Le tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Quarta parte: Le dinamiche evolutive dei processi di internazionalizzazione
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1. Caratteri ed alcuni dati macroeconomici della competizione globale
Come si è approfondito nelle precedenti puntate di questa analisi-inchiesta,
negli anni che vanno dal secondo dopoguerra ad oggi si sono avute due fasi fondamentali;
la prima che si è protratta fino all’inizio degli anni ‘70 è stata caratterizzata
da tassi di occupazione e crescita del prodotto abbastanza alti e stabili; la
seconda che arriva fino a questi ultimi anni si distingue per una crescita del
prodotto molto più ridotta e per una diminuzione dell’occupazione.
L’economia internazionale ha subito in questi ultimi anni gli
effetti della grave crisi finanziaria dell’Asia sudorientale; l’oscillazione
del mercato dei cambi cominciata con la svalutazione della moneta tailandese
si è diffusa rapidamente alle Filippine, alla Malesia e all’Indonesia provocando
svalutazioni, crolli di borse locali e fallimenti bancari. Questa crisi ha messo
in evidenza le gravi lacune esistenti di quelle economie: l’eccessiva disponibilità
di lavoro e di capitale, i disavanzi nei conti con l’estero e con settori finanziari
fragili, la vulnerabilità del settore finanziario.
La crisi dell’Unione Sovietica, la disgregazione dal 1989 al
1991 dell’Europa dell’est hanno determinato la crisi del bipolarismo e rafforzato
la posizione anche commerciale e di internazionalizzazione produttiva degli
Stati Uniti, facendo però allo stesso modo evidenziare il maggior peso nei processi
di competizione globale dell’Europa, in tendenza come polo capace di ostacolare
lo strapotere nordamericano.
E’ chiaro che al momento gli USA traggono vantaggio da questa
situazione ed anzi si preoccupano di mantenere in ogni modo questo predominio;
il timore è di competere con l’Europa unita e con il Giappone.
Proprio per mantenere ed anzi rafforzare il predominio sugli
altri paesi, gli USA hanno portato avanti il progetto del trattato del libero
scambio dell’America del Nord (NAFTA) con cui togliendo i dazi doganali dei
paesi aderenti vengono integrati i diversi settori industriali ed agricoli.
Questo trattato però registra una mancanza di una vera consultazione pluralistica
sul negoziato eventuale del trattato commerciale con gli USA e il Canada; inoltre
vi sono considerevoli svantaggi commerciali e produttivi per il Messico in quanto
lascia fuori dal negoziato la mobilità della manodopera, aumenta il controllo
degli USA sul mercato agricolo del Messico e subordina al controllo straniero
i servizi nazionali finanziari e quelli degli autotrasportatori.
In sostanza quindi il NAFTA ha dei limiti notevoli e non è
sicuramente utile per una crescita effettiva dei paesi dell’America Latina.
Si rileva, infatti, la posizione di svantaggio dei paesi dell’America Latina
che a causa delle politiche monetariste, le privatizzazioni delle imprese statali,
l’eliminazione dei dazi e le politiche e gli accordi antiflazionistici, hanno
registrato un impoverimento di settori sempre più ampi di popolazione. In questi
paesi si è avuta una drastica diminuzione dei salari reali, la perdita di molti
posti di lavoro e un accentuamento della crisi agricola. Essi hanno, invece,
la necessità di vedere ridotto o annullato completamente il debito pubblico,
riorganizzare in loro favore le decisioni degli organismi finanziari internazionali,
quali la Banca Mondiale, la Banca Panamericana di Sviluppo e il Fondo Monetario
Internazionale per eliminare i condizionamenti e le politiche di “nuovo colonialismo”
imposto proprio attraverso le politiche di questi organismi; è inoltre necessario
regolamentare e controllare il capitale straniero e stabilire regole per la
conservazione dell’ambiente, per il reinvestimento, le tassazioni e i trasferimenti
di tecnologia netta. E’ anche indispensabile la negoziazione degli accordi sulla
migrazione internazionale per evitare la violazione dei diritti umani, sociali
ed economici dei lavoratori emigrati che sistematicamente vengono assoggettati
a forme sempre più dure e subdole di sfruttamento nei paesi sviluppati.
Un elemento importante che ha caratterizzato questi ultimi
decenni è rappresentato dal trasferimento del centro di gravità economico dell’Asia
dal Giappone alla Cina; negli ultimi 15 anni infatti la Cina ha registrato straordinari
tassi di crescita; il PIL ha avuto un incremento annuo medio del 9,7% a fronte
del 2,9% dei paesi del Terzo Mondo, quelli in via di sviluppo ma con buoni risultati
economici.
La crescita economica della Cina non è realizzata dall’andamento
delle esportazioni (va ricordato infatti che in ogni altro paese il rapporto
tra esportazioni e crescita del PIL annua è circa del doppio), anche l’indebitamento
internazionale è ridotto e l’inflazione è sotto controllo.
La crescita della Cina va imputata a diversi fattori; in primo
luogo pur essendo presente un sistema abbastanza complesso dei prezzi non vi
è una liberalizzazione del mercato; in secondo luogo non si sono avute privatizzazioni,
ossia pur essendo stato attivato un settore privato nuovo non vi è stata privatizzazione
di ciò che già era in precedenza a carico del settore statale. A ciò si aggiunge
una estesa decentralizzazione alle regioni; infatti, la proprietà di Stato rispetto
al PIL è diminuita dall’85% al 54% mentre la proprietà collettiva regionale
è cresciuta dal 21% al 35% grazie al decentramento, mentre il settore privato
è aumentato dal 2% al 6%.
Il fenomeno della crescita cinese è, quindi, più facilmente
spiegabile; infatti, anche se questo paese si caratterizza per avere la popolazione
più numerosa del mondo e per la presenza di molte ineguaglianze, vi è, però,
una notevole redistribuzione del reddito e una crescita generale di tutte le
regioni. E’ chiaro quindi che se la Cina si svilupperà con questo livello di
crescita economica continuando a rafforzarsi sul piano militare, fra non molto
sostituirà il ruolo del Giappone, potendo insieme all’India costituire il terzo
polo che si affiancherà alle attuali superpotenze che dominano l’economia mondiale.
In questo senso la costruzione dell’Europa di Maastricht, viene
vista e vissuta dai governi continentali ancor più come la possibilità di costruire
un forte polo a caratteri imperialisti da opporre a quello degli USA e asiatico.
L’istituzione dell’Euro è stata giustificata dall’idea di una
integrazione europea nel contesto internazionale, con l’obiettivo di creare
una stabilità monetaria attraverso una politica monetarista che ha come principale
obiettivo il tasso di inflazione e ridurre i deficit pubblici dei paesi appartenenti
all’UE. Questo ha provocato, come si è ampiamente visto nelle precedenti puntate
dell’analisi-inchiesta, uno smantellamento dello Stato sociale e l’aumento della
disoccupazione e la flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, dei salari,
dell’intero vivere sociale. Ciò perché per essere in regola con il trattato
di Maastricht, ossia per mantenere un determinato rapporto tra PIL e deficit,
è fondamentale che il surplus primario si attesti per una decina di anni intorno
al 5%; questo è un obiettivo impossibile in tutti i paesi in cui il livello
della disoccupazione rimane compreso tra l’11% e il 15%; allora per cercare
di rispettare il trattato c’è solo una possibilità: effettuare manovre finanziarie
pesanti che però non risolvono il problema ma lo rimandano ed inoltre richiedono
enormi sacrifici ai lavoratori, alla popolazione in genere, in special modo
alle fasce più deboli.