizionale ha
funzionato sempre in un altro modo, non certo difendibile. In generale gli
studenti veramente seguiti dai docenti sono sempre stati solo quelli che hanno
una preparazione seria, derivante in molti casi dalla tradizione familiare o
dalla collocazione sociale. Gli altri studenti sono stati assai spesso lasciati
a se stessi e, se giungono a laurearsi, è semplicemente perché ormai i docenti
non se la sentono di mostrarsi troppo esigenti, o perché sarebbe troppo
faticoso impedir loro di avanzare negli studi.
[1] Ricordo che recentemente il Prof.
Cassese è stato nominato presidente del Banco di Sicilia. L’articolo di
Simone è intitolato “Professore e presidente. Un problema italiano e qualche
proposta di soluzione”, e sta ne Il Mulino (luglio-agosto 1998).