“The Federal Business Revolution”. Parte prima: i percorsi attuativi della “grande” riforma della Pubblica Amministrazione
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
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Si è entrati ormai in una fase in cui il “federalismo all’italiana”
sta diventando definitivamente legge dello Stato; ciò sinteticamente significa
che a fronte di un minore contributo fiscale a favore dello Stato, il cittadino
dovrà versare imposte, tasse, contributi, in pratica somme di denaro sempre
maggiori agli enti locali e alle regioni, in nome del tanto “decantato e
atteso” federalismo fiscale che dovrebbe portare ad una maggiore “autonomia”,
e quindi, a più “potere” degli enti.
Allo stesso tempo è il trionfo della “sussidiarietà”.
Ma di cosa si tratta in realtà? Sussidiarietà in sostanza significa che lo
Stato subentra laddove non approdano i privati: sono finiti quindi i compiti
dello Stato sociale e le funzioni delle Amministrazioni Pubbliche? È semplice:
i servizi sociali e pubblici sono dati in gestione ai privati o se questo non è
possibile (perché magari si tratta di servizi non redditizi) intervengono i
settori cosiddetti “no profit” o del Terzo settore, settori ormai in mano
alle fondazioni bancarie; un Terzo settore che non svolge di fatto un ruolo di
supplenza ma di sostituzione in chiave “privatistica” del Welfare State” e
allo Stato e agli Enti Pubblici resta una sorta di ruolo di “supplenza” nell’attività
sociale in genere.
Va tenuto conto, inoltre, che in questi ultimi anni si è
avuta una sempre maggiore privatizzazione delle aziende pubbliche che gestivano
settori di primaria importanza, quali l’elettricità, i trasporti, l’acqua,
ecc., e ciò ha provocato oltre ad un aumento delle tariffe dei servizi e un
peggioramento dei servizi anche un considerevole disagio tra i lavoratori che
hanno dovuto sopportare licenziamenti, adeguamenti alle politiche di
flessibilità, mobilità e trasferimenti, contrazione dei salari reali, ecc.
[1]
In questo articolo si cercherà di chiarire come, in che modo
è stata avviata e come sta procedendo la “Grande Riforma della Pubblica
Amministrazione” e come i tanto celebrati miglioramenti per i cittadini e
lavoratori (ormai sarebbe meglio chiamarli utenti-clienti) siano in realtà un
esclusivo consolidamento economico e di potere solo per i gestori delle imprese
private che facendo capo ad un progetto politico-economico ben preciso e
delineato di “occupazione dello Stato” hanno avuto la possibilità di “infilarsi”
nella gestione dei servizi pubblici realizzando l’incremento sempre maggiore
dei loro profitti a danno chiaramente dei cittadini, della collettività e delle
fasce più deboli della popolazione che vedono l’accentuarsi dei loro disagi.
Nel prossimo numero di Proteo verrà pubblicata la Parte
Seconda di questo lavoro in cui più dettagliatamente si porrà l’accento
sulle logiche ispiratrici del “nuovo Welfare” ridotto a “soccorso per i
miserabili”, al ruolo e alle funzioni del “Terzo settore” nell’ambito
della “filosofia della sussidiarietà”; si riprenderà infine il discorso
relativo alle privatizzazioni già affrontato nei primi due numeri del 1998 di
Proteo, legandolo ai processi di liberalizzazione e privatizzazione dei servizi
pubblici locali e valutando le ricadute in particolare sui lavoratori del
pubblico impiego. In poche parole la “rivoluzione
politico-economico-istituzionale” che generalmente identifichiamo come
definitivo passaggio dal Welfare State al Profit State individua una “Federal
Business Revolution” che riconosce nei lavoratori pubblici e nell’utilizzatore
socialmente più debole del servizio pubblico le “vittime” da sacrificare
per la realizzazione della “Grande Riforma della Pubblica Amministrazione”.
La riforma prende le mosse da quattro elementi fondamentali:
1) il decentramento amministrativo;
2) la riorganizzazione;
3) il completamento della privatizzazione del lavoro
pubblico;
4) la semplificazione degli atti amministrativi.
