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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO

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PAULO NAKATANI E REMY HERRERA
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Crisi finanziaria o... di sovrapproduzione?

PAULO NAKATANI E REMY HERRERA

Per una critica delle politiche anticrisi

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L’errore principale delle interpretazioni più comuni della crisi attuale del capitalismo è che essa non sarebbe che una crisi finanziaria, che avrebbe contaminato la sfera reale dell’economia. Invece, si tratta di in una crisi del capitale manifestatasi in seno alla sfera finanziaria, a causa della finanziarizzazione enorme del sistema capitalistico - ne abbiamo dato alcuni elementi di analisi in un recente articolo (La pensée, cfr n. 353, pp. 109-113, gennaio-febbraio-marzo 2008). In tutta la storia del capitalismo, e soprattutto dopo la Grande Depressione degli anni ’30, le conoscenze acquisite dalle scienze sociali in generale, ed economiche in particolare, hanno permesso al capitale di servirsi di istituzioni e di strumenti di intervento pubblico, connessi principalmente alle politiche delle banche centrali, assicurando una certa gestione statica delle crisi e ammortizzando gli effetti più distruttivi al centro del sistema globale, di cui fa parte la crisi attuale. Ma che ne è per l’appunto delle politiche anti-crisi attuate oggi?

1. Una crisi di sovrapproduzione Fin da Marx sappiamo che le crisi sono parte integrante della dinamica contraddittoria della riproduzione elargita dal capitale. Durante questi periodi, i capitali corrispondenti alle attività economicamente più fragili o tecnologicamente obsoleti sono svalutati. Una parte di loro scompaiono, un’altra parte è concentrata e centralizzata dalle frazioni più potenti e avanzate del capitale, intesa come un rapporto sociale. Anche la risoluzione delle crisi capitalistiche viene a ricreare le condizioni di accumulo di una nuova fase di sviluppo delle forze produttive, che operano su delle basi di estorsione di plusvalore e all’interno di relazioni di produzione modernizzate. Questa è una delle lezioni più importanti di Marx. Il sistema capitalista, in continua evoluzione, non è ovviamente mai fermo né tantomeno potrà mai esserlo, contrariamente a sottigliezze teoriche dell’ideologia dominante definita neo-classica, a cui aderiscono ad oggi la stragrande maggioranza degli economisti - tra cui “i critici” autoproclamatisi del neo-liberalismo che sarebbero Joseph Stiglitz e Paul Krugman. L’ispirazione cosiddetta “keynesiana” di questi non riuscirebbe ad oscurare il fatto che, nell’elemento della teoria, la crisi del capitale non esiste per la tradizione neo-classica, di cui Krugman e Stiglitz sono tra i leader “di sinistra” più prolifici e creativi. È in questo contesto che dobbiamo prendere sul serio la nostra affermazione di attualità del marxismo (o dei marxismi) per cercare di capire le trasformazioni attuali del capitalismo e per chiarire le transizioni post-capitaliste che cominciano. In opposizione alle tendenze dominanti - keynesiana dal 1945 al 1975, neo-classica dalla fine degli anni ’70 e forse keynesiana-neoclassica nei prossimi anni - riappaiono dall’altra parte dello spettro politico delle analisi sistemiche e delle alternative post-capitaliste formulate a partire dall’ opera di Marx. Poichè le interpretazioni più profonde della crisi attuale sono arrivate secondo noi da autori marxisti, da Nord - e forse soprattutto - da Sud. Molti di loro avevano annunciato già da diversi anni, con rigore e lucidità, l’inevitabilità di una svalutazione del capitale, brutale ed estesa, che accompagna lo scoppio di una nuova crisi capitalista. I loro argomenti non erano quelli di un umore catastrofistico, di un’illuminazione visionaria o di un incantesimo della “grande notte”, ma erano basati su una comprensione dei limiti e delle contraddizioni fondamentali della dinamica di accumulazione del capitale presentata da Marx. In sostanza, la