Il futuro viene da lontano
Paolo Graziano
La risposta delle democrazie partecipative al capitalismo globale
|
Stampa |
1. Piccoli equivoci senza importanza
Partiamo dalle insipienze di casa nostra, che sono sempre le più difficili e imbarazzanti a guardarsi. Sbattiamo la polvere dai nostri tappeti, che la sinistra italiana ha posato nel salotto ottocentesco e mai più sollevato all’aria buona delle nuove idee. O ancora, se preferite la metafora biblica, guardiamo la trave nell’occhio della nostra democrazia prima di questionare della pagliuzza che inceppa altri sistemi in pieno (e peraltro dichiarato) rodaggio.
Qualche tempo fa il segretario del Partito democratico, Pierluigi Bersani - carattere misurato e solitamente attento alle parole - ebbe a esclamare davanti ai microfoni dei giornalisti: «Non vorrei che dopo Berlusconi venisse fuori Chavez»1. Parlava dell’ennesima telefonata privata con cui un esponente del mondo economico che gode di un certo credito presso il governo, il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, spuntava al premier alcune correzioni alla manovra anticrisi. «Bisogna ripristinare i concetti basici della democrazia parlamentare - rincarava la dose il segretario del Pd - che non può andare avanti a colpi di fiducia, decreti e telefonate». E sul merito Bersani ha anche ragione. Peccato per il metodo che sceglie nella sua critica, paragonando l’imparagonabile e disponendo - a scopo didascalico - su una scala discendente l’attuale premier italiano e il presidente venezualeano Hugo Chavez, come a dire che per queste strade si scivola dalle altezze del liberalismo occidentale negli abissi dell’autoritarismo sudamericano, un aggettivo ormai insozzato dal ricordo di tante vere dittature eterodirette del passato, che hanno spadroneggiato nel subcontinente latino.
Bisognerebbe ammettere, con onestà intellettuale, che la deriva italiana ha una direzione tutta sua e non serve scomodare paragoni iperbolici per spiegarla; che il parlamento “democraticamente eletto” non garantisce la rappresentanza degli interessi della gente, specie se scaturisce da una legge elettorale in cui sono le segreterie di partito a scegliere i candidati effettivamente eleggibili; e, dunque, che la privatizzazione della politica e della rappresentanza ha trovato in Berlusconi solo il suo più efficace attuatore, non certo il suo inventore. Insomma, piccole beghe italiane, spese a discutere sul che cosa è colpa di chi, nell’impotenza assoluta di ipotizzare una formula alternativa al modello socio-economico che ha sprofondato il paese, insieme alla retroguardia del sistema capitalista internazionale, in una crisi inedita per vastità e violenza.
2. Cose dell’altro mondo
Proviamo, a partire da questo aneddoto casereccio, ad avanzare un’ipotesi più generale sulle nostre difficoltà a concepire alternative valide alla prospettiva aperta - e solo aperta, si badi - dalla crisi. Le secche ideologiche in cui si dibatte non solo la sinistra, ma il complesso delle istituzioni politico-economiche italiane e non solo, derivano soprattutto dall’incapacità di recepire la prospettiva (per non dire la praticabilità, che è cosa più complessa) di modelli di sviluppo che si vanno sperimentando con successo in alcune democrazie partecipative del continente latinoamericano, e di cui il Venezuela di Hugo Chavez è uno dei promotori più arditi. In molti casi si tratta di esperienze di sviluppo locale nel settore agricolo, manifatturiero, industriale o terziario che si consolidano in aree relativamente ristrette e ben caratterizzate, con l’obiettivo di realizzare un’economia vantaggiosa, solidale e rispettosa di tradizioni, saperi locali e ambiente.