Per quanto riguarda il primo punto si tratta del
trasferimento alle regioni, alle provincie e agli enti locali dei compiti in
precedenza spettanti allo Stato nell’ottica di un “federalismo a
costituzione invariata”.
La riorganizzazione prevede un generale riordino dei
Ministeri con la possibilità anche di una loro fusione.
Il terzo punto prevede, invece, la totale integrazione della
disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato (in sostanza si
equiparano i lavoratori pubblici ai lavoratori privati).
Da ultimo vi è la previsione di una completa, efficace ed
efficiente semplificazione degli atti amministrativi.
Di seguito viene fornita una Cronologia delle leggi sulla
Riforma della Pubblica Amministrazione (PA) per collocare meglio nel tempo i
vari passaggi politici.
2. I percorsi della Federal BusinessRevolution
Quale può essere considerato il compito della Pubblica
Amministrazione [2]? La risposta più immediata e naturale è che il ruolo
principale sia quello di creare diverse opportunità ai cittadini per permettere
loro di scegliere e poter così soddisfare i diversi bisogni sociali.
Ed ancora qual’è il significato di settore pubblico? A
questo proposito si ricorda che: “Negli attuali sistemi standardizzati di
contabilità nazionale... il settore pubblico è... identificato nel complesso
delle pubbliche amministrazioni, intendendo con ciò quelle istituzioni che a
titolo principale producono servizi non commerciabili ovvero operano una
redistribuzione del reddito e della ricchezza del paese”. [3]
Definire il concetto di “servizio pubblico” non è
facile: vi sono infatti due accezioni: quella soggettiva e quella oggettiva; la
prima “definisce come servizio pubblico quell’attività svolta dall’amministrazione
pubblica, che non costituisce esercizio di pubblica funzione - ossia non ha
forma autoritaria - e che consiste nella produzione di beni o utilità a favore
della collettività... con la nozione oggettiva di servizio pubblico, invece, si
indica l’attività imprenditoriale che offre beni o servizi alla
collettività, o che soddisfa bisogni generali.” [4]
Si sostiene correttamente che “una buona amministrazione
pubblica va creata organizzando una struttura di base con caratteristiche
tecniche in grado di assicurare il buon funzionamento della gestione,
indipendentemente dal modello di decentramento o dalle forme di autonomia
prescelti. Una buona macchina amministrativa deve saper funzionare non soltanto
per il grado di autonomia assicurata dalla Costituzione agli Enti ma anche e
soprattutto per la qualità del dispositivo amministrativo realizzato. Basti
pensare alla Francia che, pur essendo una repubblica ad impianto centralista,
possiede una delle migliori amministrazioni pubbliche esistenti nel mondo”
[5].
Dal punto di vista della Statistica Economica e della
Contabilità Nazionale, la Pubblica Amministrazione (PA) è definita come l’operatore
economico che produce servizi collettivi non destinabili alla vendita,
servizi cioè che non essendo oggetto di compravendita non hanno un prezzo di
mercato; allo stesso tempo la PA svolge funzioni redistributive di reddito e
di ricchezza effettuando trasferimenti unilaterali verso gli altri operatori
economici i quali effettuano versamenti obbligatori alla PA per permettere il
finanziamento delle prestazioni dei servizi pubblici collettivi [6].