ragione profonda della crisi che si sta sviluppando nel mondo può essere spiegata da una sovrapproduzione di capitale derivante dalla anarchia stessa della produzione che porta ad una pressione per abbassare i tassi di profitto quando le controtendenze sono esaurite. Questa sovraccumulazione si manifesta attraverso un eccesso di produzione commercializzabile, non a causa di una mancanza di persone nel bisogno o che abbiano il desiderio di consumare, ma piuttosto perché la tendenza alla concentrazione della ricchezza tende ad escludere una parte ancora maggiore di persone dalla possibilità di acquistare beni. Invece di trattare con una sovrapproduzione di merci, la crescita del sistema creditizio permette al capitale di accumularsi sotto forma di capitale monetario, il quale può presentarsi sia come capitale fruttifero, o - in maniera ancora più “ irreale “ - come “capitale fittizio”. Ciò costituisce, a nostro avviso un concetto chiave per l’analisi della crisi attuale e dell’evoluzione del sistema creditizio che l’ha preceduto. Il suo principio generale, in questo caso la capitalizzazione dei redditi derivanti da un survalore a venire, così come alcune delle forme in cui lo troviamo (capitale della banca, quote di stock, il debito pubblico...) è stato raccolto a suo tempo da Marx. Egli ha abbozzato lo studio in collaborazione con quelli del capitale portatore di interessi e dello sviluppo del credito nella società capitalistica, nella sezione 5 del Libro III del Capitale, in particolare a partire dal capitolo XXV (intitolato “Fiktives Kredit und Kapital” [Credito e capitale fittizio]) - e in particolare nel capitolo XXIX (“Bankkapitals Bestandteile” [Componenti del capitale bancario]), e ancora nei capitoli XXX (“Wirkliche Geldkapital und Kapital - I” [Capitale monetario e capitale reale]) e XXXIII (“Das unter dem Umlaufsmittel Kreditsystem” [I mezzi di circolazione nel sistema del credito]). Altri elementi importanti si trovano altrove, dai Libri I e II agli allegati sulle “Teorie del plusvalore”, come anche in Engels. Il luogo di costituzione per eccellenza di questo “capitale fittizio” si trova all’interno del sistema creditizio, collegando l’impresa capitalista allo Stato capitalista: le banche, le borse, ma ora anche i fondi pensione (che gestiscono la previdenza per capitalizzazione), i fondi di investimento speculativi (hedge funds) e altre entità di natura analoga. Alcuni dei suoi strumenti fondamentali seguono anche il processo di “cartolarizzazione” dei crediti e gli scambi di strumenti finanziari chiamati prodotti derivati. Si tratta di contratti in cui si stabiliscono i flussi finanziari futuri in base alle variazioni del prezzo di un attivo sottostante, che può corrispondere a tassi di interesse, tassi di cambio, prezzi azionari o di altri (delle materie prime o anche prossimi eventi). Questi strumenti di copertura sono spesso utilizzati per la strategia speculativa, giocando sull’“effetto moltiplicatore”, prendendo rischi derivanti dalla collocazione di una versione limitata, soprattutto quando sono combinati, e che danno luogo alle vendite che sono dette “brevi” (short sell senza corrispettivo). Le operazioni speculative più rischiose possono portare, in teoria, delle perdite infinite (sulle scelte o “put”, per esempio). Gli importi messi in gioco da queste operazioni, portando alla creazione di capitale fittizio, superano ormai ampiamente quello destinato alla sola riproduzione del capitale direttamente produttivo. Ad esempio, nel 2007, il valore complessivo delle esportazioni di tutti i paesi del mondo su 12 mesi era pari a tre giorni di scambio di contratti derivati “over-the-counter” (OTC, cioè negoziati volontariamente, senza alcun intermediario): 13.720 miliardi di dollari all’anno per i primi contro 4.200 miliardi di euro al giorno per i secondi. A dispetto della sua natura (per lo più) parassita, questo capitale beneficia di una redistribuzione del plusvalore e va ad alimentare l’accrescimento del capitale fittizio addizionale come mezzo della sua stessa retribuzione.

