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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO

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JAMES PETRAS
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Un contesto storico di competizione globale: crescita del militarismo, protezionismo legislativo e saccheggio delle risorse
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Un contesto storico di competizione globale: crescita del militarismo, protezionismo legislativo e saccheggio delle risorse

JAMES PETRAS

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1. Obama e l’ingannevole teoria del cambiamento

Uno degli aspetti più rilevanti delle relazioni tra Stati Uniti ed America Latina è la profonda divergenza tra le speranze, le aspettative e l’immagine positiva del regime di Obama e le strategie e le azioni che vengono portate avanti. Molti cosiddetti commentatori progressisti statunitensi e non pochi scrittori latinoamericani hanno ignorato le caratteristiche elementari della politica estera nord-americana e hanno focalizzato i loro interessi esclusivamente sull’ingannevole teoria del “cambiamento” e del “nuovo inizio”. Un serio approccio alla politica estera statunitense, soprattutto verso l’America Latina, richiede una discussione sugli obiettivi principali del Governo Obama e sulle priorità globali della politica imperiale in un periodo che vede diverse guerre e una depressione globale. Le tattiche e le strategie statunitensi verso l’America Latina sono diventate davvero importanti, basti solo pensare alla storia recente, ai cambiamenti economici e politici avvenuti nella regione e alle alleanze politiche. Una valutazione realistica della politica degli Stati Uniti deve andare al di là dei pronunciamenti politici e delle “proiezioni di potere” di Washington; bisogna fare un’analisi delle capacità e delle risorse disponibili per rafforzare il programma di Obama sull’America Latina. Nel valutare la politica di Washington importante è analizzare la sua coerenza e fattibilità nei confronti delle diagnosi politiche dell’America Latina. Questo ci fornisce una base per determinare la compatibilità o il conflitto di interessi tra le due regioni geografiche. Una questione fondamentale è: come farà il governo di Obama, in un momento storico di grave crisi economica globale, a conciliare gli obiettivi e le risorse a disposizione per lo sviluppo richiesto dai differenti paesi latinoamericani? Per rispondere a questa domanda dobbiamo esaminare le recenti politiche e alleanze avvenute in Sud America, sarebbe infatti ridicolo ignorarle o sottostimare la condizione “egemonica” degli Stati Uniti e quella “autonoma” dell’America Latina, oltre che nelle relazioni di potere, soprattutto alla luce dei grandi cambiamenti degli ultimi due decenni. Le relazioni latinoamericane con gli Stati Uniti sono influenzate, in modo decisivo, dagli eventi interni, ad esempio i conflitti di classe che determinano la correlazione delle forze politiche, oltre agli accadimenti esterni, come ad esempio un intervento e un’espansione estera statunitense. In America Latina, i cambiamenti nelle relazioni politico-economiche possono essere divisi in due periodi che danno una visione d’insieme del grado di egemonia e di autonomia rispetto all’impero statunitense.