Ora, ci sono due modi per considerare tali esperienze. Il primo, liquidatorio, le ritiene irrilevanti in un mondo globalizzato dove i numeri dell’economia sono prodotti dai grandi regimi finanziari o dalle attività delle aziende multinazionali; il secondo, più attento ai cambiamenti del presente e soprattutto non viziato da un punto di vista eurocentrico, si occupa delle economie locali sviluppate alle periferie dell’occidente come di una risposta alla spirale autodistruttiva in cui s’è infilato il sistema capitalista globalizzato, in cui gli effetti socio-economici della crisi e la necessità di uno sfruttamento sempre più brutale di uomini, risorse e ambiente sono le due facce della stessa medaglia. Perché, secondo questa prospettiva, l’empasse attuale non è provvisoria o congiunturale, bensì strutturale: la crisi sta demolendo gli stessi presupposti del capitalismo globalizzato, che si dibatte ormai da decenni nei conflitti tra aree geo-politiche in competizione per le risorse strategiche e per la riduzione del costo del lavoro.
La logica conseguenza di quest’analisi - nel deserto di proposte in cui vaga da tempo la sinistra europea, orfana dell’opzione rappresentata sino a vent’anni fa dai paesi del socialismo reale - è la ricerca di un’alternativa al sistema vigente che va delineandosi in tutt’altri contesti, periferici rispetto alla direzione percorsa dallo sviluppo capitalista degli ultimi due secoli. E non a caso: è proprio in queste macro-aree regionali, infatti, che il cosiddetto «capitalismo dell’accumulazione flessibile», ristrutturatosi in maniera selvaggia dopo gli anni della stagflazione (1973-75) succeduti allo shock petrolifero, dispiega le sue strategie più feroci. In debito perenne d’ossigeno, non ricavando più remunerazione sufficiente dalle produzioni fordiste tradizionali, il capitale si regola secondo due programmi d’azione principali: 1) lo spostamento d’investimenti dalla produzione alla speculazione finanziaria, che massimizza i profitti mentre demolisce ogni possibilità di redistribuzione della ricchezza prodotta, con ritorni deflagranti sul mercato del lavoro e sul benessere sociale; 2) lo sfruttamento neo-imperialista delle aree periferiche e in via di sviluppo (Africa, Asia, America Latina, Est europeo) come serbatoi di materie prime, risorse, manodopera a basso costo, su cui scaricare l’impatto delle produzioni fordiste tradizionali, tuttora necessarie al funzionamento del sistema capitalista ma troppo onerose - in termini di costi sociali e ambientali - per i paesi dell’occidente avanzato. Fuori da ogni retorica sulla “fine della storia”, infatti, l’analisi basata su presupposti marxisti di Luciano Vasapollo e di altri studiosi della ristrutturazione economica in corso, come James Petras e Henri Veltmeyer, sottolinea che «in qualche modo il postfordismo non è che il fordismo alla fine della sua crescita; è il fordismo del post-sviluppo, di un’epoca nella quale le promesse di un intenso, potentissimo ed illimitato sviluppo si sono rotte. Alla fine, tutte le caratteristiche tecniche del postfordismo - dalle più ovvie e ben conosciute (come il just in time e la lean production) alle più complesse (come la “fabbrica integrata” e la “fabbrica modulare”, che è un estremo esempio di risparmio di capitale effettuato facendolo pagare dal sub-appaltatore) -, tutte le misure che mirano ad una produttività crescente ed una riduzione dei costi provano a prendersi cura della stessa necessità: la riduzione dei costi in un’epoca nella quale la crescita è lenta, quando il lavoratore deve adattarsi a “quello che arriva”, essere mobile, accettare la precarietà per affrontare un mercato che non può essere pianificato perché imprevedibile ed incerto»2. La nuova fase della mondializzazione capitalista, dunque, si basa sulla divisione internazionale del lavoro in risposta alle nuove necessità dell’accumulazione; una divisione che - nella linea del colonialismo d’età moderna e dell’imperialismo otto-novecentesco - necessita del dominio di vaste aree del pianeta, oggi realizzato in varie modalità, che vanno dall’azione degli organismi economici internazionali fino all’uso del conflitto armato, travestito a seconda dei casi da operazione di peacekeeping, occupazione militare o guerra preventiva.
