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L’analisi-inchiesta

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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per Proteo (36)

Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Le tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica
Luciano Vasapollo, Rita Martufi

 

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Le tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Quarta parte: Le dinamiche evolutive dei processi di internazionalizzazione

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1. Caratteri ed alcuni dati macroeconomici della competizione globale

 

Come si è approfondito nelle precedenti puntate di questa analisi-inchiesta, negli anni che vanno dal secondo dopoguerra ad oggi si sono avute due fasi fondamentali; la prima che si è protratta fino all’inizio degli anni ‘70 è stata caratterizzata da tassi di occupazione e crescita del prodotto abbastanza alti e stabili; la seconda che arriva fino a questi ultimi anni si distingue per una crescita del prodotto molto più ridotta e per una diminuzione dell’occupazione.

L’economia internazionale ha subito in questi ultimi anni gli effetti della grave crisi finanziaria dell’Asia sudorientale; l’oscillazione del mercato dei cambi cominciata con la svalutazione della moneta tailandese si è diffusa rapidamente alle Filippine, alla Malesia e all’Indonesia provocando svalutazioni, crolli di borse locali e fallimenti bancari. Questa crisi ha messo in evidenza le gravi lacune esistenti di quelle economie: l’eccessiva disponibilità di lavoro e di capitale, i disavanzi nei conti con l’estero e con settori finanziari fragili, la vulnerabilità del settore finanziario.

La crisi dell’Unione Sovietica, la disgregazione dal 1989 al 1991 dell’Europa dell’est hanno determinato la crisi del bipolarismo e rafforzato la posizione anche commerciale e di internazionalizzazione produttiva degli Stati Uniti, facendo però allo stesso modo evidenziare il maggior peso nei processi di competizione globale dell’Europa, in tendenza come polo capace di ostacolare lo strapotere nordamericano.

E’ chiaro che al momento gli USA traggono vantaggio da questa situazione ed anzi si preoccupano di mantenere in ogni modo questo predominio; il timore è di competere con l’Europa unita e con il Giappone.

Proprio per mantenere ed anzi rafforzare il predominio sugli altri paesi, gli USA hanno portato avanti il progetto del trattato del libero scambio dell’America del Nord (NAFTA) con cui togliendo i dazi doganali dei paesi aderenti vengono integrati i diversi settori industriali ed agricoli. Questo trattato però registra una mancanza di una vera consultazione pluralistica sul negoziato eventuale del trattato commerciale con gli USA e il Canada; inoltre vi sono considerevoli svantaggi commerciali e produttivi per il Messico in quanto lascia fuori dal negoziato la mobilità della manodopera, aumenta il controllo degli USA sul mercato agricolo del Messico e subordina al controllo straniero i servizi nazionali finanziari e quelli degli autotrasportatori.

In sostanza quindi il NAFTA ha dei limiti notevoli e non è sicuramente utile per una crescita effettiva dei paesi dell’America Latina. Si rileva, infatti, la posizione di svantaggio dei paesi dell’America Latina che a causa delle politiche monetariste, le privatizzazioni delle imprese statali, l’eliminazione dei dazi e le politiche e gli accordi antiflazionistici, hanno registrato un impoverimento di settori sempre più ampi di popolazione. In questi paesi si è avuta una drastica diminuzione dei salari reali, la perdita di molti posti di lavoro e un accentuamento della crisi agricola. Essi hanno, invece, la necessità di vedere ridotto o annullato completamente il debito pubblico, riorganizzare in loro favore le decisioni degli organismi finanziari internazionali, quali la Banca Mondiale, la Banca Panamericana di Sviluppo e il Fondo Monetario Internazionale per eliminare i condizionamenti e le politiche di “nuovo colonialismo” imposto proprio attraverso le politiche di questi organismi; è inoltre necessario regolamentare e controllare il capitale straniero e stabilire regole per la conservazione dell’ambiente, per il reinvestimento, le tassazioni e i trasferimenti di tecnologia netta. E’ anche indispensabile la negoziazione degli accordi sulla migrazione internazionale per evitare la violazione dei diritti umani, sociali ed economici dei lavoratori emigrati che sistematicamente vengono assoggettati a forme sempre più dure e subdole di sfruttamento nei paesi sviluppati.

Un elemento importante che ha caratterizzato questi ultimi decenni è rappresentato dal trasferimento del centro di gravità economico dell’Asia dal Giappone alla Cina; negli ultimi 15 anni infatti la Cina ha registrato straordinari tassi di crescita; il PIL ha avuto un incremento annuo medio del 9,7% a fronte del 2,9% dei paesi del Terzo Mondo, quelli in via di sviluppo ma con buoni risultati economici.

La crescita economica della Cina non è realizzata dall’andamento delle esportazioni (va ricordato infatti che in ogni altro paese il rapporto tra esportazioni e crescita del PIL annua è circa del doppio), anche l’indebitamento internazionale è ridotto e l’inflazione è sotto controllo.

La crescita della Cina va imputata a diversi fattori; in primo luogo pur essendo presente un sistema abbastanza complesso dei prezzi non vi è una liberalizzazione del mercato; in secondo luogo non si sono avute privatizzazioni, ossia pur essendo stato attivato un settore privato nuovo non vi è stata privatizzazione di ciò che già era in precedenza a carico del settore statale. A ciò si aggiunge una estesa decentralizzazione alle regioni; infatti, la proprietà di Stato rispetto al PIL è diminuita dall’85% al 54% mentre la proprietà collettiva regionale è cresciuta dal 21% al 35% grazie al decentramento, mentre il settore privato è aumentato dal 2% al 6%.

Il fenomeno della crescita cinese è, quindi, più facilmente spiegabile; infatti, anche se questo paese si caratterizza per avere la popolazione più numerosa del mondo e per la presenza di molte ineguaglianze, vi è, però, una notevole redistribuzione del reddito e una crescita generale di tutte le regioni. E’ chiaro quindi che se la Cina si svilupperà con questo livello di crescita economica continuando a rafforzarsi sul piano militare, fra non molto sostituirà il ruolo del Giappone, potendo insieme all’India costituire il terzo polo che si affiancherà alle attuali superpotenze che dominano l’economia mondiale.

In questo senso la costruzione dell’Europa di Maastricht, viene vista e vissuta dai governi continentali ancor più come la possibilità di costruire un forte polo a caratteri imperialisti da opporre a quello degli USA e asiatico.

L’istituzione dell’Euro è stata giustificata dall’idea di una integrazione europea nel contesto internazionale, con l’obiettivo di creare una stabilità monetaria attraverso una politica monetarista che ha come principale obiettivo il tasso di inflazione e ridurre i deficit pubblici dei paesi appartenenti all’UE. Questo ha provocato, come si è ampiamente visto nelle precedenti puntate dell’analisi-inchiesta, uno smantellamento dello Stato sociale e l’aumento della disoccupazione e la flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, dei salari, dell’intero vivere sociale. Ciò perché per essere in regola con il trattato di Maastricht, ossia per mantenere un determinato rapporto tra PIL e deficit, è fondamentale che il surplus primario si attesti per una decina di anni intorno al 5%; questo è un obiettivo impossibile in tutti i paesi in cui il livello della disoccupazione rimane compreso tra l’11% e il 15%; allora per cercare di rispettare il trattato c’è solo una possibilità: effettuare manovre finanziarie pesanti che però non risolvono il problema ma lo rimandano ed inoltre richiedono enormi sacrifici ai lavoratori, alla popolazione in genere, in special modo alle fasce più deboli.