2. L’aggravamento della crisi La crisi attuale ha messo in luce le contraddizioni del sistema che hanno caratterizzato il lungo periodo d’espansione dopo la seconda guerra mondiale, che aveva portato alla fine degli accordi di Bretton Woods e allo sviluppo di nuovi mercati finanziari. Nel settore produttivo, le forme di estrazione di plusvalore e l’organizzazione della produzione basata su taylorismo e fordismo toccavano i propri limiti ed erano sostituiti da metodi nuovi (Toyotismo, Kanban...). Durante la Guerra Fredda, lo sviluppo delle forze produttive era stato guidato in parte dalla spesa pubblica causata dalla rivalità tra i complessi militare-industriale statunitense e quello sovietico, che fini per trasformarsi in una corsa agli armamenti. Questi sviluppi hanno svolto un ruolo chiave nel consolidamento dei sistemi informatici, con l’invenzione di mini computer e di Internet, ma anche macchine robotizzate controllate da computer, che hanno scosso le basi tecnologiche e sociali della produzione - una sostituzione del lavoro con il capitale - dando nuovo impulso alla accumulazione capitalista. Dopo un lungo periodo di sovraccumulazione di capitale, che è sempre più concentrato nel settore finanziario, sotto forma di capitale monetario, l’eccesso di offerta ha accentuato la pressione al ribasso del tasso di profitto. Nel tentativo di risolvere la crisi negli Stati Uniti, la Fed (Riserva federale) ha aumentato bruscamente e unilateralmente i tassi di interesse nel 1979, stabilendo le condizioni per una crisi del debito. Quest’ultimo, che scoppiò nei primi anni 1980, non era sufficiente per svalutare tutto il capitale fittizio in eccesso accumulato, e innescò le esplosioni successive delle “bolle finanziarie”, nel 1987 negli Stati Uniti, nel 1994 in Messico, nel 1997 nell’emergente Asia, nel 1998 in Russia e in Brasile, e di nuovo negli Stati Uniti nel 2000 con lo scoppio della bolla della “new economy”, o con il crollo dell’Argentina neo-liberale nel 2000-01. Erano insufficienti anche le svalutazioni conseguenza di frode contabile dei molteplici scandali che coinvolgono società transnazionali (come Enron, per esempio). L’attuale crisi è nata nel contesto di un cambiamento nella politica monetaria degli Stati Uniti a causa dell’aggravarsi dei deficit enormi interni ed esterni, il primo in ragione del bisogno di finanziamento principalmente associato con le guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq, il secondo dovuto in parte a causa della delocalizzazione delle imprese, dal Messico alla Cina. Come risultato del rallentamento della crescita economica nel 2000-01, la Fed ha ridotto il suo tasso d’interesse base (prime rate) dal 6,5% nel dicembre 2000 al 1,75% nel dicembre 2001 e all’1% nel giugno 2003, mantenendo questo livello molto basso fino a maggio 2004. Espresso in termini reali (tenendo conto dell’inflazione), il tasso di interesse è diventato così negativo. È durante questo periodo di tassi negativi, che i meccanismi della crisi dei subprime è iniziata nell’ambito del settore immobiliare, dove l’assunzione dei rischi aumentava sempre più . Successivamente, in collaborazione con lo sforzo di guerre imperialiste, la Fed ha lanciato a partire da metà 2004 un movimento ascendente del prime rate. Quest’ultimo è stato così bruscamente portato al 5,25% nel giugno 2006. A partire dalla fine del 2006, i debitori più fragili cominciarono a interrompere in massa il flusso di fatture dai loro prestiti ipotecari. L’aumento del numero delle insolvenze è stato accelerato dalla contrazione della crescita economica - aggravato dai tassi di interesse più elevati - e le continue pressioni per abbassare i salari reali. Il tasso di interesse fisso è rimasto al di sopra del 5% fino al giugno del 2007, nonostante i segnali di crescenti prove di esacerbazione della crisi. Nell’agosto 2007, dopo il passaggio di una spirale di declino degli indici azionari principali, le banche centrali del Nord si accordarono per centinaia di miliardi di dollari in crediti al sistema bancario. Tuttavia, i mercati finanziari sono rimasti estremamente volatili nella seconda metà dell’anno, gettando ad ogni annuncio le perdite da parte di grandi banche americane, da Citigroup a Morgan Stanley. In un articolo intitolato “Roulette russa finanziaria”, pubblicato il 15 settembre 2008 sul New York Times, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman ha scritto nel 2008 (girando le parole