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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

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Analisi statistico-economica dei mutamenti strutturali e localizzativi dello sviluppo del sistema socio-economico italiano

Luciano Vasapollo

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3. Un’analisi statistico-economica per l’individuazione delle nuove modalità socio-localizzative dello sviluppo economico in Italia [1]

Una diversa lettura delle modalità dello sviluppo

Come si è visto precedentemente, negli ultimi decenni lo sviluppo e la differenziazione delle attività economiche ha prodotto profonde modificazioni nei modelli produttivi e sociali e nelle decisioni localizzative che hanno riguardato l’intera organizzazione economico-sociale e politico-istituzionale.

Da ciò è derivato un significativo filone di studi e ricerche che, accanto alle dinamiche temporali, ha posto l’accento pure sull’organizzazione sociale e del lavoro e sulla diversificazione soggettuale e spaziale delle attività produttive, per poter cogliere meglio le similitudini e le diseguaglianze quantitative e qualitative connesse con le modalità dello sviluppo socio-economico complessivo. I modelli elaborati ed adottati per analizzare le modalità dello sviluppo economico del nostro Paese, articolato socialmente e territorialmente, hanno presentato nel corso degli anni profonde modificazioni e innovazioni concettuali e metodologiche.

Come si è evidenziato in precedenza i primi modelli, introdotti negli anni ’60, hanno fornito dello sviluppo del nostro sistema economico una chiave interpretativa basata sul modello dicotomico Nord-Sud, incentrato sull’attività del settore industria. A partire dalla seconda metà degli anni ’60 tale modello interpretativo non è apparso più sufficientemente adatto per spiegare le modificazioni degli insediamenti produttivi e delle trasformazioni del modello di sviluppo e con le conseguenti ridefinizioni del tessuto sociale che si venivano registrando nel Paese. Si sviluppano nuove analisi a carattere socio-localizzativo delle attività economiche che con il modello definito delle “Tre Italie” fanno intravedere nuove modalità di lettura delle dinamiche economiche tentando di valorizzare i diversi localismi dello sviluppo, ma secondo noi anche ad evidenziare processi di scomposizione dell’unità di classe che aveva trovato nella fabbrica del Nord il suo più alto livello di aggregazione.

Si giunge così alle più recenti ricerche caratterizzate dalla costruzione di modelli volti, da un lato, ad evidenziare le peculiarità e il localismo dei distretti industriali e, dall’altro, a raccordarli nell’ambito di una crescita complessiva caratterizzata dal preminente ruolo svolto dal settore terziario, ufficiale e atipico o sommerso, che modifica le soggettualità del lavoro, che crea nuovi soggetti produttivi, nuove figure sociali anche e soprattutto marginali, modificando nel contempo le identità produttive e quelle non più aggregate esclusivamente in fabbrica, ma che si frantumano nel territorio, trasformando così la stessa identità e composizione di classe dei lavoratori.

Un momento di rottura con tale impostazione è sicuramente fornita dalle analisi localizzative che utilizzano partizioni funzionali del territorio, cioè unità territoriali che permettono di individuare e studiare i profili produttivi locali e le connesse dinamiche di socializzazione comportamentale da parte dei soggetti economici che nel territorio trovano una loro più definita collocazione non più configurabile solo all’interno della fabbrica. Così si supera la logica interpretativa industrialista ed “operaista” per passare ad una gerarchizzazione dei modelli dello sviluppo basata principalmente sulle modalità di trasformazione sociale ed economica indotte dal settore effettivamente responsabile delle trasformazioni in atto e dai soggetti produttivi, che a causa di tali trasformazioni, si vengono a formare dentro e fuori dalle garanzie e diritti del lavoro subordinato, autonomo o configurando nuove soggettualità non garantite dal modello di sviluppo che si va configurando.

