Il 4 agosto è stato firmato dal Ministro Zecchino ed inviato
alla Corte dei Conti per il controllo di legittimità, il decreto ministeriale
sulla determinazione delle classi delle lauree universitarie. Questo decreto
avrà un ruolo fondamentale (speriamo di non dover dire in seguito che avrebbe
potuto essere un ruolo positivo) nella ristrutturazione dei corsi universitari.
Il decreto riordina l’offerta didattica secondo 41 classi delle lauree
universitarie (di primo livello, lauree di norma triennali) indicando per
ciascuna di esse gli obiettivi formativi qualificanti e le relative attività
formative indispensabili. In precedenza questi erano indicati per ogni
singolo corso di laurea, per essi ora è indicata la sola classe di
appartenenza, mentre specifici obiettivi di formazione saranno indicati
autonomamente dalle sedi.
Lo studente che consegua il titolo relativo ad uno di questi
corsi sarà detto laureato. Per poter essere chiamato dottore
occorrerà invece seguire un successivo corso di laurea specialistica, di
norma biennale. L’attuale decreto non si occupa di questi ultimi, per essi vi
sarà una successiva normativa.
Il decreto volutamente indica solo le linee fondamentali
della riforma, questa sarà una buona riforma solo là dove i proponenti avranno
realizzato un buon progetto di formazione, è concreto il rischio di forte
disomogeneità nell’offerta didattica delle diverse sedi.
Questo è visto come una grande opportunità dai fautori
delle leggi della concorrenza, si dimentica che non si tratta di una linea di
produzione qualsiasi e che per la maggior parte degli studenti non è certo
agevole spostarsi negli atenei di maggior nome.
Della riforma, quello che viene enfatizzato molto, sia nelle
discussioni di facoltà, che sulla stampa, è il nuovo assetto della struttura
didattica, che come abbiamo detto è definita secondo due distinti livelli di
approfondimento, il famoso 3+2.
Del primo livello si dice che dovrà essere caratterizzato
professionalmente ma con una netta preparazione culturale di base così da
formare esperti (ad esempio in materie giuridiche) mentre una formazione
specialistica si potrà di norma ottenere solo proseguendo in un successivo
biennio specialistico col quale, continuando nel facile esempio, si potrà
diventare dottore in legge e quindi accedere alla professione di avvocato o
magistrato. La legge prevede che ogni corso di base, pur assicurando una
formazione di livello professionale medio alto, deve consentire l’iscrizione
ad almeno uno, ma in genere più corsi specialistici.
Nel merito delle realizzazioni si è potuti entrati molto
poco, quando per nulla, perché le facoltà sono ancora in una fase di
discussione, anche se, per facilitare la trasformazione, in genere ci si è
organizzati in modo da assicurare che chiunque si immatricoli quest’anno possa
l’anno accademico prossimo decidere se restare nel corso di immatricolazione o
passare ai corsi di laurea riformati.
In merito alla valutazione della riforma, per chi ha avuto
modo di seguire, anche sui giornali, la discussione di questi ultimi mesi,
risulta evidente la netta separazione fra due schieramenti contrapposti, quello
degli estimatori e quello dei detrattori.
In via di principio quella proposta non mi sembra un’idea
tanto balzana, perché si deve temere di non poter costruire, su ben 13 anni di
apprendimento scolastico e avendo a disposizione un triennio, una formazione di
livello medio alto, suscettibile di successiva ulteriore specializzazione?
Non si può fare solo se la scuola precedente è male
addestrante o la successiva non sa trovare gli strumenti didattici necessari per
raccordarsi ad essa. Su quale dei due rischi dobbiamo contare di più,
non so. Certo mi preoccupa che ad essere rinviate siano, tra le altre, proprio le
lauree in scienze della formazione primaria e secondaria.
