Nove argomenti contro la attuale legge di riforma universitaria
Arnd Morkel
Il testo di seguito presentato è una traduzione autorizzata e costituisce una “anteprima” del volume “Die Universität muß sich wehren”, ora pubblicato presso la Wissenschaftliche Buchgesellschaft di Darmstad, 2000.
Ringraziamo l’eminente studioso Morkel per averci autorizzato a pubblicare questo suo scritto tradotto da Alessandro Mazzone. |
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Del “problema Università” si parla da tempo negli
ambienti politici ed economici. Premurosamente, come è lor costume, essi ci
sentono il polso, formulano prognosi di distrofie incombenti, prescrivono
terapie, e promettono, se ci adeguiamo, di rimetterci in salute, pronti a
partire per il 21° secolo. I programmi che vengono proposti sono tecnocratici.
Veniamo sollecitati senza sosta a migliorare struttura, organizzazione,
efficienza dell’Università: ma nulla si dice dello scopo per cui l’Università
esiste, rispetto a che si misurino poi organizzazione, struttura, efficienza.
Tutto ciò non promette bene. Chi vuole far qualcosa per l’Università deve
avere innanzitutto un’idea chiara dell’Università stessa.
L’Università deve essere in chiaro sui suoi compiti
Una Università che non sa che cosa essa stessa è e deve
essere, è esposta inesorabilmente a pressioni esterne e al variabile spirito
dei tempi. Di conseguenza: il rinnovamento dell’Università verrà da spinte
ideali e scelte concettualmente fondate, o non verrà affatto. Questi impulsi e
queste scelte possono solo venire dai docenti e discenti stessi. Meno l’Università
è in grado di determinare i propri compiti a partire dall’intelligenza di sé
stessa, più grande diventa il pericolo che quei compiti le vegnano imposti dall’esterno.
E così oggi avviene. La politica dell’educazione tende attualmente a sfumare
i contorni tradizionali dell’Università e eliminare la differenza tra
Università e Scuola tecnica superiore (Fachhochschule). Dobbiamo discutere
questa tendenza. Dobbiamo respingerla. L’Università avrà un avvenire solo se
riusciremo a far comprendere chiaramente che la missione dell’Università è
diversa da quella di una Scuola tecnica superiore, e che questa missione dell’Università
non profitta solo alla scienza, ma all’economia e alla società tutt’intera.
L’Università deve fissarsi dei criteri.
I criteri dei politici sono inequivocabili. “Dovrà essere
valutato e riconosciuto [honoriert] - si legge nella motivazione della Legge
Quadro Universitaria [HRG] - chi acquisisce molti studenti e li forma entro i
termini di corso normali.” “Anche le somme destinate alla ricerca dovranno...
essere stanziate tenendo in conto i risultati predetti”. “Criteri di
valutazione potranno essere al riguardo i finanziamenti ricevuti da terzi e il
numero dei diplomi conferiti”. In chiaro: Chi non riduce della metà i termini
di consegna di studenti approvati, non raddoppia lo output [sic, ndt] di
laureandi e non triplica le somme dei finanziamenti esterni, se ne va!
Buona cosa sarebbe, s’intende, se le Università, dovendo
onorare i buoni risultati più e meglio che nel passato, si basassero, allo
scopo, su criteri obiettivi. Ma la cosa non è tanto semplice. I criteri della
nuova legge sono solo apprentemente obiettivi. Di fatto, essi lasciano spazio a
conseguenze contraddittorie. Breve durata del corso di studi può voler dire
insegnamento efficiente - o curriculum studiorum al ribasso. Alto tasso
di laureati può significare adunata di giovani talenti - o laureificio
[Doktorfabrik]. Un mediocre istituto di ricerca può esser gran raccoglitore di
fondi. In una parola: risultati e prestazioni dell’Università non si misurano
in unità contabili, come in un’azienda. Se una fabbrica di bottiglie sa in
ogni istante quante bottiglie escono dai suoi cancelli, l’Università non ha
questo privilegio.
Beninteso. Tutto ciò non dispensa le Università dal dovere
di elaborare i propri criteri per chiamate, curricoli, condizioni dello studio,
ricerca, insegnamento, promozione dei più dotati, promozione delle nuove leve
di docenti. Su questi criteri l’Università deve misurarsi e lasciarsi
misurare.
L’Università deve intender sé stessa come un’unità
Solo di nome oggi l’Università è ancora universitas
litterarum: nel fatto, essa è un conglomerato non molto coeso di discipline
e parti di discipline. Per le singole discipline questo importa un pericolo di
restringimento dell’orizzonte e perdita di contatto con sviluppi importanti.
Se l’Università vuole corrispondere al suo nome, non può bastarle di essere
un luogo d e l l e scienze, ma deve orientare tutti i suoi sforzi a diventare i
l luogo, in cui le scienze s’incontrano - a stimolo e integrazione reciproca,
e come reciproca critica e controllo. Presupposto di tale orientamento è una
politica di chiamate, di curricoli di studio, di formazione della nuova
generazione di ricercatori orientata a sua volta alla interdisciplinarietà; e
la creazione nell’Università di istituzioni atte ad acuire nei docenti e nei
discenti la consapevolezza del possibile e necessario dialogo tra le diverse
materie.
L’Università deve formarsi una propria etica
Essa è necessaria innanzitutto per tre motivi. Primo. I
professori godono di un alto grado di indipendenza, di cui l’abuso è
possibile, senza che norme giuridiche di per sé possano escluderlo. Secondo. La
credibilità dei docenti universitari è messa a repentaglio dal rifiuto di
norme etiche di comportamento. Terzo. Gli obblighi liberamente assunti sono la
sola possibilità di evitare il sopravvento di ancor più burocrazia, ancor più
controlli, ancor più eteronomia. Ma il nocciolo dell’ethos univeristario è
il dovere verso la verità. E vi sono altri quattro impegni, oltre a questo, che
vengono spesso messi in ombra: il dovere nei confronti degli studenti, nei
confronti della Universitas litterarum, verso la Res publica, verso la cultura.