2. Le linee evolutive delle relazioni tra Stati Uniti e America Latina: 1990-2009 Qualsiasi “approccio generale” alle relazioni tra Stati Uniti e America Latina è soggetto ad eccezioni e variazioni di particolari esperienze, persino quando si accentua “il trend dominante” nella regione. Nei primi due decenni, che vanno dal 1980 al 2000, sono stati stabiliti parametri certi per le recenti politiche, in particolare per i conflitti e per le divergenze di interessi. Il periodo che va dal 1980 al 1999 è stato definito da Washington e da Wall Strett come “l’età dell’oro” delle relazioni tra i due blocchi americani. I regimi sudamericani hanno accettato e promosso l’egemonia statunitense, seguendo le direttive precise dell’FMI, del Congresso di Washington e del modello accentratore dell’accumulazione capitalista. Tutto ciò comporta l’inasprimento delle barriere commerciali, della privatizzazione delle imprese pubbliche (banche, pozzi petroliferi, miniere, stabilimenti di produzione e telecomunicazioni) e la loro conseguente de-nazionalizzazione o de-localizzazione nelle multinazionali statunitensi ed europee. Gli Stati Uniti e l’Europa si sono impossessati di queste imprese pubbliche a prezzi e termini più che favorevoli , cosa questa che li ha posti al primo posto per i grandi trasferimenti di denaro e interessi; tutto ciò permette loro di avere grande influenza sull’intero sistema finanziario e creditizio e sull’accesso alle casse locali dei paesi latinoamericani. A livello politico, i governi in carica hanno accolto e promosso l’ideologia statunitense del libero mercato, conosciuta come “neoliberalismo”, e hanno scommesso su un intervento politico e diplomatico da parte degli Stati Uniti nella regione e oltreoceano. Il saccheggio delle risorse pubbliche e delle casse private da parte delle multinazionali e la conseguente concentrazione delle ricchezze e del potere politico hanno polarizzato la società, facendo aumentare ancora di più le crisi economiche e politiche. Questa situazione ha portato a gravi disordini popolari in molti dei paesi della regione, durante il periodo che va dal 2000 al 2004. L’America Latina ha assistito alla destituzione di molti alleati statunitensi che mettevano in discussione l’ideologia del libero mercato e sviluppavano radicali cambiamenti strutturali. Come conseguenza della nuova correlazione di forze, la forza politica degli Stati Uniti è scemata e così anche la sua influenza è stata largamente confinata alle élites politico-economiche che stanno ai margini del dominio e sotto scacco politico da parte dei movimenti e degli elettori delusi. Il “terzo periodo” è quello dei “governi ibridi”, che risponde alle richieste popolari e critica il “neoliberismo” (impero centrato sulle strutture economiche e politiche) senza invertire nessuna delle impopolari strutture, proprietà ed eredità imposte dai governi precedenti. La crescita e il consolidamento dell’alternativa dell’assai eterogeneo insieme dei governi di “centro-sinistra” è stata favorita dalle condizioni economiche mondiali, soprattutto dai prezzi delle merci che hanno reso più fattibili i programmi di assistenza sociale e la ripresa economica, così come il relativo “declino” delle politiche statunitensi. Questa perdita di potere si è intensificata a causa del coinvolgimento degli Stati Uniti in una serie di guerre, all’apparenza senza fine, in Medio Oriente e nella parte Sud dell’Asia, per non parlare della “guerra mondiale al terrorismo”. Questa “terza fase” ha dato risalto alla crescita dell’autonomia latinoamericana aiutata dagli enormi profitti, quasi piovuti dal cielo, dovuti ai prezzi eccezionali, all’espansione dei mercati in Asia e soprattutto alle iniziative politiche ed economiche del Governo venezuelano di Hugo Chávez. La fine del boom delle materie prime e la preoccupazione della crisi economica globale segnano l’inizio del “quarto periodo”. Due fenomeni davvero contradditori sono piombati sulle relazioni tra Stati Uniti e America Latina. Poiché gli Stati Uniti sono l’epicentro della crisi mondiale e le sue istituzioni finanziarie e creditizie sono insolventi, gli investitori e i finanziatori scappano e tornano in patria, indebolendo la presenza statunitense in America Latina e la sua influenza economica in una regione con grandi risorse straniere. Inoltre, l’eccessiva espansione militare in altre regioni (Medio Oriente, Asia, Europa dell’Est) hanno ridotto la capacità di intervenire in territorio latinoamericano. Mentre gli sviluppi della situazione economica e militare mondiale hanno dato la possibilità di esercitare una piena autonomia latinoamericana, la caduta delle esportazioni e il prosciugamento dei crediti commerciali e dei capitali stranieri hanno esposto a gravi difficoltà i governi di “centro-sinistra”, a causa della loro dipendenza dalle “strategie di esportazione”. L’aspetto contradditorio del “quarto periodo” ha condizionato la struttura delle attuali relazioni tra Stati Uniti e America Latina e ha definito alcune delle chiavi dei problemi tra i governati latinoamericani e il Governo di Obama.

3. Militarismo, protezionismo finanziario e declino commerciale La politica dell’Amministrazione Obama nei confronti dell’America Latina è stata formulata in modo negativo a causa delle sue tre priorità politiche. La politica estera del Governo Obama porta avanti ed espande il contesto militare sviluppato dalle precedenti amministrazioni. Contrariamente alle speranze e alle aspettative di molti difensori della pace progressisti e di sinistra, Obama si è circondato di militaristi convinti, sionisti e sostenitori della Guerra Fredda. La più grande differenza tra la politica di Obama e quella di Bush è il linguaggio diplomatico che accompagna la costruzione dell’impero e l’espansione dell’attività militare. Obama ha adottato la retorica della “riconciliazione”, della “negoziazione” e del “cambiamento”, da contrapporre alla retorica bellicosa di Bush, anche se il Presidente in carica sta accelerando e incrementando l’attività militare. Una sistematica analisi della politica dell’Amministrazione Obama rivela che la principale preoccupazione è quella di usare la potenza militare come unico strumento per riaffermare l’esistenza dell’Impero sul resto del mondo.

4. Ancora la politica di potenza militare per l’impero

4.1 Sud Est Asiatico Il Governo Obama ha incrementato in Afghanistan la presenza militare statunitense di oltre il 40% - dai 21.000 agli attuali 38.000 militari - e sta raddoppiando i finanziamenti per l’esercito di mercenari afghani e per la polizia. Washington ha esteso il campo di battaglia anche in Pakistan, ha intensificato i bombardamenti nella Swat Valley1, diventati ormai quotidiani, e sta portando avanti delle operazioni di commando fuori confine. Il Governo Obama ha di fatto esteso la zona di guerra nel territorio pakistano, insinuandosi anche nelle istituzioni di intelligence. Nonostante l’intensa pressione statunitense e dei suoi alleati sull’Unione Europea, pochi paesi hanno promesso nuovi contingenti per la strategia militare di Obama. Così come durante l’era Bush, anche l’attuale Presidente degli Stati Uniti si è pronunciato a proposito di una maggiore escalation militare, aspettandosi che i suoi alleati lo seguano. L’apparato militare e di intelligence statunitense sono penetrati ancora di più nelle istituzioni pakistane con il chiaro intento di epurare i funzionari nazionalisti e mettere al loro posto funzionari disposti a reprimere aggressivamente le organizzazioni e i leader che si oppongono all’intervento statunitense in Pakistan, Afghanistan e in Medio Oriente.