1. Professori e professorini
Il problema dell’addestramento degli insegnanti della
scuola è un punto chiave e non per nulla sono almeno cinquant’anni che si
succedono commissioni con il compito di riformare la didattica del primo ciclo
scolastico e sono certo molti anni che si studia come riformare le regole della
formazione e dell’accesso per il ruolo docente.
Nel frattempo si è continuato a contare sulle qualità, per
fortuna peraltro spesso presenti nei docenti, di sapersi muovere
soggettivamente, direi addirittura intuitivamente, nel modo giusto; insomma
anziché contare su qualità professionali ottenute attraverso una specifica
formazione di adeguato livello, ci si è affidati sempre e solo alla “capacità
di cura” dell’insegnante.
L’aumento di domanda di personale specializzato e quindi di
domanda di formazione, ha fatto saltare il precario equilibrio del sistema
scolastico.
Come mai, a parte qualche modifica organizzativa, è stato
così difficile non solo realizzare un percorso di formazione strutturato in
funzione di una classe docente professionalmente e quindi anche omogeneamente
preparata, ma persino definire precise ipotesi riguardo a ciò?
Quando avevo vent’anni mi chiedevo come fosse possibile
ritenere che per insegnare a dei piccoli ci volesse meno e non più
preparazione. Quasi quarant’anni dopo ho il sospetto di comprendere almeno una
delle tante ragioni: ad occuparsi di questi problemi sono state spesso
personalità prestigiose del mondo accademico che, escluse forse quelle
specificamente esperte del campo, almeno in parte non hanno avuto veramente a
cuore la soluzione del problema delle scelte relative alla didattica per l’infanzia,
per definizione piccoli problemi non degni dell’accademia.
Non si può neppure dire che l’accademia abbia in generale
provato interesse per la formazione dei docenti delle scuole d’ordine più
elevato, neppure quando sapeva di laureare persone che in maggioranza avrebbero
trovato lavoro proprio nel settore dell’insegnamento.
L’università ha delle responsabilità specifiche e direi
gravi rispetto la scuola, se non altro perché, per quanto almeno riguarda i
docenti laureati, era tenuta ad intervenire, per dovere di formazione appunto.
Certo interventi (opportunistici) non sono mancati,
soprattutto organizzando o partecipando alla organizzazione di corsi di
aggiornamento, sulle cui qualità non voglio proprio dire nulla. In altri casi,
organizzando presso le università corsi di perfezionamento (di qualche
settimana o mesi), corsi che potevano contare sulla buona volontà individuale
di qualche docente, ma molto più raramente su di una volontà collettiva ed un
progetto culturale del corpo docente.
Finalmente però le cose dovrebbero cambiare. Ma come abbiamo
già detto occorre attendere un poco di più che per le altre professionalità,
occorre infatti attendere un nuovo decreto ministeriale. Questo anche se, ad
esempio per la formazione dei maestri vi è già un corso di laurea in scienze
della formazione primaria che, nel succedersi un poco confuso degli eventi, è
stato organizzato secondo un percorso quadriennale, che evidentemente non si
ritiene facilmente ristrutturabile secondo la regola del 3+2.
2. Il dibattito degli esperti e degli opinionisti
Penso che una delle cose più fastidiose di questi anni di
definizione della riforma sia stato il modo spesso enfatico scelto da molti di
quanti a vario titolo si sono occupati del tema.
Per mesi e mesi si è sentito venire dalle università in
prevalenza un unico grande grido di dolore: la riforma è un attacco all’insegnamento
universitario, si va verso una dequalificazione dello studio, è la fine del
nostro prestigio.
Per mesi e mesi dalle commissioni governative e la piccola
parte di accademia coinvolta, si sono sentite esaltate le virtù taumaturgiche
del 3+2, che assicurerà agli studenti, senza più crisi di adattamento e
difficoltà di apprendimento, di laurearsi in 3 anni, così cancellando per
sempre traumatici abbandoni e defatiganti anni di fuori corso.