La Pubblica Amministrazione può essere paragonata anche ad
una azienda in quanto, agendo in una situazione non concorrenziale, origina
servizi di carattere materiale e giuridico. Con la nuova riforma si sta cercando
invece di impostare la PA con struttura e modalità attuative dell’impresa
privata; si sostiene ad esempio che anche se l’impresa, non può trovarsi in
una situazione di “chiusura dovuta al fallimento” è altrettanto vero che
una errata politica delle Amministrazioni Pubbliche può portare a gravi perdite
per l’intera collettività; o si sostiene anche che come l’impresa privata
anche la Pubblica Amministrazione deve rispondere a requisiti di efficienza,
economicità ed efficacia negli obiettivi da raggiungere anche se di solito gli
interessi pubblici sono perseguiti senza seguire strettamente le regole del
mercato [7]. Infatti, “il suo compito è di
offrire non rischi... ma la sicurezza pubblica, ossia il punto di riferimento
stabile e riconoscibile della mediazione tra opposti egoismi e dell’allocazione
delle risorse secondo criteri d’efficace imparzialità... nei cui riguardi la
PA deve sviluppare, più che la risposta adattativa tipica delle imprese, quella
autoritativo-regolativa tipica del pubblico potere”. [8]
Si capisce da subito come si cominci già a trasformare la
concezione e il ruolo della PA; ormai si fa permeare nella società il concetto
che la PA debba essere un’impresa con criteri privatistici in cui l’efficienza
produttiva debba avere un ruolo centrale, immettendo così di fatto la PA nella
logica di mercato e quindi finalizzata al profitto e non più al soddisfacimento
dei bisogni economico-sociali collettivi senza il ricorso al mercato e, quindi,
senza bisogno di compravendita e in chiave universalistica.
Si sviluppa, seguendo tale impostazione economica e
culturale, negli ultimi anni nel nostro Paese un processo di riforma dell’organizzazione
statale fondata su un più diretto coinvolgimento delle regioni, delle province
e dei comuni, che rappresentano gli enti di riferimento per una differente
distribuzione delle funzioni pubbliche, determinata dai principi di efficienza,
efficacia ed economicità. Principi e modalità attuative che fanno da
riferimento per una diversa organizzazione dello Stato e per cui l’Amministrazione
Pubblica oggi, non può più essere considerata un elemento esterno ai poteri
tipici del Profit State, ma, anzi, diventa uno strumento di intervento attivo.
Cioè la Pubblica Amministrazione si affaccia alle soglie del terzo millennio
con una logica effettivamente di efficienza e di mercato, tralasciando gli scopi
sociali. La prima considerazione da fare è che nel momento in cui i documenti
ufficiali della PA parlano espressamente di mercato, significa che una scelta di
campo già la si è fatta, perché il mercato non è un’entità astratta, ma
il mercato vive di leggi ferree, centrate sul rapporto di efficacia economica
capitalista che significano massimizzazione dei profitti e minimizzazione dei
costi. Nella fattispecie il costo che in prima battuta dovrà essere tagliato è
il costo del lavoro. Se per efficienza si intendesse semplicemente miglior
rapporto con i cittadini, un miglior rapporto quindi di servizio pubblico come
lo si intende socialmente, come lo intendono i lavoratori, ben venga, ma il
problema è che i criteri messi alla base di tutta la riforma sono
fondamentalmente i criteri dell’efficienza dell’impresa privata nella
rincorsa sfrenata al profitto.
Si può parlare della nascita di un cosiddetto “federalismo
all’italiana”, di una grande riforma dell’organizzazione e delle funzioni
della PA e in genere delle funzioni pubbliche in cui i principi di efficienza,
efficacia ed economicità si coniugano al “decentramento amministrativo”,
comunque, attraverso funzioni comunicative, sociali e politico-organizzative
consone alla riforma in atto. Si tratta in effetti di una profonda modificazione
in chiave politico-economica supportata da continui messaggi
culturali-propagandistici che devono creare consenso alle logiche di mercato,
alle “ineluttabili necessita” di efficienza e di profitto, alla lotta agli
“sprechi e all’assistenzialismo e al posto fisso improduttivo”. È per
questo che continuo è il bombardamento mediatico sull’efficienza produttiva e
organizzativa della PA ottenibili esclusivamente attraverso i meccanismi di
mercato, l’abbattimento del ruolo dello Stato regolatore, interventista e
occupatore, della privatizzazione delle imprese pubbliche e del Welfare,
favorendo i processi di “devolution” con i passaggi dall’universalismo
alla sussidiarietà, travisando e utilizzando in un’ottica esclusivamente di
mercato e di profitto i principi e le spinte sociali ad un equilibrato e
possibile federalismo.