L’esigenza di una approfondita analisi di natura territoriale nasce dalla constatazione che lo sviluppo socio-economico del Paese è stato caratterizzato da una specifica dinamica spaziale condizionata dai processi di ristrutturazione e di collocazione internazionale del capitalismo italiano nell’era della globalizzazione. L’aspetto territoriale assume un ruolo sempre più determinante con il passaggio da una produzione di massa, concentrata, ad una di tipo flessibile e diffusa basata nel contempo sulla mobilità, flessibilità e precarizzazione della forza lavoro.

Il modello del capitalismo italiano assume come risorsa principale ancora soprattutto le nuove forme del distretto industriale ed è caratterizzato da: specializzazione delle strutture e della forza lavoro all’interno di reti di imprese in continua trasformazione, con multilocalizzazione delle attività in presenza di strutture dinamiche e continuamente mutevoli, ma al contempo si realizza un massiccio ricorso alla flessibilità salariale, all’intensificazione dei ritmi, all’elevata divisione del lavoro che spinge alla precarizzazione e alla diffusione della negazione dei diritti sindacali. Si giunge così alla determinazione di nuove soggettualità locali del lavoro, spesso ai margini del sistema produttivo ufficiale, che svolgono attività sottopagate, lavoro nero che pur di aver garantito un minimo reddito sono costrette ad accettare condizioni qualitative di lavoro tipiche dell’inizio del secolo.

Nel nuovo modello di sviluppo italiano il capitale sceglie di distribuirsi e collocarsi in chiave tecnica andandosi a concentrare nelle aree industriali, con lo scopo di modernizzare gli impianti esistenti, incrementando la produttività del lavoro da destinare quasi esclusivamente a profitto. La strada della speculazione non produttiva, invece, trova collocazione attraverso la specificazione di un capitale finanziario che va a concentrarsi nelle aree a sviluppo consolidato, avendo lo scopo di ridurre rischi e incertezza, con la conseguenza di ulteriormente penalizzare le aree arretrate e di distogliere capitale agli investimenti produttivi rincorrendo il facile guadagno finanziario. Il risultato più immediato è l’aumento della disoccupazione che si va trasformando in strutturale, incrementando la schiera dei disoccupati “invisibili”, non ufficiali, precarizzando la qualità della vita di chi con tale sistema non riesce ad emergere ed arricchirsi.

A tale scopo viene utilizzata l’industria tradizionale (produzione standardizzata) nelle aree periferiche a basso costo del lavoro e bassa conflittualità, innalzando i livelli di precarietà sociale; l’industria innovativa (produzioni creative) nelle aree centrali con mercato del lavoro altamente specializzato andando a determinare una sorta di aristocrazia operaia e rendendo marginali ed emarginati gli altri soggetti economici del lavoro; si pensi ai lavori del pubblico impiego, agli artigiani, ai piccoli commercianti, ai lavoratori precari, ai sottoccupati, alle sempre più folte masse di disoccupazione palese o più meno occulta, fino a giungere alle aree sempre più fitte di espulsione e completa emarginazione produttiva, reddituale e sociale.

In tale schema macroeconomico cambia la considerazione dell’impresa non più da individuare come aggregato indistinto, ma piuttosto in funzione del grado di flessibilità imposta al lavoro, finalizzato all’interazione con le altre imprese in modo da realizzare aggregazioni territoriali che caratterizzano il nuovo modello di sviluppo, ma che nel contempo suggeriscono un approfondimento a livello sociale più disaggregato, soffermando in particolare l’attenzione sulle nuove soggettualità sociali del lavoro e del lavoro negato, che hanno rappresentazioni territoriali caratterizzate soprattutto dalla presenza di piccole e medie imprese che ridefiniscono gli assetti di ristrutturazione e ridefinizione sociale e, sul sociale, del capitalismo.

È in tale chiave che va letta la grande importanza che viene attribuita al nuovo concetto di distretto industriale, il quale ha una forte specificità, una propria dimensione socio-economico e territoriale, definita in funzione delle relazioni di coercizione comportamentale complessiva che si instaurano tra imprese e comunità locale e una specifica forzata capacità autocontenitiva in relazione a domanda e offerta di lavoro realizzata tramite marginalizzazione, precarizzazione ed espulsione dei soggetti economici e produttivi non compatibili. Sempre secondo tale interpretazione socio-economica vanno analizzate le trasformazioni tecnologico-produttive che caratterizzano alcune realtà territoriali, determinando la crescita d’importanza di sistemi reticolari, i quali si configurano come reti territoriali che si formano intorno a grandi imprese con forti connotazioni locali e reti risultanti dalla deverticalizzazione congiunta di grandi imprese produttive in ambiti locali e con forti connotati a specializzazione produttiva locale.