Se spesso il problema della trasformazione degli attuali
corsi di laurea è stato affrontato come una minaccia al rigore dell’insegnamento
universitario è perché l’abbassamento del rigore appariva come l’unico
strumento che giustificasse tanto ottimismo.
Di conseguenza molti colleghi, preoccupati all’idea di
potersi ritrovare squalificati a insegnare nel triennio di base, hanno cercato
di accaparrarsi una più degna posizione nel biennio specialistico, ben più
adatto alle loro qualità.
La mia impressione è che nelle università non si tema tanto
di dequalificare i nuovi laureati, quanto i vecchi docenti!
Forse sono pessimista, ma non credo che vedremo facilmente
insegnare nei corsi del triennio molti dei professori di chiara fama; vi sarà
al più qualche ordinario idealista, diversi associati più o meno idealisti o
speranzosi in miglior futuro e ricercatori alla ricerca disperata di un corso in
cui insegnare o anch’essi idealisti.
Spero di sbagliare ma ho l’impressione che, non solo i
grandi accademici, ma anche i professori di minore valenza, ordinari o associati
che siano, di norma entrino in crisi di identità se hanno il sospetto di non
essere chiamati a concorrere alla risoluzione dei problemi dell’alta
qualificazione professionale della classe dirigente del futuro.
Per convincersene basta riflettere sul fatto che l’attuale
riforma dell’offerta didattica universitaria, altro non è che una messa a
punto della riforma degli anni ‘90 (come ho cercato di chiarire in un
precedente intervento su questa rivista), riforma che non si era conclusa
secondo l’originario disegno riformatore, per responsabilità di molti, ma
certo tra questi non ultimi i professori, che la hanno sicuramente boicottata.
Con la normativa del 1990, oltre ai corsi triennali (chiamati
diplomi universitari e con un impegno di formazione indicato come direttamente
professionalizzante) si sarebbero dovuti anche trasformare in quinquennali i
corsi di laurea. Alcune facoltà erano in via di principio d’accordo, ma la
questione si complicò rapidamente anche per scelta di associazioni, ordini
professionali e lobby di vario genere.
Così nacquero i corsi triennali che si trovarono accanto a
corsi di laurea rimasti quadriennali e, tanto per mettere a posto le cose, non
si videro mai riconosciuto un livello di professionalità.
Per molto tempo si discusse sul rapporto che avrebbe dovuto
esistere tra diplomi e corsi di laurea. Il fatto che i primi dovevano essere
direttamente professionalizzati doveva o meno sottintendere l’indebolimento
della formazione culturale di base? Questo problema veniva sintetizzato come al
solito in una netta contrapposizione: da una parte chi riteneva che le due
tipologie di corso dovevano essere in parallelo e dall’altra quelli che invece
li volevano in serie.
In generale prevalse la logica di una limitata possibilità
di utilizzo in un corso di laurea delle competenze acquisite in un corso di
diploma.
La situazione fu complicata dal fatto che la attivazione di
un corso di diploma non poteva comportare costi aggiuntivi e quindi nuovi posti
di ruolo; là dove non si poteva contare su personale già inquadrato in
strutture didattiche che la riforma metteva a tacere, come scuole speciali o
corsi di diploma biennali, fu un problema trovare i docenti.
Spesso si è accettato che la soluzione fosse che i docenti
svolgessero il solo corso d’insegnamento istituzionale, ammettendovi gli
studenti del diploma con la semplice indicazione degli argomenti da saltare,
limitandosi quindi ad un indebolimento del rigore.
Non ci si può meravigliare se oggi prevalga il timore di un
più generale annacquamento del rigore, visto che le due tipologie di corso ora
sono esattamente in serie!
