Riflessioni intorno a “Crisi del capitale” per rilanciare i movimenti di lotta
DAVIDE D’ACUNTO
|
Stampa |
In questo libro il professor Vasapollo ci offre un’ottima analisi dell’attuale fase del Modo di Produzione Capitalistico (MPC), caratterizzata dal passaggio dal c.d. Welfare State al c.d. Profit State nel ambito della c.d. globalizzazione selvaggia.
Partendo dal concetto di crisi, bisogna affermare che il non equilibrio è un elemento essenziale del funzionamento dell’economia capitalistica. Il non equilibrio acquisisce le sue maggiori dimensioni quando si presenta sotto forma di crisi economica.
Le grandi crisi capitaliste si producono quando le condizioni dell’accumulazione stabile e sostenuta vengono meno, ed il superamento della crisi esige l’avviamento di nuove condizioni di accumulazione, articolate tra loro in un modello che rivitalizzi il sistema. Quindi le crisi segnano la fine di una fase nell’accumulazione capitalistica, ed il superamento della crisi l’inizio di un’altra, nuova fase storica. Le crisi strutturali si superano solo quando i blocchi strutturali che le hanno prodotte si sostituiscono con nuove forme di organizzazione sociale ed economica.
La regina delle crisi capitalistiche è senz’altro quella di sovrapproduzione di merci:vi è sovrapproduzione quando l’abbondanza (relativa) delle merci è tale da non renderle più profittevoli, in quanto una loro eventuale vendita sul mercato non consentirebbe la realizzazione di profitto.
A partire dal 1980 si produce un cambiamento fondamentale. Una nuova coscienza si va impadronendo dei leader del mondo capitalista che interpretano le dimensioni strutturali della crisi. In quegli anni si assiste all’inizio della controffensiva del capitale sotto il nome dell’ideologia neoliberista. I keynesiani sono espulsi dal governo in USA, Ronald Reagan succede a Jimmy Carter e Margaret Thatcher ai laburisti britannici.
Il neoliberismo viene presentato come la strategia più adeguata per risolvere la crisi, e sotto la sua spinta vennero applicate importanti misure:
• per debilitare il potere dei lavoratori e sindacati,si provocò una recessione internazionale, con aumenti della disoccupazione e della precarizzazione. Tale misura fu poi completata con l’attivazione di nuove tecnologie di automatizzazione dei processi di produzione, riducendo massicciamente la necessità di lavoro.
• Attraverso politiche di deregolamentazione e competitività, di aggiustamento e privatizzazione, si cercò di slegare lo Stato da qualunque parvenza di partecipazione sociale effettiva, per metterlo al servizio del recupero del rendimento imprenditoriale. (Anche perché secondo i promotori dell’economia dell’offerta ”Reaganomics” la causa della crisi si trova nello Stato, per la sua eccessiva spesa).
• Si cercò di riprendere il controllo dell’orientamento delle politiche dei paesi del Terzo Mondo; i governi conservatori si proposero di gettare le nuove basi delle relazioni tra i paesi ricchi e poveri.
Si assiste quindi al completo smantellamento del c.d. Welfare State.
Tale Stato Sociale impostato nel dopoguerra nei paesi occidentali si basava su uno sviluppo dell’economia che garantiva occupazione e posti di lavoro, dove lo sviluppo progrediva regolarmente, in modo che il mercato potesse essere in grado di risolvere il problema dell’occupazione, mentre lo Stato interveniva in modo residuale per coprire le temporanee interruzioni o condizioni marginali della forza-lavoro e per assicurare le condizioni di pace sociale attraverso forme di solidarietà nei momenti in cui veniva meno il rapporto con il mercato.
Tale modello era incardinato su un’organizzazione sociale basata sul lavoro fordista e aveva alle spalle una determinante forza contrattuale espressa in termini di alta e vincente conflittualità da parte del movimento operaio. Inoltre esso era possibile anche per una visione lungimirante, in chiave anti-operaista, dei governi conservatori e moderati, i quali ritenevano che, non esistendo alcuna spontaneità del sistema verso il pieno impiego, allora l’onere di mantenere la stabilità della domanda e della piena occupazione dovesse essere imputato allo Stato cui era demandata una funzione di supplenza rispetto agli imprenditori privati. Il Welfare garantiva un rapporto tra economia, politica e società come progetto di governo politico della crisi.
Però al crescere del debito era inevitabile che emergesse il problema della solvibilità delle casse dello Stato e quindi dei limiti da porre all’espansione della spesa pubblica.
I governi dei paesi occidentali hanno pertanto dovuto cominciare a confrontarsi con la questione del blocco della spesa pubblica, ma non appena questo blocco è stato operato, a partire dagli anni ’80, la disoccupazione ha cominciato a crescere ovunque vertiginosamente. L’improduttività supposta dello Stato ha generato una vera e propria ridefinizione politica, economica e sociale di stampo restauratore, contro quella che, a causa del capovolgimento, viene presentata come una vera dissipazione delle risorse.