<Va ricordato che il termine federalismo può assumere due
significati diversi: si può parlare infatti di federalismo come “tecnica” e
federalismo come “valore”.
Nel primo caso per “federalismo” si intende un
particolare tipo di ripartizione delle competenze fra singoli Stati - ciascuno
col suo ordinamento, il suo popolo, il suo territorio - e Stato federale nel suo
complesso, dal separato ordinamento, e il cui popolo e il cui territorio sono
dati dalla somma di quelli degli Stati che lo compongono. Allo Stato federale
appartengono alcune competenze, enunciate dalla Costituzione federale - di
regola simbolicamente rappresentate dalla spada (la difesa), dalla bilancia (la
giustizia), dalla bandiera (la politica estera) e dalla moneta (la politica
economica generale) - e solo quelle. Tutte le altre appartengono, residualmente,
ai singoli Stati... Si tratta, insomma, d’una sorta di “funzione regolatrice
interna” dell’ordinamento giuridico, tale da porre i soggetti in grado di
adattare la propria azione alle diverse circostanze di tempo e di luogo che via
via si presentano in concreto.
Il decentramento poi addirittura, almeno in linea di
principio, è l’antitesi del federalismo. Con tale termine si intende la
possibilità dall’ordinamento accordata allo Stato centrale di istituire suoi
organi periferici per meglio servire il territorio. Il concetto di decentramento
presuppone l’esistenza di un centro forte, di cui le realtà locali
costituiscono la pura e semplice emanazione. Parimenti, il federalismo come
tecnica di governo non è affatto incompatibile col presidenzialismo...
b) Federalismo come “valore”.
È il significato a cui più di frequente fa ricorso il
politico attivo. In tale accezione, il federalismo è l’obiettivo politico, di
regola contrapposto ad un non meglio specificato centralismo. Naturalmente tale
accezione “valoriale” di federalismo può essere accettata anche dai suoi
avversari, i quali le addebitano ogni sorta di inconvenienti politici. Inteso
come valore negativo, il federalismo allora “mina l’unità dello Stato”,
“il primo passo verso la secessione”, “ignora le esigenze della
solidarietà”, ecc. In ogni caso, quando in politica il concetto di
federalismo viene usato prevalentemente come valore assoluto, positivo o
negativo che sia, meno è preciso, meglio è. Difatti ciò consente di caricarlo
di (ogni possibile) significato; chi fa cavallo di battaglia della sua politica
la nozione “valoriale” di federalismo o si guarderà bene dal definirlo, o
lo userà indifferentemente come sinonimo di “autonomia”, di “decentramento”,
di “indipendentismo”, di secessionismo”.> [9]
E comunque, nelle sue diverse specificazioni il federalismo
si coniuga alla più complessiva “grande riforma della PA”, che nel momento
in cui lega il passaggio dal Welfare State al Profit State, le privatizzazioni
all’emergenza economico-produttiva dell’efficienza d’impresa nella PA, la
nuova forma-Stato al federalismo, assume il ruolo di quella che ci piace
chiamare “Federal Business Revolution”. Seguiamone di seguito alcuni
percorsi.
Dopo la seconda guerra mondiale è iniziato nel nostro Paese
un lungo iter evolutivo che ha cambiato il ruolo della Pubblica Amministrazione:
da semplice regolatrice dell’ordine pubblico infatti si è passati ad una
amministrazione che oltre a fornire i servizi gestisce le infrastrutture.-----
Infatti “Gli anni cinquanta e sessanta sono gli anni in cui
si sviluppano gli uffici tecnici dei Comuni e gli anni settanta e ottanta sono
gli anni in cui si sviluppano le strutture di assistenza e di servizio (cultura,
assistenza sociale, ecc.)...“. [10]
Fino ad arrivare all’ambito della attuale riforma della PA in cui si
possono individuare quattro diverse aree di intervento: quella del decentramento
amministrativo (rivolto alle regioni, alle province e ai comuni [11]); quella di un completamento della
privatizzazione del lavoro pubblico, quella della semplificazione
amministrativa [12] (ossia le nuove certificazioni, la nascita dello sportello unico, la
carta di identità elettronica, ecc.) ed infine quella relativa all’ottimizzazione
della gestione attuabile attraverso la realizzazione di progetti tesi a
migliorare la gestione tecnico-organizzativa.