dell’ex segretario alla Difesa di George W. Bush, Donald Rumsfeld per giustificare l’invasione dell’Iraq da parte della cosiddetta “scoperta” delle armi di distruzione di massa): «E quando le incognite sconosciute si sono trasformate in incognite note, il sistema è stato in preda al panico bancario postmoderno. Queste non assomigliano ai loro stessi precedenti: salvo poche eccezioni, non si tratta più di una folla di risparmiatori in pericolo che bussano alle porte di una banca privata. Esse hanno invece portato ad una frenesia di telefonate e di click del mouse, nel momento in cui gli operatori finanziari tiravano fondi nelle loro linee di credito e cercavano di premunirsi contro i rischi. Tuttavia, gli effetti economici - una perdita del credito, una spirale al ribasso del valore degli attivi - sono gli stessi di quelli del grande panico bancario degli anni ’30». Il 21 gennaio 2008 è stato uno di quei giorni di panico per la finanza globale. La Fed ha ridotto i tassi di interesse immediatamente dal 4,25% al 3,5% e del 3,0% poco dopo, e così via, fino a quando l’ha fissato appena sopra lo zero (0,25 %), dal dicembre 2008. L’attuazione delle prime misure anti-crisi da parte dell’amministrazione di GW Bush, nel primo semestre del 2008 non ha risolto le contraddizioni che minano il sistema. I mercati continuano a scendere. Nel luglio 2008, le difficoltà della banca IndyMac California, uno dei più grandi istituti di credito ipotecario negli Stati Uniti, richiedevano l’intervento del responsabile della agenzia federale di garanzia dei depositi bancari (la Federal Deposit Insurance Corporation). È stato il peggiore fallimento della banca in più di un quarto di secolo. È stato seguito da un piano d’emergenza per salvare le principali istituzioni finanziarie che operano nel mercato immobiliare, soprattutto Fannie Mae e Freddie Mac, che riguardano da circa uno a due milioni di debitori per oltre 300 miliardi di dollari. A metà di settembre 2008, uno dei punti di svolta della crisi è stato il quasi fallimento delle banche di investimento Lehman Brothers e Merryl Lynch, che ha richiesto l’installazione di rimborso, rispettivamente per Citigroup, e per Bank of America. Quasi contemporaneamente, American International Group (AIG), al momento la prima compagnia di assicurazioni del mondo, era alla ricerca di fondi dalla Fed di New York, prima di essere nazionalizzata per una transazione superiore a 85 miliardi di euro.

3. Le politiche anticrisi La distruzione del “capitale fittizio” è stata brutale. La capitalizzazione totale delle borse sarebbe così passata nel corso dell’anno 2008 da 48,3 a 26,1 miliardi di euro (o miliardi di dollari, o 10 di alimentazione a 12!) di dollari. Tra il 1 ° gennaio 2008 e il 1 ° gennaio 2009 gli indici principali di scambio a New York, il Dow Jones Indus, lo S & P 500 e il Nasdaq sono scesi -33,8%,
 39,8% e -40, 5% rispettivamente. Il Nikkei di Tokyo è sceso dello stesso ordine (-42,1%), come l’ ASX 200 a Sydney (-44,1%). Nella zona euro, i crolli sono stati a volte anche più duri: -31,3% a Londra (FTSE 100),
 40,8% a Francoforte (DAX 30), -42,7% a Parigi (CAC 40), -48,4% a Milano (Mib 30), e -52,3% ad Amsterdam (AEX 25), -53,8% a Bruxelles (BEL per 20)... L’Eurostoxx 50 nel frattempo ha perso -44,3%. Stesso trend nel resto d’Europa: dal -34,8% per la SMI di Zurigo (Svizzera) a -52,8% per la AS di Oslo (Norvegia). Nella sua periferia, è stato anche peggio: -52,0% a Tel Aviv (TA 100), -52,5% a Istanbul (ISE Nat. 100)... Il maggior calo è stato registrato a Mosca (RST), con -72,7%. Nell’emergente Asia, i cali sono stati -45,4% per le TSE a Taipei, -48,6% per la STI a Singapore, -51,9% per SENSEX a Mumbai. E ‘in Cina che le cadute sono state più gravi: -61,9% per i beta Shenzhen, -65,4% per il SES Shangu... Sulle altre borse nel Sud, con alcune eccezioni (come indice Bolsa de Valores de São Paulo, la perdita -42,2%), le variazioni sono state solo leggermente meno marcate: -24,5% in Messico (MXSE CPI), -24,0% a Santiago del Cile (IGPA) o -28,0% a Johannesburg (FTSE JSE) ... Da gennaio a marzo 2009, le variazioni degli indici di Borsa sono rimasti significativamente negativi quasi ovunque: -15,9% per il CAC 40, -16,3% per il DJ Indus, -19,7% per l’Euro Stoxx 50... Le principali banche centrali hanno cercato di coordinare i loro interventi, fornendo linee di credito privilegiate ai sistemi bancari e riducendo continuamente i loro tassi di interesse. Il