Lo studio sulla geografia e sulle modalità sociali dello sviluppo che di seguito si presenta vuol costituire un punto di riferimento di questo nuovo tipo di impostazione. Si utilizzeranno tecniche statistiche di cluster analysis applicate alla struttura occupazionale (su dati ISTAT del Censimento dell’Industria e dei Servizi) relativa alle attività economiche definite da un modello esapartizionale [2], realizzando l’aggregazione per profili economici simili dei 291 bacini occupazionali ISRIL in cui è stato diviso il territorio italiano.

I risultati ottenuti permettono di leggere le linee di tendenza e i mutamenti nella struttura geografica e sociale dello sviluppo economico del Paese, registrate tra i due ultimi Censimento del 1981 e del 1991 e che stanno identificando i processi di trasformazione di questi anni ’90.

Siamo infatti convinti che il lavoro di seguito presentato cerca di indagare l’attuale modello di sviluppo a partire da presupposti statistico-economici, in modo da identificare i singoli sistemi locali ed i contesti territoriali intermedi che li compongono, formulando però nel contempo delle ipotesi socio-politiche riguardanti le linee di tendenza che hanno determinato i cambiamenti del tessuto produttivo italiano e nella composizione di classe.

Come si è scritto in precedenza per realizzare questo studio, i dati comunali sugli occupati sono stati successivamente aggregati in riferimento ai “bacini occupazionali” individuati dall’ISRIL. [3] Si è partiti cioè dal presupposto che il processo di sviluppo socio-economico che interessa il nostro Paese non è spiegabile semplicemente nella dicotomia Nord-Sud, ma da una molteplicità di “localismi” fra loro spesso assai diversi nelle singole specificità ma riportati ad unità ed omogeneità dal fatto che sono distribuiti in tutto il territorio nazionale in maniera da evidenziare dei profili economici similari tali da formare delle “Zone Economiche Omogenee”. Anche in considerazione di ciò si è sostituito al criterio tradizionale di ripartizione territoriale basata su centri amministrativi (comuni,, provincie, regioni) quello della partizione economica del territorio italiano in 291 bacini occupazionali o “sezioni circoscrizionali del lavoro”, cioè i cosiddetti “mercati locali del lavoro ISRIL”.

In Appendice sono riportati i 291 bacini, che possono poi essere visualizzati da un punto di vista geografico-territoriale nella Fig.1; tali bacini saranno quindi utilizzati, come aree economiche di riferimento.

I risultati ottenuti dalla ricerca appaiono di notevole rilievo nella descrizione quantitativa ma anche del carattere qualitativo dei mutamenti strutturali che il nostro sistema economico ha registrato, giacché l’analisi è stata effettuata a livello dei 291 bacini in cui è stato suddiviso il nostro territorio, e aggregati, attraverso clusterizzazione, in Zone Economiche Omogenee. In tal modo analizzando le relazioni tra bacino e Zona di appartenenza si può leggere con immediatezza l’evoluzione del profilo produttivo e socio-economico di ogni singolo bacino e, per aggregazione, delle varie regioni e dell’intero Paese.