In particolare si ricorda che:
“La riforma è articolata su quattro punti fondamentali:
Decentramento:
delega al Governo ad emanare uno o più decreti legislativi
per conferire a regioni ed enti locali funzioni e compiti amministrativi dello
Stato;
- Il trasferimento di compiti e funzioni dall’Amministrazione
Centrale alle regioni e agli enti locali avviene attraverso un procedimento
completamente nuovo rispetto alle operazioni analoghe previste in passato:
invece di individuare quali attribuzioni occorre trasferire, la delega specifica
quali sono le funzioni che restano allo Stato.
- Lo spostamento di compiti e funzioni verso la periferia,
che viene delineato attraverso questo percorso, attua il cosiddetto “federalismo
a costituzione invariata” basato prevalentemente sul decentramento
amministrativo.
Riorganizzazione:
delega al governo ad emanare uno o più decreti legislativi
su:
1. razionalizzare l’ordinamento della Presidenza del
consiglio dei Ministri e dei ministeri, anche attraverso il riordino, la
soppressione e la fusione dei ministeri;
2. riordinare gli enti pubblici nazionali operanti in settori
diversi dalla assistenza e previdenza;
3. riordinare e potenziare i meccanismi e gli strumenti di
monitoraggio e di valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività
svolta dalle Amministrazioni Pubbliche;
4. riordinare e razionalizzare gli interventi diretti a
promuovere e sostenere il settore della ricerca scientifica e tecnologica,
nonché gli organismi operanti nel settore stesso.
Completamento privatizzazione del lavoro pubblico:
delega al Governo ad emanare uno o più decreti legislativi
per completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella
del lavoro privato e la conseguente estensione al lavoro pubblico delle
disposizioni del Codice Civile e delle leggi sui rapporti di lavoro privato nell’impresa;
Semplificazione:
autorizzazione al Governo ad emanare regolamenti di
delegificazione di 112 procedimenti amministrativi.
Inoltre, nella legge “Bassanini 1” sono previste alcune
deleghe speciali per la disciplina delle attività economiche e del trasporto
pubblico locale (in base alle quali sono stati tra l’altro introdotti principi
di liberalizzazione nel settore commerciale e in quello del trasporto pubblico
locale), oltre a norme per l’autonomia scolastica e universitaria.” [13]
L’intento di raggiungere un buon decentramento è
ravvisabile nell’idea di ottenere uno Stato leggero e snello. La legge
di riforma prevede di definire le funzioni che rimarranno e invece di dismettere
tutte le altre attraverso l’assegnazione ai privati e
conservando allo Stato l’autorità di regolazione, promozione, coordinamento.
Occorre verificare, che questo trasferimento di funzioni
dallo Stato alle amministrazioni locali produca realmente l’agognato
miglioramento nell’efficacia e nell’efficienza delle azioni pubbliche.
Infatti il concetto di decentramento include in sé oltre che un passaggio di
poteri anche un trasferimento di responsabilità; non risulta certo utile il
fenomeno spesso diffuso delle “guerre di competenze”, delle opposizioni, dei
divieti che ostacolano la collaborazione tra i vari enti pubblici: “C’è la
necessità di nuovi comportamenti istituzionali e amministrativi, che né la
previsione normativa delle riforme, né nuove forme di investitura elettorale
possono garantire di per sé”. [14]
Il decentramento amministrativo fa riferimento al concetto di
sussidiarietà, nella duplice concetto di sussidiarietà orizzontale
e verticale: la sussidiarietà verticale riguarda un rapporto nuovo tra
il centro e la periferia e sussidiarietà orizzontale invece riguarda il
rapporto le funzioni pubbliche e le attività dei privati, e per quanto concerne
i rapporti economici riguarda il criterio di equilibrio tra le esigenze del
mercato con quelle della solidarietà sociale.