segretario al Tesoro Henry Paulson e il presidente della Fed Ben Bernanke, hanno proposto un massiccio piano di salvataggio del sistema finanziario, mobilitando più di 700 miliardi di dollari per l’acquisto di titoli “tossici” di attivi bancari. Inizialmente respinto dal Congresso, il progetto è stato definitivamente approvato dal Senato, dopo modifiche varie, le cui principali consistono nel ricorrere all’acquisto di azioni delle banche e a estendere l’aiuto pubblico alle imprese, che ha portato le somme previste ad oltre 850 miliardi di dollari. Di questo totale, circa 500 miliardi di dollari sono stati impegnati sotto il presidente Bush (compresi i prestiti a General Motors e Chrysler, di 13 e di 4 miliardi di dollari, rispettivamente). Dopo l’elezione di Barak Obama, un altro piano anti-crisi doveva essere presentato al Congresso. È stato sviluppato da un team di economisti del nuovo presidente, fatto da alcuni dei funzionari chiave del passato della crescita del capitale fittizio, della deregolamentazione dei mercati finanziari e della globalizzazione delle politiche neoliberiste che hanno causato le condizioni più decisive dello scoppio della crisi: Larry Summers, ex segretario al Tesoro nell’amministrazione Clinton, e capo economista della Banca Mondiale, ora consigliere della Casa Bianca, Timothy Geithner, ex presidente della Fed di New York e direttore dello sviluppo delle politiche del FMI, ora Ministro delle finanze e soprattutto lo stesso Paolo Volcker, che è stato Presidente dal 1979-1987 della Banca centrale e si trova dietro al cambio di strategia degli Stati Uniti con l’adozione del monetarismo, d’ora in avanti direttore del President’s Economic Recovery Advisory Board (Consiglio per la ricostruzione economica). Il piano di salvataggio a lungo atteso è stato approvato dal presidente Obama il 18 febbraio 2009. Aveva appena aggiunto al programma precedente, presentato durante il mandato di Bush, più di 780 miliardi di dollari, pari a un ammontare totale effettivamente più di 1600 miliardi di euro. Nonostante la grandezza di questo dispositivo, Obama non ha escluso la possibilità di estendere ulteriormente il campo di applicazione per il prossimo decennio, in caso di necessità: «Di questo totale, il 38% andrà al sostegno delle finanze dei governi federali e delle comunità locali, nonché all’assistenza delle persone con basso reddito o disoccupati, il 38% corrisponde a riduzioni di imposte pagate, sostenute principalmente dalle classi medie e il 24% sarà dedicato alle opere pubbliche - con l’obiettivo di creare quattro milioni di posti di lavoro». Questo non ha impedito ai mercati finanziari di continuare i loro crolli a New York, Londra, Francoforte e Parigi, dimostrando non solo la continua insoddisfazione dei grandi proprietari del capitale fittizio di fronte al piano previsto, ma anche e soprattutto l’inadeguatezza delle masse enormi di risorse già iniettate nel sistema bancario per salvarlo. L’ipotesi più probabile è quindi quella di una insolvenza, confermata dalla successione degli annunci di perdite da grandi oligopoli finanziari statunitensi a partire dall’ultimo trimestre del 2008 (ad esempio, 58,7 miliardi per Fannie Mae 2008). La Federal Deposit Insurance Corporation, che classifica 252 banche statunitensi come “problematiche”, prevedeva per il 2009 che più di un migliaio di banche avrebbero dichiarato l’insolvenza, su un totale di 8.300 istituzioni in tutto il paese. È in questa tempesta che Obama ha detto di vedere «l’inizio della fine della crisi” (the beginning of the end of crisis)... Il suo governo ha introdotto una proposta di bilancio per il 2010 che presenta nei punti salienti un aumento della spesa sociale, rallentando il maggiore onere militare e aumentando le tasse più elevate alle famiglie più ricche. Ciò che alcuni hanno definito il bilancio di «Robin Hood, togliere ai ricchi per dare ai poveri» non ha mai dimenticato gli investitori - e gli speculatori - che operano nei mercati finanziari. «Se le condizioni economiche si deteriorano, ha detto il documento che il presidente ha inviato al Congresso, il governo utilizzerà [le risorse aggiuntive previste] per nazionalizzare temporaneamente le istituzioni in difficoltà. Il deficit di bilancio previsto per il 2009 ha raggiunto un record di 1.750 miliardi dollari, ovvero 12,3% del prodotto interno lordo degli Stati Uniti». Neppure le varie prove per la riattivazione della fornitura del