4.2 Iraq Il contrasto tra la retorica diplomatica di Obama sul ritiro delle truppe e l’escalation militare è ancora più lampante nel caso iracheno. L’Amministrazione Obama ha prolungato il periodo di occupazione militare e ha incrementato i fondi per le basi militari permanenti e per le strutture associate. La sua strategia militare fa prevedere la nascita di un’imponente esercito di mercenari, con la polizia che controlla la popolazione e reprime qualsiasi tipo di resistenza patriottica. Il Presidente Obama ha raddoppiato il numero dei mercenari iracheni spediti in missione in tutto il paese sotto il comando del Pentagono.

4.3 Iran La politica più impressionante adottata dall’attuale Amministrazione statunitense verso l’Iran è rappresentata dalle continue sanzioni, sempre più aspre, al già esistente embargo economico. Obama continua con la minaccia di un attacco preventivo verso l’Iran, un progetto in linea con il “piano di guerra preventiva” sviluppato dai funzionari del Pentagono e molto caro a Bush. Per portare avanti questa posizione, Obama ha nominato due tra i più duri teorici israelo-americani: Dennis Ross, inviato speciale in Iran e Stuart Levey, al Tesoro, incaricato di occuparsi delle ingenti sanzioni economiche contro l’Iran. Washington sta facendo un grande sforzo per isolare l’Iran, anche attraverso negoziati con la Siria, la Russia e la Cina. In questa fase, la retorica pubblica adoperata da Obama circa la possibilità di una nuova politica nei confronti dell’Iran è solo propaganda. La smisurata forza militare statunitense, aerea e navale, continua a minacciare Teheran con il blocco economico e con possibili ulteriori attacchi. L’Amministrazione Obama continua a finanziare e addestrare i gruppi terroristici da infiltrare in Iran dalle loro basi in Iraq e Pakistan, con il fine di attaccare il regime iraniano. Le minacce israeliane di attaccare l’Iran sono diventate ancora più probabili con la nuova tecnologia militare del Governo nord-americano; sono equipaggiati con i più sofisticati sistemi anti-missile e bombe anti-bunker nate per distruggere i servizi sotterranei del Governo iraniano.

4.4 Palestina, sud del Libano e Siria La politica militare statunitense è un chiaro segnale dell’incondizionato appoggio dell’attacco criminale israeliano di Gaza, degli omicidi selettivi degli attivisti palestinesi nella West Bank e delle minacce contro Hezbollah. Il Governo Obama, insieme alle due camere del Congresso, ha supportato qualsiasi atto di guerra perpetrato da Israele, compreso il brutale blocco economico di Gaza e la cacciata sistematica dei palestinesi residenti nei territori occupati di Gerusalemme Est e della West Bank. Questo governo è profondamente infestato da eminenti sionisti pro Israele che precludono qualsiasi cambiamento nelle robuste relazioni militari soprattutto con la svolta a destra del governo Netanyahu-Lieberman.

4.5 Africa Orientale L’attuale Governo nord-americano continua a portare avanti una politica di confronto verso i musulmani del Sudan attraverso il finanziamento dei separatisti armati del Darfur del Sud e attraverso un recente attacco aereo ad un convoglio militare sudanese. Quando è fallito l’intervento militare in Somalia partito dall’Etiopia, Washington ha optato per una nuova coalizione supportata dai mercenari africani proveniente dall’Uganda.

4.6 Russia ed Europa dell’est Sotto l’era Obama, le provocazione militari della Russia continuano grazie al reclutamento di nuovi alleati - tra i vecchi paesi sovietici membri della NATO - e grazie alla costruzione di basi sugli stessi confini russi. Obama parla di riconciliazione diplomatica mentre costruisce nuove basi militari, nuove zone missilistiche e avanzatissime stazioni radar dalla parte meridionale della Polonia verso l’Ucraina e la Georgia. Le proposte diplomatiche statunitensi verso la Russia sono guidate dalle loro necessità logistiche in Iraq, Afghanistan, Pakistan e soprattutto per la preparazione dell’attacco all’Iran. Gli Stati Uniti chiedono che la Russia provveda ad un supporto logistico per la guerra in Afghanistan e Pakistan, mentre allo stesso tempo, vuole che la Russia cancelli la vendita di missili così come il programma di incremento nucleare con l’Iran.

4.7 Cina Sebbene il Governo Obama è profondamente consapevole della sua dipendenza dai finanziamenti cinesi a causa del deficit economico, ciò nonostante ha ingaggiato una rischiosa “competizione” navale al largo delle acque cinesi. Un recente comunicato del Pentagono circa la preparazione militare cinese cercava, con una retorica da Guerra Fredda, di gonfiare la minaccia del dominio dell’Asia da parte della Cina, puntando sulla sua “poca trasparenza”. Ancora una volta, il Presidente Obama ha presentato due discorsi: uno ispirato dalla diplomazia e l’altro dall’aggressione militare. La Cina fronteggiava l’avanzata militare statunitense lungo le basi americane dall’Afghanistan, Pakistan, Giappone, Corea del Sud.