Va ricordato che il concetto di sussidiarietà non appartiene
alla nostra tradizione giuridica; “Il dizionario giuridico di Gerard Cornu ne
parla solo sotto l’aggettivo <sussidiario> di cui dà la seguente
definizione: <ciò che ha vocazione a presentarsi in secondo luogo (a titolo
suppletivo, sostitutivo, di rimedio, di garanzia) nel caso in cui ciò che è
principale, primordiale venisse a mancare>...”. [15]
Il decreto legislativo del 18 agosto 2000 affronta di nuovo
il tema della sussidiarietà e all’art.5 recita testualmente:
“I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie e
di quelle conferite loro con legge dello Stato e della regione, secondo il
principio di sussidiarietà. I comuni e le province svolgono le loro funzioni
anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente. esercitate dalla
autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali. “
Il diritto comunitario invece, all’art.3 B del Trattato di
Maastricht, oltre ad illustrare il concetto di sussidiarietà, stabilisce che
questo divenga un principio fondamentale nell’ordinamento dell’Unione
Europea.
“...Nella prospettiva dell’Unione Europea un’amministrazione
pubblica efficiente ed efficace è condizione fondamentale per esercitare
appieno il diritto di cittadinanza europea. Lo stesso Trattato di Maastricht in
più punti, infatti, fa riferimento a tale condizione come imprescindibile per
il concreto esplicarsi dell’esercizio di questo diritto. Essere cittadini
europei significa, infatti, godere delle stesse opportunità e dei medesimi
diritti su tutto il territorio dell’Unione a prescindere dal paese di
appartenenza e di residenza. Un forte squilibrio della qualità delle pubbliche
amministrazioni tra i diversi Stati membri metterebbe, perciò, in crisi l’idea
stessa di cittadinanza europea”. [16]
La Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali
istituita per cambiare la seconda parte della nostra Costituzione (segnata
però, possiamo dire fortunatamente, da un insuccesso in quanto non è stata
portata a compimento per i soliti giochi politici di comodo di entrambi gli
schieramenti di centro-destra e centro-sinistra) recepiva anche il concetto di sussidiarietà
“in virtù del quale i diversi soggetti che compongono la Repubblica
esercitano i loro poteri nell’intendimento di valorizzare l’Ente più vicino
al cittadino e di soccorrerlo con l’Ente più grande, laddove il più piccolo
non riesca, con le proprie forze a soddisfarne le esigenze. Il principio ha
valenza orizzontale (enti pubblici e iniziativa privata sono sullo stesso piano)
e verticale (le competenze sono ripartite fra loro dal basso verso l’alto). Ai
Comuni, che sono gli enti più vicini al cittadino, spettano potestà
regolamentari e amministrative generali. Alle Regioni spetta la potestà
legislativa su tutte le materie non riservate alla Costituzione dello Stato. Si
tratta di una inversione del principio contenuto nell’attuale Costituzione che
individua, all’art.117, le materie di competenza legislativa delle Regioni e
lascia allo Stato tutte le altre” [17].
Il concetto della sussidiarietà orizzontale è impostato,
quindi, secondo un principio di equilibrio tra i bisogni di autonomia degli
individui e della società, per regolare le necessità del mercato con quelle
della solidarietà sociale, abbattendo nei fatti sia la funzione della PA in
quanto erogatrice di servizi non destinabili alla vendita, cioè di servizi che
non rispondono alla logica e alla domanda di mercato, sia smantellando i
principi di universalismo dei diritti tipici del Welfare State.
A questo proposito la legge 127/97 facilita la costituzione
di società miste che gestiscano i servizi pubblici locali; sempre nell’ambito
del rispetto dei principi di efficienza, economicità ed efficacia si cerca di
adattare le regole imprenditoriali delle imprese private a queste nuove società
miste, e alla logica regolatrice dell’attività della PA.