Profili economici dei bacini occupazionali

Vocazione e poli

Obiettivo iniziale del lavoro è quello di individuare tra i diversi bacini la propensione più o meno accentuata nei confronti di una o più delle sei attività economiche che si è deciso di distinguere. [4]

A tal fine utilizzando i dati definitivi del Censimento generale del 1981 e i dati del Censimento generale del 1991 si sono calcolati per ciascun bacino occupazionale gli indici di dotazione per ognuna delle quattro attività economiche considerate e i corrispondenti indici di vocazione, i quali, laddove sono risultati maggiori di 1, hanno evidenziato una specifica vocazione del bacino ad una data attività economica oggetto d’analisi [5]. Tra i bacini, poi, a vocazione specifica sono stati individuati i “bacini-polo”, cioè quei bacini che presentano indici di dotazione molto più alti di quello medio nazionale, ovvero quelli il cui indice di dotazione nell’attività economica considerata sia risultato uguale o maggiore al valore risultante dalla somma della dotazione media nazionale e del relativo scarto quadratico medio.

Nella seguente Tav. 1 sono riportati gli indici di dotazione medi nazionali per le sei attività considerate, i relativi scarti quadratici medi, in modo da poter determinare la dotazione minima richiesta al bacino per poterlo considerare “polo”.

Pertanto nel testo tra i bacini a vocazione in una determinata attività economica si distingueranno quelli a vocazione semplice e i cosiddetti bacini polo.

Vocazione e poli nelle attività agricole

Nelle Figg.2 e 3 sono visualizzati i bacini con vocazione all’agricoltura, evidenziando

per primi i bacini-polo e successivamente gli altri bacini a semplice vocazione specifica, aventi cioè indice di vocazione in agricoltura maggiore di 1, che però non assumono la qualifica di polo. Si rileva con immediatezza che fra gli ultimi due censimenti non si sono registrati sostanziali mutamenti nella dotazione agricola; i poli agricoli rimangono concentrati prevalentemente nel Mezzogiorno, nelle colline dell’astigiano, nel cuneese, nella bassa padana ed in parte nelle zone alpine dell’Alto Adige. In particolare in quest’ultima area e in Sardegna si nota un sensibile aumento dei poli, una diminuzione, invece, si osserva in alcune aree del Sud del Paese, come in Campania, in Basilicata, in Puglia.

Gli altri bacini che, pure avendo vocazione specifica all’agricoltura, non assumono però la configurazione di polo, rimangono concentrati, nelle aree suddette e prevalentemente nel Centro-Italia. Le aree a sottodotazione agricola rimangono quelle dell’alta padana, delle prealpi, di molte zone costiere e nelle aree gravitazionali dei maggiori centri urbani.

Vocazione e poli nelle attività industriali

Come appare visualizzato nelle successive Figg. 4 e 5 non ci sono particolari mutamenti nella geografia dei bacini a vocazione industriale. Infatti, tranne rare eccezioni (Fermo, Fabriano, Giulianova, Prato, Empoli, Pontedera), i poli industriali rimangono tutti concentrati nell’Italia del Nord. Nel loro complesso i bacini a vocazione industriale continuano, nei due anni del decennio considerati, ad avere quella forma geografica contigua ad “imbuto” o a Y, che ingloba gran parte dell’Italia Settentrionale arrivando ad interessare la Toscana, le Marche, l’Umbria fino ad alcuni bacini costieri dell’Abruzzo e che si sotituisce all’antico triangolo industriale Milano - Torino - Genova.

Una netta sottodotazione industriale riguarda l’intera Italia meridionale ed insulare, parte dell’Italia centrale, i bacini della Liguria e delle zone alpine dell’Alto Adige. Tuttavia si rileva la nascita di alcuni bacini a vocazione industriale nel litorale abruzzese (ad es. Chieti, Vasto, Lanciano) e la scomparsa di importanti bacini come quelli di Latina, di Cassino; al Nord scompaiono quelli ad esempio di Aosta, Cuneo, ed altri in Lombardia. Sempre nel Nord-Italia si assiste alla trasformazione di varie aree da poli industriali a bacini a semplice vocazione (come ad es. Novara, Varese, Vigevano, e lo stesso bacino di Milano).

Vocazione e poli nelle attività terziarie

È la vocazione del complesso delle attività del terziario che mostra, tra gli ultimi due censimenti, una chiara tendenza alla crescita nel numero dei bacini interessati, dovuta in particolare al forte incremento dei bacini-polo nell’attività dei servizi per le famiglie (che passano da 17 a 33) e ad un aumento dei poli nei servizi di rete (da 19 a 22).