5. La politica latinoamericana di Barack Obama Per decifrare il reale contesto della politica latinoamericana del Governo Obama bisogna guardare alle priorità della politica estera, all’assegnazione delle risorse finanziarie, ai pubblici impegni politici e ignorare, completamente, l’insignificante retorica diplomatica. La prima importante dichiarazione, in linea con le politiche guerrafondaie globali, è quella di militarizzare il confine tra Stati Uniti e Messico, destinandovi circa un miliardo di dollari, oltre agli aiuti mandati al Governo messicano di Calderón. Il punto centrale della politica statunitense verso il Governo del Messico e quello della Colombia, oltre ai problemi del narco-traffico e delle violenze legate alla droga, è l’aspetto militare, ignorando le radici socio-economiche: milioni di giovani contadini messicani e di piccoli allevatori stanno precipitando nella bancarotta, nella disoccupazione e nella povertà a causa del NAFTA (North American Free Trade Agreement), diventando così facili prede per il narco-traffico. L’espulsione di centinaia di migliaia di lavoratori immigrati messicani dagli Stati Uniti e i nuovi confini militarizzati mettono fine al grande esodo di contadini dal Messico che scappavano dal crimine e dalla miseria. In contrasto con quanto fa l’Unione Europea, che fornisce fondi ai paesi comunitari meno competitivi (come la Spagna, la Grecia, il Portogallo e la Polonia), gli Stati Uniti hanno dato al Messico fondi non compensativi per promuovere la produttività, la competitività e l’occupazione. Il Governo militarizzato della Colombia, noto per le continue violazione dei diritti umani, è il più grande destinatario dei fondi monetari in America Latina. Con il Plan Colombia, gli Stati Uniti hanno finanziato programmi di insurrezione: Bogotá ha ricevuto circa 5 miliardi di dollari, la più avanzata tecnologia militare, migliaia di consiglieri militari americani e molti mercenari. L’aiuto di Obama al Governo di destra colombiano è la sua risposta alla nascita dei governi, democraticamente eletti, dell’Ecuador e del Venezuela. L’attuale politica statunitense verso l’America Latina è guidata dalle priorità difensivo-militari dell’Amministrazione Bush, tra cui l’embargo economico verso Cuba e l’ostilità nei confronti della Rivoluzione Bolivariana. Non esistono nuove iniziative economiche. Oltre al retorico aiuto per il libero commercio, Obama finanzia con le quote e con le tariffe precedenti su import ancora più competitivi provenienti dal Brasile, continuando ad adottare misure protezionistiche contro il trasporto e contro i camionisti messicani. L’inesorabile ricerca di Obama di una guida militare per l’impero durante una profonda crisi in via di sviluppo ci dà le basi per capire le attuali relazioni tra Washington e l’America Latina. L’approccio militare del Governo statunitense verso la regione latinoamericana riflette la sua incapacità o inadeguatezza a distribuire le risorse economiche e mette in evidenza il profondo interesse a sostenere i suoi due principali alleati, ossia la Colombia e il Messico. Lo scarso interesse di Obama e le risorse ridotte al minimo per l’America Latina dimostrano quanto poco contino questi temi all’interno della Casa Bianca. L’America Latina è al quinto posto delle priorità statunitensi dopo la crisi economica nazionale, le guerre in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, il coordinamento politico con l’Unione Europea e le relazioni strategiche ed economiche con la Russia e la Cina. Con questo ordine di precedenza, il Governo nord-americano ha poco tempo, poco interesse o scarse offerte programmatiche per aiutare l’America Latina ad affrontare l’inizio della crisi economica. Abbiamo constatato che il Governo Obama sta seguendo una triplice strategia di:
  un continuo sostegno ai regimi di destra (Colombia, Messico e Perú);
  aumento dell’influenza sui “governi centristi” (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay);
  isolamento e indebolimento dei governi di sinistra (Cuba, Venezuela, Ecuador, Bolivia e Nicaragua).

Ciò che è più rilevante nella presupposta politica governativa “progressista” di Obama per l’America Latina è la sorprendente continuità con la reazionaria Amministrazione Bush, che comprende:
  la bassa priorità che la regione latinomaericana riveste per gli Stati Uniti;
  l’enfasi statunitense per il rafforzamento militare (sicurezza) alla lotta alla droga, oltre ai programmi di diminuzione della povertà e di trattamento per le dipendenze da droghe;
  la sua stretta collaborazione con i governi più reazionari della regione (Messico e Colombia);
  il perdurare dell’embargo economico contro Cuba, nonostante la perdita di due dei sostenitori latinoamericani;
  l’ambiguità dei discorsi di Obama: parla di libero commercio e poi pratica il protezionismo;
  gli Stati Uniti finanziano e rafforzano il ruolo dell’FMI come se fosse uno strumento per l’espansione imperialistica;
  la politica statunitense cerca di creare disaccordo tra i governi centristi (Lula da Silva in Brasile, Cristina Fernández de Kirchner in Argentina, Tabaré Vázquez in Uruguay e Michelle Bachelet in Cile) e quelli di sinistra (Hugo Chávez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador e Daniel Ortega in Nicaragua);
  gli Stati Uniti sostengono le élites separatiste regionali che vogliono destabilizzare i governi di centro sinistra, democraticamente eletti, così come è successo a Santa Cruz (Bolivia), a Guayaquil (Ecuador) e a Maracaibo (Venezuela).