credito da parte delle banche centrali dal 2007, le misure necessarie per i piani dei governi del G7 (travestito da G20, in assenza di G192) ha prodotto l’effetto desiderato. Taluni così come gli altri sono stati molto insufficienti per evitare il collasso di parti intere della finanziarizzazione globale. Il peggioramento della dimensione finanziaria della crisi non è diminuito, e la trasmissione dei suoi effetti sull’economia reale accelera su scala mondiale, attraverso l’affettazione dei livelli di produzione, occupazione e commercio. La maggior parte delle grandi istituzioni internazionali, l’FMI per l’OCSE, hanno più volte rivisto al ribasso le loro previsioni di crescita economica per il 2009-10. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) stima che l’attuale rallentamento della crescita nei principali paesi del sistema mondiale dovrebbe portare ad un aumento della disoccupazione di circa 20 milioni nel 2009, mentre il numero globale di persone senza occupazione potrebbe superare i 210 milioni quest’anno. Sono enormi danni sociali causati dal modo di produzione capitalistico, che diventano una minaccia per l’umanità.

4. Dalle interpretazione alle soluzioni La Grande Depressione del 1930 aveva evidenziato i limiti dell’ economia dominante neo-classica. La sua spiegazione del capitalismo si basa sulla legge di Say e sull’equilibrio del mercato, con un adeguamento automatico dei prezzi, che in teoria preverrebbe l’emergere spontaneo di una crisi. Poiché quest’ultima - che è semplicemente descritta come “finanziaria” - è una realtà difficile da battere, in pratica, la maggior parte degli autori neo-classici (e dei divulgatori economici mediatici) l’analizzano da diversi fattori esterni ai mercati, e in particolare dagli interventi dello Stato - o l’attività dei sindacati, se non la metereologia ... - e/o agli “eccessi” nel comportamento degli agenti, che vanno dalla cupidigia esagerata per le frodi attraverso errori di governi d’impresa, che inficiano il libero gioco dei meccanismi del mercato. La logica della concentrazione della proprietà privata e la massimizzazione del profitto individuale non sono problematici; si tratta solo d’incompetenza o di corruzione. Mentre gli economisti mainstream sono in posizioni di responsabilità all’interno dell’apparato dello Stato capitalista e agiscono intenzionalmente a favore delle grandi imprese, la loro concezione dello Stato è un ente autonomo rispetto alla sfera economica e non è dominata dagli interessi dei capitalisti. I sindacati esistono, ma non la lotta di classe. I danni causati all’ambiente e la crisi ambientale stessa non sono legati al capitalismo, ma solo all’attività umana in generale - e quelle dei paesi “emergenti” del Sud, in particolare, a partire dalla Cina... Le politiche neo-liberali sono, dunque, chiaramente in declino. La gravità della crisi attuale è favorevole al ritorno delle teorie di John Maynard Keynes, acuto critico del capitalismo, e della visione neo-classica di autoregolamentazione del capitalismo. Negli ultimi anni, alcuni teorici neoclassici cominciano ad abbandonare certe posizioni duramente neoliberiste, non per convertirsi al keynesismo, ma per incrementare l’assorbimento dello stesso da parte del paradigma walrasiano, attraverso quello che viene chiamato “la sintesi keynesiana-neo-classica”, iniziata fin dagli anni ’40 grazie agli sforzi di autori come Sir John A. Hicks e Paul A. Samuelson. I loro discendenti tra i più importanti, rimasti fedeli alla teoria neo-classica standard al costo di qualche cambiamento (di adeguamento dei prezzi, aspettative o concorrenza imperfetta) sono attualmente Joseph Stiglitz, Paul Krugman e Olivier Blanchard. Il primo, Premio Nobel in Economia nel 2001, è stato vice-presidente della Banca Mondiale e non ha bisogno di presentazioni, il secondo, premio Nobel nel 2008, finito il suo ultimo libro, Perché le crisi tornano sempre scrive che «Keynes - che aveva compreso la Grande Depressione [1930] - oggi più che mai, è all’ordine del giorno», il terzo, a lungo professore di economia al MIT, supporta ormai sia l’amministratore delegato socialista FMI Dominique Strauss-Kahn, come capo economista dell’istituto, che il Premio Nobel per la Pace 2009 Barack Obama come consulente per banche della Federal Reserve di New York e Boston. Tuttavia, è chiaro che, anche se spesso si oppongono alle proposte relative ai livelli di intervento dello Stato, l’interpretazione