Più specificatamente per la vocazione nelle attività di servizi per le famiglie, che hanno come destinatari esclusivi le famiglie o le singole persone (commercio al minuto, pubblici esercizi e alberghi, servizi di istruzione, sanità e assistenza e i vari servizi alla persona come quelli ricreativi, culturali ecc.), che per la loro caratteristica si diffondono in maniera capillare in rapporto alla concentrazione della popolazione residente, viene confermata (si vedano le Figg. 6 e 7) la localizzazione che riguarda soprattutto le aree ad alta attrazione turistica (bacini montani della Val d’Aosta, della Lombardia, del Trentino Alto Adige e del Veneto; le zone costiere dell’alto Tirreno, dell’alto Adriatico e alcune località turistiche della Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna). Evidenziano una vocazione in tali attività di terziario anche molte aree metropolitane (come Roma, Milano, Firenze, Venezia) che mostrano, oltre a una caratterizzazione di tipo turistico, anche una specializzazione di un terziario orientato al commercio e ai servizi sociali. Inoltre si nota, tranne rare eccezioni, una evidente sottodotazione in tutto il Mezzogiorno, maggiormente accentuata negli anni ‘90 con la scomparsa di alcuni importanti bacini che nel 1981 evidenziavano la vocazione in tale ambito del terziario. Questo spiccato dualismo fra la vocazione del Centro-Nord e quella del Sud è confermato dalla localizzazione dei poli, che nelle aree meridionali ed insulari sono presenti solo in particolari bacini turistici (ad es. Olbia, Taormina, le isole Tremiti). Il forte incremento di bacini-polo continua nel decennio ad interessare le aree alpine, la Liguria, la bassa padana e la Toscana.

Nei servizi a destinazione collettiva vengono incluse tutte le attività della pubblica amministrazione centrale e locale che realizzano produzione di servizi non destinabili alla vendita erogati indistintamente all’intera collettività, ad esclusione di quelli dell’istruzione, della sanità e dell’assistenza sociale classificati nei servizi alle famiglie. Si tratta in sostanza dei servizi riguardanti l’attività degli organi costituzionali, l’amministrazione statale, centrale e periferica, l’amministrazione degli enti locali, la nettezza urbana nonché i servizi collettivi relativi alla giustizia, alla sicurezza e difesa nazionale, alla sicurezza sociale obbligatoria. Data la loro natura, tali servizi hanno motivazioni localizzative molto peculiari, che trascendono la logica di mercato. Pertanto la loro dotazione interessa maggiormente i centri urbani, in cui più spiccate sono le attività amministrative di coordinamento e controllo. Dall’analisi della mappa geografica (vedi Figg. 8 e 9) della vocazione di tali tipi di servizi risulta tuttavia una accentuazione in particolari aree del Paese, dove non si riscontra una forte concentrazione di popolazione residente. La più o meno ampia diffusione dei servizi a destinazione collettiva interessa in maniera più accentuata le zone del Centro-Sud del Paese. In tali aree intensa appare anche la presenza di bacini-polo e si conferma la sostanziale stazionarietà geografica e quantitativa, anche se alcuni bacini perdono la caratteristica di polo che avevano ad inizio degli anni ‘80 (come ad es. Venezia, Lucca, Ascoli Piceno, Salerno, Foggia), per assumerla, negli anni ’90, altri bacini come Imperia, Firenze, Perugia, Agrigento, Cagliari ed altri.