Di quale natura è la risposta a questa estrema ristrutturazione del capitalismo nelle regioni che più risentono dei suoi effetti? A questa domanda tenta di rispondere, con gli argomenti dell’analisi socio-economica e dell’elaborazione teorica dei risultati raccolti sul campo, un programma di ricerca sulle economie locali delle nascenti democrazie latinoamericane, che Luciano Vasapollo ha inaugurato con alcuni volumi collettivi pubblicati da Jaca Book e dalle Edizioni Natura Avventura: una proposta di riflessione che, mostrando gli effetti di modelli di crescita ad alta compatibilità sociale e ambientale, suggerisce anche alla sinistra italiana - quella degli equivoci ricorrenti e ripetuti - di riprendere la strada della ricerca di alternative vere al modello di sviluppo imperante.
3. Le strade dell’alternativa
Nella lunga ricerca di proposte attendibili, che possano aiutarci a sortire dalle gabbie in cui ci ha rinchiuso un capitalismo ormai asfittico, l’atteggiamento di Luciano Vasapollo e degli intellettuali con cui in questa fase lavora (Rita Martufi, Carlos Lazo Vento, Alfredo Jam Massó, Mayra Casas, Javier Cabrera, Joaquin Arriola e molti studiosi dell’area latinoamericana) prende le mosse da un gesto di igiene scientifica: partire dall’analisi di casi concreti, circoscrivibili, qualche volta persino apparentemente irrilevanti - per dimensioni e influenza - rispetto ai regimi dell’economia dominante. Una scelta concreta e antidogmatica, in un mondo in cui le ideologie economiche sono state sperimentate con equivalenti insuccessi da entrambi i lati della vecchia cortina di ferro. Ma, anche al di là di qualsiasi opzione pregiudiziale, la ricerca sulle economie locali dei paesi situati alla periferia del sistema s’ispira, nel caso di Luciano Vasapollo, a un principio etico e politico ancor prima che economico: studiare e divulgare quelle esperienze in cui l’attività economico-produttiva si traduce, attraverso la crescita, in un aumento effettivo del benessere dei lavoratori, del gruppo sociale a cui appartengono e dell’ambiente in cui l’attività si svolge. Si tratta di frammenti armonici di un nuovo modello di sviluppo emergente, soprattutto nei paesi vessati dagli effetti peggiori del liberismo, che è stato definito dello sviluppo socio-eco-sostenibile.
I riferimenti teorici di questo programma di ricerca stanno nel testo più antidogmatico del marxismo, quella Critica al programma di Gotha con cui lo stesso filosofo di Treviri prendeva di mira i “complessi d’inferiorità” del fronte socialista, che ha agito, in URSS e nelle cosiddette democrazie popolari, sussumendo le logiche del capitalismo nella produzione, nella distribuzione del reddito, nell’instaurazione di una relazione distorta con l’ambiente e nell’organizzazione di una società subordinata alla tirannia del lavoro salariato. Proprio in quel documento, Marx individuava poi la portata epocale di un tema oggi profondamente attuale, come quello del conflitto tra produzione e ambiente che neanche la transizione al socialismo riesce a risolvere. La natura come fonte di tutte le ricchezze è, infatti, concretamente in pericolo sin dall’instaurazione,nelle società industriali, del “principio di proprietà”, che reifica l’ambiente e le sue risorse subordinandolo alle esigenze della produzione sviluppista.