In ambito accademico i corsi di diploma universitario non
hanno certo goduto di grande considerazione, ma non so se le sue diverse
realizzazioni abbiano o meno avuto successo ed eventualmente quando e in che
misura, per il semplice motivo che molti corsi di diploma sono partiti negli
anni accademici a partire o dopo il 1994 e quindi non vi è stato neppure il
tempo sufficiente per analizzarne i risultati, né rispetto agli studenti
fruitori né rispetto alla collocazione lavorativa.
Di conseguenza la riforma di questi giorni parte a parziale
modifica dell’esistente, senza che si sia fatta una vera generale verifica del
lavoro fatto, senza che l’esperienza prodotta sia stata oggetto di una
rigorosa analisi, senza che a riceverla vi sia una classe docente consapevole
delle sue potenzialità.
Resta reale il rischio che tutto si risolva in una riforma di
pura facciata rispetto all’oggi.
Eppure io so per certo che anche con i diplomi universitari,
là dove si è lavorato seriamente in funzione di una professionalità, questa
si è prodotta e quindi io sono totalmente ottimista circa la possibilità,
volendo, di costruire corsi universitari triennali comunque chiamati, definenti
specifiche professionalità di livello medio-alto, utili per il mercato del
lavoro.
Il problema è di volerlo.
3. Quali le novità principali nella normativa per le lauree triennali
La prima novità fondamentale del decreto sulle lauree di
primo livello consiste nel fatto che, come abbiamo già detto, gli obiettivi
formativi comuni all’interno di ciascuna classe costituiscono solo un (minimo)
comune denominatore, in quanto si indicano le aree culturali di riferimento per
le materie di base, caratterizzanti e affini ma non gli
insegnamenti; questi ultimi saranno invece indicati per ogni corso di laurea,
secondo denominazioni autonomamente scelte da ciascun ateneo. In tal modo, ai
proponenti dei diversi corsi di laurea, viene lasciato un largo margine di
autonomia rispetto agli specifici contenuti.
All’interno di una stessa classe potranno trovarsi quindi
corsi di laurea anche fortemente differenziati ed eventualmente facenti capo a
facoltà diverse, ciò non di meno essi saranno equipollenti.
Una seconda grande novità consiste nel fatto che allo
studente non è indicato il numero di esami da superare ma il peso delle
diverse attività formative indispensabili alle formazioni della data
classe, peso quantificato in crediti da conquistare per tipologia di
attività formativa e per ambito disciplinare.
La terza, poco reclamizzata novità, è che il decreto non si
occupa di tutte le formazioni, restando esclusi dal decreto i corsi i cui
vincoli formativi devono essere definiti col concorso del parere di altri
ministeri.
Sono rimaste escluse le classi di ambito sanitario, quelle destinate alla
formazione degli insegnanti e infine, piccola perla, la classe delle scienze
strategiche ossia militari. In quest’ultimo caso la situazione è
particolarmente delicata, basti pensare che negli ultimi anni, secondo la
precedente normativa, sono già stati attivati corsi e operate trasformazioni di
scuole militari, senza alcuna verifica di congruità da parte del CUN (Consiglio
Universitario Nazionale, che pure svolge proprio questo ruolo nei confronti di
ogni proposta di attivazione di un nuovo corso di laurea o diploma
universitario). Nella nota di commento del CUN al decreto sulle classi di
laurea, si indica come grave la situazione a riguardo, essendo concreto il
rischio che si venga a creare una struttura parallela, che non potrà non
costituire almeno in parte una sovrapposizione a quella dei corsi previsti per
gli studenti normali cui si riferisce la normativa attuata. In effetti
(non?) si comprende la logica di questa sorta di segretezza che avrebbe a
giustificazione la semplice appartenenza alle amministrazioni militari.
Tornando alla riforma, per quanto riguarda l’insieme delle
classi proposte non è ancora possibile entrare nel merito, proprio perché esse
lasciano una grandissima autonomia alle sedi. Un terzo delle attività sono
indicate localmente, in parte dalla struttura, in parte anche dallo studente, ma
anche sui due terzi regolamentati, come abbiamo già notato, i vincoli non sono
forti: non risulta vincolato l’insegnamento, né tanto meno il suo grado di
approfondimento, potendo a parità di denominazione prefigurarsi attività
diverse per lo studente.