di questi cosiddetti “nuovi keynesiani” e dei neo-classici tradizionali sono partecipi della stessa matrice politico-ideologica della teoria economica, che noi qui consideriamo come “borghese”. I più moderni tra di loro, nonostante le sfumature, sottigliezze e variazioni, hanno solo visioni appena “riformiste” che comprendono l’introduzione di piccole modifiche nel funzionamento del capitalismo in modo che esso sopravviva più a lungo possibile - accettano solo, temporaneamente, un massiccio intervento diretto del governo attraverso l’acquisto di azioni di banche, assicurazioni e casse di risparmio sull’orlo del fallimento, il più delle volte senza diritto di voto o criteri nuovi di controllo. Mentre alcuni strumenti “keynesiani” sono visti nelle misure anti-crisi decise dal governo degli Stati Uniti - fin dal piano proposto da (il team di) G.W. Bush, nel primo semestre del 2008 (come il ritorno di parte dell’imposta sul reddito già pagata per cercare di stimolare il consumo) e, soprattutto, il programma del Presidente Obama (ristrutturazione degli impianti) - il predominio è ancora praticamente delle politiche neo-liberali per salvare il massimo della ricchezza finanziaria - vale a dire di capitale fittizio accumulato dall’oligopolio della finanza. La conversione nell’urgenza del piano di salvataggio dal capitalismo all’interventismo degli stati e delle banche centrali operato in maniera non democratica dai governi neoliberali del Nord non può creare illusioni. L’insieme di un forte calo dei tassi di interesse, l’apertura di linee di credito enormi e l’acquisto di attivi bancari rimane molto ortodosso, e i suoi fondatori sono ancora lungi dall’essere fuori dai dogmi dell’economia dominante. Il “Rapporto della Commissione Stiglitz”, ne fornisce l’illustrazione. Scritto nel 2008-09, su richiesta del Presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Miguel d’Escoto, il documento finale non ha veramente messo in questione i fondamenti dell’economia neo-liberale, sebbene duramente colpita dalla crisi. Secondo il rapporto, delle vecchie certezze del neo-liberalismo sono da rivedere, ma certamente non da abbandonare: i tassi di cambio sono flessibili, le virtù del libero scambio sono riaffermate rispetto ai pericoli del protezionismo, le carenze di “corporate governance” sono da correggere, la gestione del rischio finanziario continua ad essere affidata agli stessi oligopoli privati e il controllo del sistema capitalista del mondo rimane in dipendenza dell’ egemonia degli Stati Uniti... Siamo molto lontani dal respingere i venti della liberalizzazione finanziaria globale espressa da sempre più paesi nel Sud, non senza limiti, difficoltà e contraddizioni, è vero. Inoltre, una parte - minoritaria, ma significativa - di correnti liberali continua a radicalizzarsi, per essere più vicini alle tesi ultra-liberali austriache, ispirate da Mises e Hayek. Fondate su una fede riaffermata nel carattere automatico del riequilibrio dei mercati, queste analisi della crisi, di cui si trova una spiegazione sul sito dell’Istituto von Moses, sono dannose per i nuovi neo-liberisti keynesiani nella misura in cui difendono fin dall’inizio l’idea che la crisi sarebbe venuta da un eccesso di interventismo e lo Stato non dovrebbe in alcun modo cercare di salvare le banche e le imprese in difficoltà. Piuttosto credono che occorre abolire tutte le norme statali che limitano la libertà d’azione degli agenti sul mercato. Le politiche abitative pubbliche, con il sostegno di Fannie Mae e Freddie Mac, sostengono in modo populista che i cittadini possano accedere a tutti i beni immobili. I mercati hanno dimostrato che non è così. Gli ultra-liberali sviluppano le loro argomentazioni contro qualsiasi piano anti-crisi, e in particolare contro ogni regolamentazione esterna dei tassi di interesse da parte della Banca centrale. I più radicali tra di loro rivendicano l’abolizione pura e semplice delle istituzioni dello Stato (compreso l’esercito), e la privatizzazione del denaro. Sono ovviamente consapevoli del fatto che tali misure avrebbero portato il sistema capitalistico nel caos, ma la loro fiducia nei meccanismi del mercato suggerisce che il caos può rivelarsi vantaggioso per il capitale e che egli avrebbe recuperato più rapidamente e più vigorosamente che piuttosto sulla base di un intervento dello Stato artificiale, sotto forma di vari sussidi pubblici alle imprese costrette a dichiarare fallimento.

