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FRANCESCO PICCIONI
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Le lenti del «Moro» sulla crisi di sistema

FRANCESCO PICCIONI

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A ogni crisi economica ci si ricorda improvvisamente di Karl Marx. È accaduto anche stavolta. Perché accade? Semplice - spiega Luciano Vasapollo, docente di economia alla Sapienza di Roma: «l’economia mainstream, compresa l’impostazione keynesiana, assume la crisi come evento anomalo o eccezionale», poiché la scuola teorica dominante da un secolo «suppone un modello macroconomico di equilibrio, e quindi un sistema regolare e prevedibile, sia nei comportamenti degli operatori economici sia negli assetti sistemici». Insomma: nel capitalismo immaginario degli economisti trendy la crisi non dovrebbe verificarsi. E dopo ogni crisi si dicono certi che, «corretti gli eccessi», non ce ne saranno altre. All’arrivo del successivo crack - come al solito mai previsto - si guardano intorno stupiti e a qualcuno torna in mente una visione teorica radicalmente alternativa che vede la crisi come una conseguenza necessaria, non occasionale, dell’accumulazione capitalistica. Vasapollo è un docente dichiaratamente marxista e quindi il suo ultimo lavoro - La crisi del capitale, Jaca Book, 384 pagine - non «scopre» il materiale teorico consegnatoci dall’uomo di Treviri, ma lo mette al lavoro sulla crisi attuale. Un lavoro che dà certamente soddisfazione culturale, vista l’efficienza con cui i concetti marxiani padroneggiano l’immenso materiale informativo prodotto ogni giorno dall’andamento dei mercati. Ma non si limita certo a «l’avevamo detto», prendendo di petto gli snodi fondamentali di questa crisi. Intanto perché la qualifica come «crisi di sistema», non congiunturale. Significa che da questa crisi - qualunque ne sia l’esito - si uscirà davvero solo con un «altro sistema» (altri assetti, paesi dominanti, produzioni-guida, ecc). E poi perché presenta almeno due momenti alti di questo lavorìo critico. In primo luogo, dimostra che l’attuale è una classica «crisi di sovraproduzione» (ovvero c’è troppo capitale in cerca di valorizzazione; quindi troppi asset, fabbriche, merci, uomini, «forze produttive», senza impossibili separazioni tra un «capitalismo industriale buono» e un «capitalismo finanziario cattivo»). Del resto, che altro dice Sergio Marchionne quando spiega che, nel settore automobilistico, «c’è una capacità produttiva globale di 100 milioni di unità l’anno, ma il mercato ne può assorbire solo 65»? Una crisi globale che Vasapollo fa giustamente risalire agli anni ‘70 quando, a fronte dello stesso problema (eccesso di capacità produttiva), venne dato il via libera alla «finanziarizzazione dell’economia». Una scelta che ha permesso di spazzar via l’arrugginito «socialismo reale» e imporre la globalizzazione neoliberista, espandendo i consumi e gli investimenti grazie al credito facile e alla trasformazione del debito in una «risorsa» vendibile. Ma che oggi ha presentato il conto. In secondo luogo, c’è una più soddisfacente considerazione teorica dell’«economia della conoscenza». Non certo per negare che questa abbia contribuito massimamente alle trasformazioni economiche degli ultimi 30 anni (dalla rivoluzione informatica in poi), quanto per smentire che abbia «rovesciato» i meccanismi dell’accumulazione, fino a svuotare di senso un fondamento della teoria marxiana e del movimento operaio: la teoria del valore (ogni produzione di ricchezza avviene solo grazie all’impiego di «lavoro umano astratto», in qualsiasi forma esercitato, dentro una relazione tra un «datore» e un «venditore» di lavoro). Questa crisi, come sempre, sforbicia via anche la «sovraproduzione» di teorie avventate, denudandole per quel che sono: narrazioni. Fiction, insomma.

Francesco Piccioni da “Il Manifesto” 20 Settembre 2009