Qui è il punto più delicato della riforma, quello che fa
temere (purtroppo giustificatamene) una situazione molto differenziata non solo
da classe a classe ma addirittura in una stessa classe. È vero che si richiede
alle sedi di mantenere il “livello universitario dell’istruzione impartita,
ma è vero anche che già oggi in una situazione fortemente regolamentata, in
occasione di esami di Stato o concorsi nazionali capita di dover rilevare una
forte variabilità nel livello e tipo di formazione offerta.
Abbiamo detto che una novità assoluta è il riferimento non
ad un numero di esami da superare ma ad un numero di crediti da acquisire. Oggi,
ci viene chiesto di non fermarci più alla considerazione del solo numero di
esami per misurare l’impegno richiesto, ma di risalire a quello globalmente
necessario perché si realizzi l’apprendimento nello studente: ore di lezione,
esercitazione, studio individuale, attività seminariale e lavoro di gruppo
nonché qualsiasi altra attività richiesta. Questo modo di procedere dovrebbe
di regola comportare un numero variabile di crediti per i diversi insegnamenti
visto che come noto l’impegno può essere molto diverso da materia a materia.
Il credito costituisce l’unità di misura del lavoro di
apprendimento dello studente, convenzionalmente corrispondente a 25 ore di
attività formativa per ogni classe.
In un anno accademico in media si dovranno svolgere intorno
alle 1500 ore di lavoro, corrispondenti a 60 crediti. Complessivamente, nel
primo livello lo studente dovrà collezionare 180 crediti e quindi di norma gli
occorreranno 3 anni per completare il corso.
Nel biennio specialistico dovranno invece essere acquisiti
120 crediti.
Se fino ad oggi dunque ogni insegnamento di cui sia superato
l’esame costituisce un credito acquisito, domani non dovrà (dovrebbe?) essere
più così, anche perché è previsto che siano riconosciuti dei crediti anche
per tutte le ulteriori attività formative svolte anche al di fuori di un
insegnamento, ad esempio acquisizione autonoma di capacità in campo informatico
o linguistico.
Questo significa che non solo potranno differenziarsi
fortemente i curriculum di uno stesso corso di laurea tra diverse università,
ma, in parte ben maggiore di adesso, anche i curriculum dei singoli studenti.
Non so se queste novità appaiano a chi legge così facili da
realizzare. Io posso dire che, nei timidi tentativi fatti per verificare
operativamente la facilità di utilizzo dello strumento dei crediti si è finito
col convenire che per il momento è meglio soprassedere.
Questo perché rapidamente la questione si riduce al dover
cercare di far digerire a qualche collega l’idea che “la materia del tuo
insegnamento è più facilmente assimilabile della mia” e questo è difficile
per il semplice motivo che, nove su dieci, entrambi i contendenti traducono: “la
materia del mio insegnamento è molto più seria della tua”.
In un momento così delicato di riordino, quando solo pochi
possono contare su posizioni di forza, tutti sanno che ferire la suscettibilità
del collega potrebbe essere una vera seccatura, conviene accettare tutti il
principio: in prima applicazione lasciamo che ad ogni insegnamento corrispondano
sempre lo stesso numero di crediti,..... poi si vedrà. Questo, almeno per ora,
è quanto sembra sia accaduto in molte facoltà.
Infine concludo esprimendo una grande preoccupazione: una
forte attenzione dovrebbe essere messa, dagli studenti e dai docenti
democratici, rispetto allo strumento dei test d’accesso e de debiti formativi
che ne possono derivare. In assenza di miglior raccordo tra insegnamento
scolastico e universitario si rischia che si torni, in modo morbido, ad una
università di élite.