La distribuzione degli addetti nella tipologia dei servizi di rete (che sono quelli indirizzati sia al consumo intermedio delle imprese sia al consumo finale delle famiglie, al fine di realizzare l’interconnessione fisica e funzionale di tutti gli operatori economici), mostra nel decennio una pressoché invariata distribuzione geografica della vocazione territoriale. Infatti, come si può osservare dalle Figg. 10 e 11, i bacini con indice di dotazione maggiore della media nazionale in tale tipo di attività terziarie rimangono localizzati prevalentemente al Centro-Nord, interessando località che possono definirsi veri e propri snodi comunicazionali, importanti aree urbano-metropolitane e bacini ad alta concentrazione di imprese. Si tratta comunque sempre di centri in grado di servire e diffondere nelle zone circostanti attività di trasporto e di comunicazione, servizi finanziari, di credito e assicurativi. Si evidenziano ad esempio i bacini di Aosta, Bolzano, Torino, Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Pisa, Roma, Pescara ecc. Anche per questo tipo di attività di servizi si conferma nel Mezzogiorno una forte sottodotazione, con la presenza negli anni ‘90 dei soli bacini a vocazione semplice di Reggio Calabria, Messina, Sassari e Cagliari e dei due poli di Olbia e Pescara. Gli altri bacini-polo di rete, che sono passati a 22 rispetto ai 19 del 1981, rimangono dislocati al Centro-Nord.

Per i bacini a vocazione nei servizi al sistema produttivo, cioè quelle attività terziarie che si indirizzano esclusivamente all’operatore imprese (si tratta ad es. del commercio all’ingrosso, noleggio, servizi vari alle imprese come ricerca, sviluppo, pubblicità, informatica, consulenze contabili, fiscali, legali ecc.), e che quindi si concentrano maggiormente dove è alta la densità di unità locali produttive, non si evidenziano sostanziali mutamenti nella loro distribuzione geografica, come si può notare nelle Figg. 12 e 13. Trattandosi di servizi che per loro natura più strettamente si collegano alle altre attività economiche, in particolare a quelle industriali e terziarie, è naturale che realizzino localizzazioni di bacini con indice di dotazione maggiore della media nazionale quasi esclusivamente nel Centro-Nord, con l’eccezione nel 1981 di Pescara (bacino-polo), Bari, Olbia, Cagliari, Lentini, Catania; mentre i dati riferiti agli anni ’90 rimangono nel Mezzogiorno i soli bacini a vocazione semplice di Pescara, Bari e Cagliari. I poli nei servizi al sistema produttivo passano da 18 a 19, interessando le più importanti aree industriali-terziarie del Nord.


[1] Cfr. Vasapollo L. (1995a) e Vasapollo L. (1997).

[2] Si veda in proposito Erba e Martini (1988), i quali superando il modello “tripartizionale” classico propongono una classificazione esapartizionale, che oltre all’agricoltura (AGR) e all’industria (IND) prevede una suddivisione delle attività di servizio in quattro funzioni: 1) servizi per il sistema produttivo (SSPR); 2) servizi per le famiglie (SFAM); 3) servizi di rete (SRET); 4) servizi a destinazione collettiva (SDCL).

[3] Tale ripartizione territoriale è stata proposta da A.Erba, R. Guarini, S. Guarini, S.Menichini, A.Rizzi, si veda ISRIL: (1982); in questo lavoro si fa riferimento a tale ripartizione nel territorio per permettere di evidenziare le linee di tendenza derivanti dal confronto fra i dati degli ultimi due censimenti.

[4] A tal riguardo si veda: Martini M. , (1988).

[5] L’indice di dotazione è stato determinato attraverso:

“IDi(r) = (Li r / Pr), il quale fornisce l’incidenza degli occupati nell’attività i.ma del territorio r.mo rispetto alla popolazione presente in questo territorio; l’indice di vocazione territoriale è dato da:

I Vi (r) = (Lir/ Pr) : (Li / P) che misura il rapporto fra incidenza degli occupati nell’attività i.ma rispetto alla popolazione del territorio r.mo e quella omologa riferita al paese”; Cfr. Alvaro G.(1995) pp. 53 e 54.

Per l’attività dell’agricoltura, non essendo disponibili i dati degli occupati relativi alle unità produttive presenti nei singoli comuni, si è proceduto alla comparazione fra i dati del 1981 e quelli del 1991, raggiungendo uniformità ad alto livello di approssimazione, con la seguente modalità di calcolo:

Occ.Agr.Comune=

(N° giorn.lav.Com./ N°giorn.lav.Agr.Regione)* Occ.Agr.Reg.