In altre parole, il Governo Obama ha abbracciato totalmente la strategia politica dell’Amministrazione Bush e allo stesso tempo sta portando a termine pochissimi cambiamenti da attuare in vista del declino del potere statunitense. Inoltre, Obama ha facilitato alcune trasformazioni negative ancora più dannose per quanto riguarda il finanziamento dell’America Latina. Mentre reitera le anacronistiche pretese che Cuba diventi un paese capitalista (dopo una “transizione democratica”), unica condizione per far terminare l’embargo, ha alleviato, leggermente, le restrizioni di viaggio per i “cubano-americani”, dando loro la possibilità di andare a Cuba e inviare denaro alle famiglie di origine. Il Dipartimento di Stato ha dato chiari segnali di apertura ai governi moderati: possiamo ricordare gli incontri con Lula Da Silva nel marzo del 2009 e la presenza in Cile - durante un incontro tra i Presidenti di centro, dal 27 al 28 marzo 2009 - del Vice Presidente Biden. Obama è ricorso al “potere leggero” che non poggia su alcuna iniziativa economica nuova ma porta semplicemente avanti le vecchie politiche dei suoi predecessori. Comunque, esiste una serie di “cambiamenti” che sono il risultato, diretto e indiretto, della depressione economica statunitense e del finanziamento di Obama al deficit gigantesco; tutto ciò, ovviamente, ha una ricaduta negativa per i paesi della regione latinoamericana. Questo governo sta assorbendo gran parte dei crediti da dare in aiuto alla regione. Questa politica sta mettendo in seria difficoltà gli esportatori latinoamericani che non riescono a finanziare le vendite. Inoltre, il governo statunitense richiede al settore finanziario di espandere le proprie riserve di capitali e dirigerle verso il mercato nazionale degli Stati Uniti. I cambiamenti diplomatici e di linguaggio del Governo Obama e l’affermazione del mercato libero, hanno davvero poca sostanza: la Casa Bianca continua a parlare di mercato e commercio libero e poi, nella pratica, introduce misure protezionistiche davvero severe. Oltre ai 20 miliardi di dollari di sussidio agli esportatori del settore agricolo, i membri del partito Democratico hanno spinto le forniture di “Buy America” verso la politica di approvvigionamento federale e molti miliardi di dollari in aiuto all’industria dell’auto. L’America Latina sta affrontando l’aumento del protezionismo nord-americano; infatti il Governo di Obama ha reagito alla depressione economica nazionale costringendo la regione a cercare nuovi partner (per proteggere il mercato interno) e nuove risorse economiche.