Alla ricerca di una potenziale alternativa a questo meccanismo, che si è esteso come un contagio dal fronte capitalista all’encalve socialista dissolta con la caduta del muro di Berlino, Vasapollo propone i casi di sviluppo locale in paesi che, saldando tradizione e cultura dell’innovazione, stanno costruendo percorsi di sviluppo che hanno una ricaduta positiva sull’ambiente, le condizioni e le relazioni sociali. Nei volumi collettivi L’acqua scarseggia... ma la papera galleggia3 e L’ambiente capitale4 tali esperienze sono rintracciate nelle aree e nei settori produttivi dell’economia di Cuba, dove si sperimenta da ormai cinquant’anni una lunga transizione al socialismo caratterizzata dalla scelta di elaborare una nuova modalità di relazione con le risorse naturali e umane della produzione. Nel collettaneo dal titolo Allerta che cammina...5, lo sguardo si allarga ad altri paesi dell’America Latina, come Bolivia, Venezuela, Brasile, Uruguay, Ecuador dove si sviluppano con dimensione locale esperienze comparabili. Ed è un passaggio importante, poiché Vasapollo e gli altri autori coinvolti nel progetto individuano un’ispirazione comune di rinnovamento anche in quei contesti politico-economici in cui non è stato esplicitamente avviato un programma di trasformazione della società in senso socialista. È così, infatti, che si scoprono le strade inedite percorse dal rinnovamento e dalla reazione al capitalismo, al di là degli schemi e delle etichette che sono tanto care alla sinistra europea. Una scoperta che è declinata in tutte le sue implicazioni nel più recente volume ascrivibile a questo percorso: Futuro indigeno. La sfida delle Americhe6, in cui gli autori raccontano le culture locali sopravvissute a secoli di colonialismo, capitalismo eterodiretto e persino rivoluzioni spurie; culture con cui i popoli originari di Bolivia, Ecuador, Venezuela ristabiliscono gli equilibri sociali e ambientali sconvolti dalla maschera più brutale dello sviluppismo: «In America Latina già dal 7000 a.C. vi erano popolazioni che diedero origine a civiltà culturalmente e socialmente molto avanzate. [...] - scrivono i curatori nella prefazione - Era tenuto in grande conto il territorio e il lavoro collettivo; si trattava cioè di un organizzato meccanismo di produzione nel quale i fini sociali erano al primo posto. L’arrivo dei conquistatori distrusse questa civiltà senza però sostituirla con una di altrettanta capacità economica e distributiva»7.
4. Riportando tutto a casa
Ora, torniamo a Bersani, Chavez e Berlusconi, provando a spiegare perché il primo - il segretario del confuso e sempre più moderato Pd - non ha buon fiuto nel paragonare il secondo al terzo. La risposta del governo italiano alla crisi è tutta interna alle compatibilità del neo-liberismo imperante e risponde alla crisi allargando la forbice tra i redditi, tra le classi, tra le aree più o meno sviluppate del paese. Il programma federalista, ad esempio, è deputato a razionalizzare le risorse e a investirle nella giusta direzione, che è quella che porta alle popoli e ai distretti settentrionali anche le ricchezze del Sud, spoliato in oltre un secolo di dominazione interna.
La lezione che viene dai paesi democaritici del Sud America, in particolare dal triangolo rivoluzionario Cuba-Venezuela-Bolivia, invece, suggerisce uno sviluppo costruito sulla base delle risorse e delle vocazioni locali, e soprattutto orientato a restituire in termini di benessere e condivisione delle ricchezze l’uso del territorio e della forza lavoro. Nelle culture contadine del meridione d’Italia, cancellate o ibernate dall’importazione del modello industrial-capitalista a partire dal processo unitario, esistevano gli stessi anticorpi allo sviluppismo delle disuguaglianze che sono attivi, oggi, in molti processi democratici di cambiamento operanti nell’America Latina. E possono essere recuperati e messi in circolo, al fine di isolare e debellare il cancro rappresentato da un modello in cui si producono copiosamente, ormai, soltanto ingiustizia e sperequazione.
* Insegnante, giornalista, ricercatore dell’Osservatorio Meridionale di Cestes Proteo.
1 Bersani: «Non vorrei che dopo Berlusconi arrivasse un Chavez», Rai News 24, 06/07/2010, www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=142756.
2 L. Vasapollo - M. Casadio - J. Petras - H. Veltmeyer, Competizione globale. Imperialismi e movimenti di resistenza, Jaca Book, Milano 2004, p. 57.
3 L. Vasapollo (a cura di), L’acqua scarseggia... ma la papera galleggia. Per una critica della politica economica dominante, Jaca Book, Milano 2006.
4 L. Vasapollo - R. Martufi (a cura di), L’ambiente capitale. Alternative alla globalizzazione contro natura: Cuba investe sull’umanità, Natura Avventura Edizioni, Roma 2008.
5 L. Vasapollo - C. Lazo Vento, Allerta che cammina... Educazione e percorsi alternativi di economia locasle in America Latina per lo sviluppo socio-eco-sostenibile, Natura Avventura Edizioni, Roma 2009.
6 R. Martufi - L.Vasapollo (a cura di), Futuro indigeno. La sfida delle Americhe, Jaca Book, Milano 2009.
7 Ivi, p. 11.