L’Università deve costruire sull’opera della scuola
La nuova legge [HRG] dà ai Länder facoltà di
attribuire il 20% dei posti di studente (nei corsi a Numero chiuso). Un’offerta,
che è un imbroglio. Gli studenti non accettati possono chiedere un posto di
studio rimasto libero, e che l’amministrazione centrale [ZVS] deve allora
accordare. Molti professori propongono perciò che siano le Università stesse a
scegliere i propri studenti, senza restrizioni. Ma questa proposta non sarà
accolta, perchè nessun Governo sopravviverebbe alla ribellione dei molti
delusi, che si sentirebbero imprevedutamente privati dell’accesso all’Università.
Rimane dunque solo una via, più lunga e faticosa: riformare il sistema
scolastico e alzare di livello i criteri di ammissione agli studi superiori. Ma
l’Università deve dare il suo contributo - definendo concretamente quello che
essa esige da chi si candida allo studio universitario.
Una cura dimagrante per risanare l’Università
L’argomento principe dei modernizzatori [Bldungsreformer]
è l’impossibilità di preparare il 30% e più della fascia demografica in
formazione secondo le modalità accademiche derivate dalla tradizione. Per cui,
le Università dovrebbero adeguare la loro offerta didattica alle differenziate
esigenze e capacità degli studenti, e introdurre - a fianco dei programmi di
formazione scientifica - corsi di studio di nuovo tipo, vicini alla pratica. È
verissimo che siffatti corsi di studio sono necessari e urgenti: ma non all’Università,
bensì in Scuole tecniche superiori. Al contrario: una volta insediati nell’Università,
è da temere che i corsi accademici veri e propri non reggano al loro fianco.
Del resto, nello stabilire i nuovi “Valori-indice per esami di Bachelor e
Master ” [“Eckwerte für Bachelor- und Masterabschlüsse”], il Land
Renania settentrionale-Vestfalia non ha fatto mistero del fatto che con i nuovi
corsi di studio si mira a “una ristrutturazione dalle fondamenta del sistema
universitario”, e che non si pensa affatto, a lungo termine, a una coesistenza
di due tipi di educazione.
Non basterà davvero rifutare questi programmi di
baccellierato e “Master”, però. Le Università stesse hanno introdotto, in
passato, numerosi corsi di studio di dubbia caratterizzazione universitaria.
Tocca ora a loro riesaminarne la collocazione, e vedere se questi corsi di
studio non starebbero meglio in istituzioni di formazione pratica, con curriculi
più brevi, e di minor costo per il contribuente.
Certo: le resistenze contro una tal “cura dimagrante”
saranno enormi. Ma - come disse Theodor Mommsen - una Università come “donna
di servizio a tuttofare” non ha chance di sopravvivenza. Il futuro dell’Università
è nella concentrazione sui suoi compiti essenziali.
L’Università deve concorrere con altre Università
La concorrenza è indispensabile. Ma, prima di cedere a
qualche euforia concorrenziale, ricordiamoci che il senso della concorrenza non
è l’imitazione degli altri, ma il far meglio di loro. E che i c.d. “emolumenti
secondo la prestazione” non sono atti a dar le ali alla competizione. La
pochezza di pensiero, come la poca fattività, non si vincono col denaro -
quanto meno non col solo denaro. La disaffezione, che qua e là si manifesta, ha
cause più profonde: e a queste cause dovrà attaccarsi prima di tutto chi vuole
efficienza e risultati.
Ha poi poco senso confrontare semplicemente Università
tedesche e americane, senza dire che queste ultime hanno facoltà di scegliere i
propri studenti, che un docente universitario statunitense ha in media la metà
degli studenti di un docente tedesco, che gli studenti americani pagano
contributi universitari notevoli, che le Università americane possono agire in
genere con un’autonomia che noi neppure sogniamo. Finché i presupposti per
una competizione alla pari non saranno dati alle Università tedesche, esse
rimarranno svantaggiate nella concorrenza con le Università straniere.
L’Università deve difendere il suo statuto
Il processo decisionale accademico non è privo di difetti. C’è
una falsa collegialità; si arriva al “tu dai una cosa a me, io do una cosa a
te”; i settori maggiori fanno la parte del leone a spese dei minori;
iniziative promettenti sono bloccate dalla resistenza dell’istituzione;
eccetera. Che cosa propongono i modernizzatori? Ampi poteri per i Presidenti di
Università! [Cfr. la recente riforma olandese. N.d.T.] Questo non
funzionerà. Governare un’Università è possibile con i suoi membri, non
contro di loro. Invece di gettare il bambino col bagno, si può dare al
Presidente un potere di veto, e creare un sistema di equilibri e contropoteri
tra Senato accademico e direzione dell’Ateneo.
L’Università si difenda!
Le nostre Università hanno i loro punti deboli, grandi e
piccini. Senza dubbio. Ma peggio degli ambienti politici ed economici non sono
di certo. Bisogna che l’Università passi all’offensiva, contrapponendo alla
cattiva Legge Quadro Universitaria una concezione e un progetto migliore. Gli
Atenei che non condividono la politica della Conferenza dei Rettori, si
dimettano da questa istituzione. Una cosa è certa. Senza un atto clamoroso da
parte dell’Università, la politica ufficiale resterà quella che è.