6. L’America Latina e la crisi mondiale In tutta l’America Latina, la crisi con il crollo ha distrutto l’economia, il mercato del lavoro, il commercio, il settore creditizio e quello degli investimenti. Quasi tutti i paesi della regione hanno tassi di crescita negativi (a causa dei tassi di disoccupazione a due cifre), altissimi livelli di povertà e importanti proteste di massa. Tra la fine di marzo e gli inizi di aprile del 2009, in Brasile, una coalizione di sindacati, movimenti urbani sociali e il movimento dei contadini “senza terra” hanno convocato grandi dimostrazioni, a cui ha partecipato anche il CUT, usuale alleato del partito di Lula. In Brasile il tasso di disoccupazione è aumentato bruscamente fino a raggiungere più del 10% (ci sono moltissimi casi di cassa integrazione nel settore dell’auto e in quello metallurgico). In Argentina, Colombia, Perú, gli scioperi e le proteste stanno iniziando a diffondersi oltre i settori della disoccupazione; vengono denunciati l’aumento di episodi di bancarotta tra gli esportatori e l’impossibilità di assicurare finanziamenti. I paesi latinoamericani più industrializzati, le cui economie sono assai integrate nel mercato globale e hanno seguito una strategia d’aumento delle esportazioni, sono quelli più colpiti dalla crisi economica mondiale. Ovviamente stiamo parlando del Brasile, dell’Argentina, della Colombia e del Messico. Poi ci sono i paesi che dipendono dalle rimesse straniere e dal turismo, come l’Ecuador, vari paesi dell’America Centrale, dei Caraibi e perfino il Messico, con le loro economie “aperte”, anch’essi danneggiati dal crollo economico. Mentre il collasso finanziario statunitense non ha avuto un enorme e immediato impatto sulla situazione latinoamericana - anche perché le recenti crisi finanziari avvenute in Argentina, Messico, Ecuador e Cile hanno fatto sì che i governi di questi paesi imponessero limiti alle speculazioni -, il risultato indiretto di questo crash, specialmente per quanto riguarda i crediti e il mercato globale, ha portato al baratro il settore produttivo. Durante la prima metà del 2009, la produzione, l’industria, i servizi e l’agricoltura, sia nel settore privato che in quello pubblico, si trovavano in piena depressione. La vulnerabilità dell’America Latina a causa della crisi è il risultato diretto della struttura di produzione e delle strategie di sviluppo adottate nella regione. Seguendo il modello economico neo-liberale - che prese piede tra gli anni ’70 e gli anni ’90 - il profilo economico dell’America Latina è stato caratterizzato da un fragilissimo settore statale a causa della privatizzazione di tutti i settori chiave della produzione. La de-nazionalizzazione delle finanze strategiche, dei crediti, del commercio e dell’industria ha aumentato la vulnerabilità, così come la possibilità di profitti e la stessa proprietà in mano a pochi. Queste caratteristiche sono state esacerbate dal boom delle materie prime, tra il 2003 e il 2008. Il Governo sta optando per una strategia di esportazione che ha prodotto le condizioni per il crollo economico. La conseguenza è stata l’indebolimento dell’America Latina a causa delle decisioni prese dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, artefici del controllo dei settori chiave dell’economia. Le de-nazionalizzazioni tolgono allo Stato il peso politico per affrontare la crisi. I cambiamenti strutturali imposti dall’FMI, dalla Banca Mondiale e dai loro alleati neoliberali della classe dirigente hanno aperto i paesi al grande scoppio della crisi internazionale mentre venivano smantellate le istituzioni statali che avrebbero potuto proteggere l’economia o anche evitare gli effetti più dannosi. La privatizzazione porta alla concentrazione delle entrate, fa diminuire la domanda locale, fa aumentare la dipendenza dalle esportazioni e priva lo Stato del controllo sugli investimenti e sui risparmi che avrebbero potuto contrastare il declino degli afflussi di capitale e il collasso dei mercati stranieri. La de-nazionalizzazione favorisce la fuoriuscita di capitali specialmente nel settore finanziario, fa aggravare la crisi del credito e colpisce gravemente i bilanci. La proprietà straniera ha reso i paesi dell’America Latina soggetti alle strategie economiche portate avanti dalle élites finanziarie straniere, che considerano solo i costi e i profitti del loro impero economico. Ad esempio, in Brasile la chiusura dell’industria dell’auto statunitense e i licenziamenti di massa dei lavoratori si basano sui costi calcolati del “mercato globale”, concetto completamente lontano dalle necessità del mercato lavorativo brasiliano. La “strategia delle esportazioni” è dipesa dallo stato di sovvenzionamento dell’espansione dell’agro-business che ha sviluppato i prodotti principali per i mercati d’esportazione. Quanto avvenuto è andato a discapito dei piccoli coltivatori, dei contadini “senza terra” e dei lavoratori rurali, facendo diventare il mercato nazionale un’alternativa al collasso dei mercati esteri e aumentando la dipendenza dai cibi importati e mettendo a rischio la sicurezza alimentare. Le strategie di esportazione dipendono dal contenimento dei costi lavorativi e dei salari che di conseguenza indeboliscono la domanda nazionale e rendono l’occupazione dipendente dalla fluttuazione della domanda straniera. La produzione specializzata in una complessa divisione internazionale del lavoro è centrale nelle multinazionali. Questo aspetto ha drammaticamente ridotto la diversificazione nazionale dell’industria e della produzione: le componenti di un prodotto sono sviluppate all’interno di un’unica regione geografica. Con l’attuale divisione del lavoro, un produttore brasiliano di freni per auto è totalmente dipendente dalla domanda estera, determinata dall’MNC. Lo strategico svantaggio di questa “specializzazione” all’interno della catena produttiva capitalista globale è diventato assai evidente con questa crisi. Nonostante il profondo collasso strutturale, ereditato dalle amministrazioni precedenti, gli attuali governi di centro-sinistra dell’America Latina non stanno portando avanti nessun cambiamento strutturale per far decrescere la caduta delle loro economie, con la parziale eccezione del governo di Chávez, in Venezuela. Il consenso offerto ai governi della cosiddetta “terza via” ha riportato agli appelli anacronistici per un grande afflusso di capitali, ma non tiene in conto l’attuale crisi. Hanno chiesto aiuto agli Stati Uniti, all’Unione Europea e al Giappone per far risorgere i mercati e per promuovere il commercio. Il summit dei governi della “terza