5. Conclusione Nessuna di queste correnti di pensiero suggerisce di prendere in considerazione le condizioni di un processo di superamento del capitale in quanto rapporto sociale di sfruttamento e di oppressione - neanche le proposte della sinistra che chiedono la riforma del FMI e della Banca mondiale o la creazione di una “valuta mondiale”. Vi sono, tuttavia, dei sostenitori della tesi secondo cui l’attuale crisi del capitale rischia di portare al collasso del capitalismo. Robert Kurz ha sostenuto nella metà degli anni 1990, in diversi lavori pionieristici (tra cui Avviso per i naufraghi - Storie di capitalismo globalizzato in crisi), il sistema di produzione capitalista sta per estinguersi e che il XXI secolo apre una fase di transizione verso una nuova forma di società. Immanuel Wallerstein, che studia le tendenze a lungo termine del capitalismo da una teoria del “sistema-mondo”, ha recentemente dichiarato: «Penso che abbiamo ottenuto in 30 anni la fase terminale del sistema capitalista. La situazione è diventata caotica e incontrollabile per le forze che hanno dominato fino ad oggi, e si costituirà una lotta, non tra i sostenitori e gli oppositori del sistema, ma tra tutti gli attori nel determinare cosa lo sostituirà. Mi riservo l’uso della parola “crisi” di tale periodo. Bene, siamo in crisi. Il capitalismo sta volgendo al termine». E aggiunge altrove: «Possiamo essere sicuri che tra 30 anni, non vivremo più nel sistema-mondo capitalistico». Queste interpretazioni sono coerenti con quelle di alcuni analisti nell’economia globale del capitalismo, tra cui il team del Global Europe Anticipation Bulletin (GEAB - LEAP), le cui previsioni sull’evoluzione della crisi sono sempre più pessimiste. «Dal 2006, abbiamo stimato che la crisi sistemica globale si sarebbe sviluppata in quattro fasi: avvio, accelerazione, impatto e la decantazione. Questo processo ha ben descritto gli eventi fino ad oggi [15 febbraio 2009]. Ma (...) l’incapacità dei leader mondiali per fare il punto della crisi, in particolare caratterizzati dalla loro persistenza per più di un anno per affrontare le conseguenze, invece di affrontare le sue cause radicalmente, porterà la crisi in una quinta fase che ha visto i suoi inizi dal quarto trimestre del 2009: [quella] di dislocazione geopolitica globale». Questa nuova fase nella crisi in corso potrebbe portare da un lato, il crollo del dollaro e la scomparsa della base finanziaria internazionale, d’altra parte, la frammentazione degli interessi degli attori del sistema. Lasciamo loro l’ultima parola: «Noi abbiamo sperato che la fase di assestamento permettesse ai leader mondiali di trarre le conseguenze del crollo del sistema che organizza il mondo dalla fine della seconda guerra mondiale. (...) [Non] è veramente più possibile essere ottimisti. Negli Stati Uniti ed in Europa (...) o in Giappone, i leader continuano a fingere che il sistema complessivo ha sofferto un guasto temporaneo e [come se stessero] per riavviare [la macchina con l’aggiunta di carburante] (in contanti) [con alcuni adattamenti: un declino dei tassi, l’acquisto di asset tossici, i piani per rivitalizzare le imprese quasi in bancarotta...]. Ora è il (...) [complessivo sistema che] è obsoleto. Dobbiamo ricostruire uno nuovo, invece di lottare per salvare ciò che non può più essere».