I costi del Welfare non erano più compatibili in un sistema di alta competitività internazionale dove non c’è spazio di mediazione con i bisogni collettivi irrinunciabili; non è più compatibile con i modi dell’accumulazione capitalista uno Stato che possa garantire una rete di protezione sociale minima per tutti o uno stabile rapporto di lavoro.
Si realizza quindi il progetto neoliberista fondato sull’abbattimento dello Stato sociale e sugli intensi processi di privatizzazione.
Si afferma il c.d. Profit State il quale opera con scelte di politica economica che rientrano in un più generale progetto basato su una completa ricomposizione dei conflitti e delle tensioni sociali attraverso una ristrutturazione delle relazioni economiche ed industriali basate sulle logiche del capitalismo selvaggio. Tutto ciò si realizza (come giustamente sostiene il prof. Vasapollo) attraverso modalità di consenso che si diffondono tramite le politiche di un nuovo consociativismo che attraversa e coinvolge il sistema dei partiti, i sindacati confederali, le associazioni imprenditoriali, le istituzioni bancarie-finanziarie e il connesso sistema della comunicazione di massa.
Ogni forma di garanzia dell’epoca fordista viene completamente eliminata dalla trasformazione produttiva del nuovo modello capitalistico post-fordista dell’accumulazione flessibile. La nuova modalità dell’accumulazione flessibile sostiene, infatti, una tendenza alla divisione,alla frammentazione,alla precarizzazione del mondo del lavoro. Si organizza il mercato del lavoro in modo che la divisione, l’intermittenza, la flessibilità siano gli elementi caratterizzanti. Primo elemento di divisione è la costituzione della disoccupazione come fenomeno di massa permanente e strutturale che si accompagna alla ridefinizione privatistica di tutto il vivere sociale. L’accumulazione flessibile, quindi, tende sempre più a manifestarsi anche come fine progressiva e reale riduzione dei vantaggi assicurati dal Welfare, ma soprattutto come progressivo impoverimento dei ceti tradizionalmente protetti, a partire dall’intera area del pubblico impiego.
Con il neoliberismo si attua l’inizio di una nuova fase nella storia del capitalismo: una fase della mondializzazione capitalista che nasce dalla fine della società nazionale del consumo di massa, che aveva concesso troppo potere alle classi operaie nazionali a discapito dei capitalisti, indebolendo il tasso di profitto e generando così le condizioni per la grande crisi degli anni ’70. L’alternativa proposta consiste nel creare una società di consumo di massa internazionale, per realizzare la quale bisogna frammentare, internazionalmente, la classe operaia che si era unita nel contesto nazionale. Quindi la globalizzazione può essere definita come un processo su scala mondiale di redistribuzione del potere tra le classi sociali e tra territori.
Nell’attuale fase si assiste ad una mondializzazione dei mercati. Il mercato, divenuto sempre più dinamico e competitivo, sembra così presentare una chiara e irreversibile tendenza a divenire un mercato unico: un mercato globale. Inoltre con la finanziarizzazione dell’economia, esplosa già al tempo delle crisi energetiche degli anni ’70, il capitalismo internazionale si è posto in un contesto di mutazione sempre più degenerativa. Infatti, si va affermando in maniera sempre più spiccata una divaricazione crescente tra andamento dell’economia reale, con i connessi processi politici economici e sociali da una parte, e le scelte di finanziarizzazione dell’economia dall’altra. In quest’ultimo caso si tratta di modelli decisori liberisti che puntano su investimenti finanziari scollegati dall’evoluzione dei processi produttivi reali, che seguono esclusivamente una logica speculativa di massimizzazione del profitto.
La logica imperante, ormai, è quella di un capitalismo selvaggio, senza legge, che insegue la mera realizzazione del profitto senza scrupoli, creando così seri scompensi sociali in termini di aumento della disoccupazione e di abbassamento della qualità della vita in genere. Il processo di riconversione, di ristrutturazione, di innovazione tecnologica è esclusivamente basato sul calo dell’occupazione, sulla compressione dei redditi da lavoro dipendente; infatti, le migliori politiche imprenditoriali sono quelle basate su maggiori profitti derivanti da più alti tagli occupazionali e sulla flessibilizzazione del lavoro e del salario.
Un ruolo molto importante svolto nella attuale fase del MPC è quello ricoperto dalla c.d. comunicazione deviante.
Già verso la fine degli anni ’70 la comunicazione assume sempre più le caratterizzazione di risorsa strategica deviante; deviante perché si fa strumento esclusivamente o quasi dell’interesse capitalistico generale, in un modello (come viene definito dal professore) di vero e proprio totalitarismo neoliberista incentrato sul capitale informazione. Si assiste ad una vera e propria evoluzione del concetto di comunicazione, non intesa più come semplice processo di trasmissione di informazioni a prevalente carattere commerciale, ma come capacità organizzativa di acquisire consenso nel sociale.