via” - svoltosi a Santiago, Cile, nel marzo del 2009 - ha richiesto l’aumento dei finanziamenti per l’Inter-American Developments Bank (IDB) e ha incoraggiato i leaders del G20 a stimolare pacchetti finanziari e ad impegnarsi contro il protezionismo. Questi leaders mondiali hanno invitato i governi latinoamericani a incrementare il consumo e la liquidità a bassi tassi di interesse e a proteggere le istituzioni finanziarie e le esportazioni. I governi di centro-sinistra che si sono incontrati a Santiago non hanno fatto riferimento a programmi per incrementare la domanda nazionale a causa di quanto sta accadendo nel mondo del lavoro, dagli ostacoli degli industriali ai licenziamenti dei lavoratori. Né, tanto meno, hanno fatto riferimento ad aumentare il salario minimo. Hanno eluso qualsiasi discussione sulla crescita della domanda nelle zone rurali a causa delle entrate generate dalle riforme agrarie. Non hanno considerato di stabilire, pubblicamente, un tipo di importazione finanziata dalla sostituzione dell’industrializzazione, che avrebbe potuto produrre occupazione per i lavoratori licenziati dal settore dell’esportazione. In questa fase di aumento vertiginoso dei prezzi, non è stato proposto nessun provvedimento per aiutare quelle famiglie che hanno delle entrate economiche davvero basse oppure i disoccupati, i bambini e i pensionati con basse entrate fisse. Le proposte dei governi di centro-sinistra hanno dimostrato la rigidità strutturale e la loro incapacità di rompere con le strategie fallimentari vincolate all’esportazione agro-mineraria della classe dirigente. Queste proposte riaffermano la loro dipendenza dal modello espansionistico dei governanti statunitensi ed europei. Le loro continue richieste per un “commercio libero” e gli appelli contro il protezionismo non vengono ascoltati. Mentre rifuggivano da qualunque cambiamento strutturale nazionale che avrebbe favorito i disoccupati, i contadini, i dipendenti pubblici e i piccoli commercianti, hanno continuato a perseguire le politiche più consone per i banchieri, per le esportazioni e per le multinazionali. Il punto centrale dell’economia, per i governi di centro-sinistra latinoamericani, non sono le riforme interne ma è la ricerca di nuovi mercati e investitori stranieri. Agli inizi di aprile, i leader latinoamericani e i loro partner in affari hanno incontrato le controparti arabe in Quatar per l’espansione degli investimenti e del commercio attraverso joint ventures. Missioni simili in Cina, Russia e Giappone hanno portato ad investimenti quasi esclusivamente all’industria estrattiva (petrolio e minerali) e hanno meccanizzato l’esportazione agricola. Il commercio interregionale via MERCOSUR è stato altamente sproporzionato; ne è un esempio il deficit commerciale argentino di 4 miliardi di dollari verso il Brasile. Il centro-sinistra è strutturalmente incapace di riconoscere che la crisi globale ha insidiato la “strategia d’esportazione”; le élites commerciali non possono superare le loro contraddizioni interne. La ricerca di nuovi mercati e investitori in Asia e nel Medio Oriente può comportare dei limiti di crescita alle esportazioni ma essi avranno pochi o nessun impatto sull’industria, sui servizi e sui settori associati che danno occupazione ai lavoratori. Inoltre i paesi asiatici e quelli mediorientali stanno vivendo una grave crisi del commercio (sia nel settore delle importazioni che in quello delle esportazioni) e della produzione, con tassi di disoccupazione alti. La Cina, ad esempio, sta sviluppando un importante programma basato sull’aumento della domanda interna. L’Asia può dare solo un piccolo aiuto ai paesi latinoamericani. Il paese assente dal summit di Santiago era il Venezuela, poiché il Presidente Chávez sta portando avanti una strategia economica alternativa per la crisi mondiale. La linea politica venezuelana comprende la nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia (come il petrolio e il gas che fanno crescere le entrate pubbliche), il sostegno ai settori sociali, produttivi e distributivi e l’espansione della riforma agraria per far aumentare la produzione alimentare locale. Il Governo Bolivariano sostiene un programma sui prezzi del cibo, ha aumentato il salario minimo del 20% per ammortizzare gli effetti dell’inflazione e della spesa pubblica sui progetti lavorativi infrastrutturali da cui sono derivati 280.000 posti di lavoro, tra gennaio e febbraio del 2009. Chávez sta portando avanti un programma keynesiano radicale: gli investimenti pubblici servono a far espandere il mercato nazionale e i sussidi sociali hanno l’obiettivo di colpire la povertà. La sua politica di investimenti statali conta sulla “cooperazione” dell’ancora dominante settore privato, specialmente quello finanziario, costruttivo, agro-minerario e produttivo, attraverso incentivi economici, contratti statali o con minacce di interventi o nazionalizzazioni. Le riforme strutturali che sta sviluppando Chávez sono complementari ai patti politici ed economici regionali, come il PETROCARIBE e l’ALBA, patti stipulati con la Bolivia, Cuba, Nicaragua, Ecuador e altri paesi caraibici e del Centro America. Può contare sugli incentivi economici e sugli accordi commerciali con la Cina, il Medio Oriente (soprattutto l’Iran) e la Russia, per quanto riguarda il petrolio e il settore produttivo. Mentre la strategia politica venezuelana rappresenta una rottura e un’alternativa alle élites commerciali del centro-sinistra, essa sta comunque vivendo una serie di contraddizioni. Il Venezuela dipende economicamente da un unico tipo di esportazione (il petrolio) per il 75 % dei suoi scambi esteri. Inoltre sta rapidamente esaurendo le risorse estere. I suoi sforzi per promuovere l’integrazione regionale non stanno avendo successo come prevedevano i principali paesi latinoamericani in vista del G20. Gli interventi statali e le nazionalizzazioni hanno aumentato il peso dello Stato sull’economia ma non hanno affrontato il problema della cattiva distribuzione delle entrate e delle proprietà. Di conseguenza, la protesta dei lavoratori del settore dell’educazione, della produzione e della distribuzione colpirebbe l’economia. Inoltre il tasso di inflazione al 30% ha inciso decisamente sul potere d’acquisto per coloro i quali ricevono entrate fisse o salari bassi, da poco aumentati attraverso l’introduzione del salario minimo. L’aumento dei prezzi degli alimenti (di oltre il 90% per quelli importati) ha danneggiato seriamente la bilancia dei pagamenti. Il futuro immediato potrebbe rappresentare una minaccia per la stabilità sociale del Venezuela.