Il principio della sussidiarietà verticale, invece, vuole
essere un criterio di equilibrio tra le necessità di autonomia ed autogoverno
territoriale, distorcendo nei fatti quella che può essere una giusta richiesta
di modernizzazione delle funzioni statali e della PA in un’ottica di
equilibrato decentramento federalista in senso regionalista.
Per quanto riguarda la “semplificazione amministrativa”
si continua a rilevare che è necessario non solo migliorare l’efficienza
della Pubblica Amministrazione, anche se si vuol far intendere che trattasi di
un’efficienza temperata perché deve essere collegata alla necessità di
conservare adeguate garanzie ai cittadini, in quanto possano realizzare i loro
interessi legittimi. È chiaro, quindi, che ad ipotetica parità di garanzie
risulta essere più efficiente quel procedimento che consente di realizzare
minori costi complessivi per la collettività, per l’amministrazione e per i
riceventi l’intervento, laddove l’analisi costi-benefici dismette
completamente la sua funzione sociale assumendo del tutto la logica del profitto
a connotati tipici dell’impresa privata. Ne segue che, ad esempio, con
riguardo alla quantità di tempo di lavoro impegnato ed alla durata dell’atto
è necessario valutare quantitativamente il tempo di attesa del destinatario per
la conclusione del programma stesso; cioè in teoria dal punto di vista del
cittadino-utente, va contabilizzato il periodo di tempo necessario all’ottenimento
del procedimento. Tali dati determinano i “costi di transazione”, che
rappresentano “l’area fondamentale di intervento per il recupero di
efficienza della Pubblica Amministrazione” e a questi costi ci si deve
riferire per comprendere quanto sia importante la realizzazione delle norme
rivolte alla “semplificazione” delle procedure, anche se in realtà ciò
significa un particolare irrigidimento nella disciplina e nell’organizzazione
del lavoro del dipendente pubblico senza che questo comporti risvolti positivi
salariali e di normativa per il lavoratore [18]. La ricaduta è
stata la riduzione dei costi del personale. Per esempio sono ormai tanti anni
che non c’è assolutamente il ricambio, è bloccato il turn-over nella PA,
sono ferme le assunzioni. Altro dato riguarda gli investimenti pubblici, quindi
un piano di sviluppo sul modello keynesiano, basato cioè sull’allargamento
della spesa pubblica che nel nostro paese è completamente bloccato,
abbandonando così definitivamente la logica dello Stato interventista e dello
Stato occupatore in un modello di economia mista, cioè di un’economia privata
e di un’economia pubblica, nella quale, al di là di quelli che poi erano i
fenomeni di distorsioni e di corruzione pubblica, si garantiva però comunque un’espansione
della domanda, si garantivano da parte dello Stato livelli di occupazione
adeguati allo sviluppo nell’Amministrazione Pubblica, venivano garantiti gli
investimenti pubblici. Tutti questi meccanismi di economia pubblica oggi vengono
a mancare in maniera definitiva per le scelte politiche orientate al
consolidamento definitivo del Profit State attraverso i percorsi della Federal
Business Revolution.
Per quanto riguarda la generale riorganizzazione del Governo
al fine di una ottimizzazione della gestione vanno ricordati i diversi
decreti legislativi approvati nel luglio del 1999 per attuare il Capo II delle
legge 59/1997; si tratta di una riorganizzazione dei ministeri e dell’istituzione
di 11 Agenzie (ottenute dalla trasformazione delle diverse strutture dei
ministeri).
Le Agenzie sono: Agenzia delle entrate, Agenzia delle dogane,
Agenzia per la protezione civile, Agenzia del Territorio, Agenzia per le
normative ed i controlli tecnici, Agenzia del demanio, Agenzia per la protezione
dell’ambiente e per i servizi tecnici, Agenzia per i trasporti terrestri e le
infrastrutture, Agenzia Industrie Difesa, Agenzia per la Formazione e l’istruzione
professionale, Agenzia per la proprietà industriale.