La comunicazione deviante diventa così: “una componente fondamentale e qualificante di un nuovo modo di intendere l’accumulazione attraverso il capitale intangibile dell’astrazione; un modo omologante all’immagine e alla cultura del mercato e del profitto in forma totalitaria, perché presente in veste di pensiero unico della logica aziendalista, al di là degli schieramenti partitici di destra o sinistra, del tutto asservito e portatore degli interessi economici di un capitalismo sempre più selvaggio; un capitalismo che impone le forme dello sviluppo socioculturale, omologa gli intellettuali tutti ed estingue la funzione della politica”.
Tale modello comunicativo va ad imporsi in maniera unilaterale all’interno dei luoghi della formazione, quali la scuola e l’università, dove viene impartito un sapere omologato alle logiche del mercato che non metterebbe mai in discussione l’ordine delle cose esistenti, confermando in questo modo la tesi secondo cui: la scuola(l’università) sia funzionale alla perpetuazione del dominio di una parte della società sull’altra, nel senso che ne riproduce i ruoli e i valori culturali necessari al funzionamento del sistema sociale.
Infatti lo stesso processo di riforma dell’università si pone come mezzo per la totale subordinazione della conoscenza agli interessi privati, che intendono la ricerca e il sapere quali strumenti privilegiati per ottenere consensi e profitti. Un chiaro esempio che va in questa direzione è rappresentato dal c.d. Progetto Axia tramite il quale la Nestlè con il bene placido della CRUI si è aggiudicata una bella fetta della ricerca e della formazione italiana attraverso un investimento complessivo di circa 1 milione di euro e che vedrà coinvolte università prestigiose quali la Sapienza e RomaTre, la Statale di Milano, la Federico II di Napoli, l’Università di Firenze, Cagliari, Pavia, Ferrara, Catania, Palermo. Tutte università alla ricerca disperata di quei fondi che i governi nel corso degli ultimi 20 anni hanno inesorabilmente e spietatamente prosciugato.
Conclusioni
Il quadro che esce da questa rapida analisi circa il MPC è alquanto allarmante. Ci troviamo di fronte ad una situazione disastrosa sotto tutti i punti di vista, alla luce della quale si pone l’esigenza di incominciare un cammino di ricomposizione sociale in chiave anti-capitalista tra tutti coloro che non hanno contribuito a pagare questa crisi(ma che in realtà la pagano).
Si rende quanto mai urgente un cambiamento perché con il permanere delle strutture capitaliste non si possono dare risposte serie a problemi quali: disoccupazione, precarietà, impatto ambientale e altro; poichè questi sono il risultato dello sviluppo di un sistema che poggia le sue basi sulla contraddizione capitale-lavoro.
La stessa economia ufficiale/borghese rispetto al problema della disoccupazione non è in grado di dare risposte concrete,infatti la legge di OKUN afferma: è necessario un incremento minimo del 4% della produttività al fine di non far aumentare la disoccupazione, ed uno nettamente superiore per farla diminuire. Ciò significa che nemmeno livelli sostenuti di produttività sono in grado di dare risposte serie al problema occupazionale, in quanto questo è il frutto di un sistema che vede alla sua base un meccanismo di produzione per cui il lavoro di molti si traduce nella ricchezza di pochi.
Marx tempo fa affermava che il modo stesso in cui viene prodotta la ricchezza sociale ne determina poi la distribuzione tra le varie classi sociali. Sicché vi è una tendenza nel MPC affinché gli estremi della ricchezza divergano sempre più da quelli della povertà (teoria dell’impoverimento crescente della classe operaia). Sono passati più di 150 anni e le affermazioni di Marx sono tutt’ora valide e suffragate dai dati statistici; quindi o si avvia tale processo di ricomposizione sociale che riesca a scardinare le logiche dell’individualismo e del profitto e che abbia come obiettivo ultimo l’abbattimento delle strutture capitalistiche o saremo costretti ad assistere passivamente al nostro declino, appiattendoci su un illogico riformismo che può offrire solo palliativi e non soluzioni agli attuali problemi sociali.
Consapevoli che in Europa al momento non vi è una vera soggettività di classe capace di esprimere direzione e organizzazione del mondo del lavoro in grado di portare avanti una lotta di trasformazione radicale del modo di produzione capitalista, come appare oggi forse solo nei paesi dell’America Latina,ci si trova davanti alla necessità di lavorare sui territori, attraverso una progettualità politica che partendo dalla dimensione locale non perda di vista le caratteristiche globali del sistema con cui ci si rapporta, e che sia in grado di offrire opportunità concrete ai lavoratori tramite la sperimentazione di nuovi meccanismi di produzione (esempio:cooperative argentine, ma non solo) che si pongano in una logica antagonista rispetto a tale sistema sociale.
Agire locale, pensare globale!
* Rete Studenti Salerno