7. L’America Latina e la grave crisi economica mondiale

La partecipazione di alcuni paesi latinoamericani al G20 di Londra - nell’aprile del 2009 - e gli accordi conseguenti rivelano la bancarotta politica delle attuali leadership mondiali. La dichiarazione di un programma di stimolo maggiore è stata smascherata dal fatto che molti dei fondi citati (1,1 trilioni di dollari) erano appena stati stanziati prima del meeting e non avevano avuto nessun effetto. L’attuale importo del “nuovo finanziamento” è solo una “parte” (250 miliardi di dollari), destinato in prevalenza al settore finanziario. Il solenne accordo del G20 da opporre alle leggi protezioniste è stato smentito da una relazione dell’OCSE in cui si dice che 17 di 20 paesi hanno da poco adottato misure protezionistiche per l’industria locale, limitando i finanziamenti stranieri. Il grande vincitore del G20 è stato senza dubbio l’FMI il quale ha promesso un aggiunta di 500 miliardi di dollari per provvedere ai crediti e alla finanza. Considerando il potere sull’FMI degli Stati Uniti e dell’Unione Europea e considerando la loro predilezione per i paesi imperialisti, il rafforzamento dell’FMI ha posto un ulteriore ostacolo per qualsiasi ripresa dei paesi latinoamericani. Le speranze di tutti i governi di centro-sinistra e di destra della regione su un sostegno significativo derivante dal G20 sono ben presto cadute. A sinistra, Fidel Castro e i suoi alleati latinoamericani vedono nella Cina un mercato alternativo e un partner negli investimenti. Eppure gli investimenti che la Cina fa all’estero sono quasi tutti diretti al settore dell’estrazione (minerali e petrolio) e, in misura minore, all’agricoltura. Di conseguenza, gli investimenti cinesi in America Latina hanno creato pochissimi posti di lavoro e hanno favorito quei settori che invece provocano danni. Il profilo delle esportazioni latinoamericane con la Cina si riduce alle monoculture, molto fluttuanti a causa dell’andamento altalenante dei prezzi. Inoltre, gli accordi commerciali tra Cina e America Latina includono l’importazione di prodotti cinesi, lo sfruttamento dei lavoratori, aspetti che fanno precipitare il settore produttivo della regione. I leader latinoamericani, che guardano alla Cina per uscire dalla depressione economica, sono impegnati in un programma neo-coloniale di aiuti basato sull’esportazione delle materie prime. Allo stesso modo, la svolta della Russia come nuovo mercato è un aspetto dubbioso, considerando che questo paese è dipendente economicamente dal petrolio e dal gas ed ha avuto nel 2009 un declino pari al 7%. I paesi latinoamericani cercano nuovi stimoli dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea o nuove alternative commerciali con la Cina e la Russia; ma questi sforzi sono disperati. L’idea portata avanti dal Brasile, per cui è dai paesi imperialisti che proviene la crisi e questi avrebbero dovuto trovare una soluzione, è impossibile, vista la loro incapacità a rafforzare le loro stesse economie. La promozione statunitense dell’FMI è diretta ad indebolire qualsiasi politica alternativa latinoamericana e qualsiasi governo indipendente.

8. Conclusioni

A causa degli investimenti nel settore militare e del rifinanziamento delle banche da parte del Governo Obama, la classe dominante latinoamericana non si può aspettare nessun programma di sostegno dagli Stati Uniti. La profonda divisione politica tra gli Stati Uniti e l’America Latina (e persino tra le classi all’interno della regione sud-americana), divergenze nazionali e strategie classiste precludono qualunque tipo di “strategia regionale”. Perfino tra i governi di sinistra, a parte il programma dell’ALBA, non esistono accordi regionali. Da questo punto di vista è un grave errore parlare di un problema “latinoamericano”. Attualmente, quello che possiamo osservare è un crollo generale delle esportazioni e delle importazioni e divergenti risposte sociali, tra le politiche economiche da proteggere in Venezuela e le politiche di sostegno all’esportazione del Brasile, dell’Argentina, del Cile, del Perú e della Colombia. Dall’inizio della recessione, questi governi di centro-sinistra hanno dimostrato un alto grado di rigidità strutturale, visto che non hanno fatto sforzi per far espandere e rafforzare il mercato locale e gli investimenti pubblici, nazionalizzando solo le istituzioni in bancarotta. La crisi ha messo in evidenza il processo di de-globalizzazione e la grande importanza dello Stato. La crisi economica ha danneggiato quasi tutti i governi, sia di centro-sinistra che di destra, e ha rafforzato chi si opponeva. In Argentina la destra e l’estrema destra hanno dominato le strade attraverso il potere crescente basato “sull’interno del paese”, tra l’élite agraria argentina e la classe media di Buenos Aires. Il sindacato progressista CTA - che ha organizzato proteste e scioperi - non è vicino a nessuna istituzione politica alternativa di sinistra. Il Brasile ha assistito a proteste simili partite dai movimenti sociali e dai sindacati contro l’aumento della disoccupazione al 10% e contro il declino delle esportazioni. Però chi beneficerà della perdita di popolarità di Lula sarà solo ed esclusivamente la destra. Al contrario, il centro sinistra sarà favorito in quei paesi in cui vi sono governi di destra, come il Messico, la Colombia e il Perú. Ma come nel caso precedente, i movimenti di massa mancano di una risposta politica al collasso del capitalismo. Inoltre, né Cuba né il Venezuela offrono un “modello” per il resto dell’America Latina. Il primo paese dipende da un tipo di turismo debole, mentre il secondo dalla politica economica. Considerando il crollo del capitalismo, questi paesi hanno bisogno di andare oltre le “riforme frammentarie” (come ad esempio i sussidi alimentari di Chávez) e le poche nazionalizzazioni, in previsione della socializzazione delle finanze, del commercio e della produzione. Le proteste di massa, gli scioperi generali e le altre forme di resistenza sociale hanno cominciato a manifestarsi in tutto il continente. Non ci sono dubbi che il Governo statunitense continui a supportare i movimenti di destra e i loro alleati di destra al potere. L’egemonia degli Stati Uniti sulle leadership dell’America Latina è ancora molto forte, perfino nelle organizzazioni di massa nelle società “civili”. TRADUZIONE DI VIOLETTA NOBILI

* Professore alla State University, New York e alla Saint Mary University di Halifax (Canada)