Per quanto riguarda i ministeri invece [19]
restano immodificati i ministeri tradizionali degli affari esteri, dell’interno,
della giustizia e della difesa, mentre vengono istituiti due ministeri
economici; in specifico è previsto l’accorpamento dei ministeri delle finanze
e del tesoro in un unico ministero: il ministero dell’economia e delle
finanze; invece il ministero dell’industria, delle comunicazioni e del
commercio con l’estero si riuniscono in un unico ministero: il ministero delle
attività produttive e delle comunicazioni. I ministeri del territorio invece
sono accorpati in tre strutture. Vi è poi un ministero unico che riunisce il
ministero del lavoro, il ministero della sanità e il dipartimento della
solidarietà sociale della Presidenza del Consiglio.
Sono previsti, infine, il ministero delle politiche agricole
e le attività forestali, il ministero per i beni e le attività culturali, un
unico ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca che
accorpa i ministeri della pubblica istruzione con quello della ricerca e dell’università.
Sono previsti in sostanza 12 ministeri in luogo dei 18
attuali.
Di seguito si mostra una tabella che confronta la situazione
attuale con quella prevista dalla riforma.
TAB. PUBBLICA AMMINISTRAZIONE [20]

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3. Liberalizzazione dei servizi pubblici e politiche d’efficienza
d’impresa
Nell’ambito della “Grande Riforma della Pubblica
Amministrazione” ovviamente diventano strategici i cambiamenti anche nell’ambito
del settore dei servizi pubblici locali gestiti in precedenza prevalentemente da
enti locali attraverso gestioni “in economia” o con la istituzione di “aziende
speciali”. La prima contraddizione che si può individuare è che si parla di
riforma dell’amministrazione periferica dello Stato che ha come fine la
soppressione di alcune autonomie determinando questa voluta anomalia: nel
momento in cui si tagliano delle autonomie si vuole dare un peso maggiormente
autonomista allo Stato stesso. In generale l’autonomia significa allargare la
democrazia di base, allargare la democrazia partecipativa, invece quello che
sembra emergere da questa riforma è una logica accentratrice, una logica “autoritaria”,
sia a fini istituzionali che a fini economici. Vediamo perché.
Va ricordato che l’ente locale è un ente pubblico che
agisce in un territorio circoscritto per attuare obiettivi in prevalenza locali.
[21] Questi enti hanno autonomia giuridica e politica e possono amministrare i
propri interessi in maniera diretta. [22]
Si sostiene che:”Gli Enti locali rappresentano il crocevia
dei bisogni e delle esigenze dei cittadini; dell’assetto e delle
trasformazioni economiche del territorio; dei servizi pubblici che affrontano la
loro riorganizzazione in base al decentramento dei poteri; delle Regioni che,
con la definizione dei nuovi statuti e, in virtù dell’autonomia finanziaria,
potranno determinare non solo gli indirizzi programmatori dello sviluppo, ma,
intervenire direttamente nella sua gestione”. [23]
A questo proposito, infatti, va ancora ricordata la legge
(legge 8 giugno 1990, n. 142 sull’Ordinamento delle autonomie locali,
modificata dall’art. 274 del T.U. enti locali approvato con d.lgs. 18 agosto
2000, n. 267) che all’art.22 recitava testualmente:
“1. I comuni e le province, nell’ambito delle rispettive
competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per
oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a
promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali. 2. I servizi
riservati in via esclusiva ai comuni e alle province sono stabiliti dalla legge.
3. I comuni e le province possono gestire i servizi pubblici nelle seguenti
forme:
a) in economia, quando per le modeste dimensioni o per le
caratteristiche del servizio non sia opportuno costituire una istituzione o una
azienda;
b) in concessione a terzi, quando sussistano ragioni
tecniche, economiche e di opportunità sociale;
c) a mezzo di azienda speciale, anche per la gestione di più
servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale;
d) a mezzo di istituzione, per l’esercizio di servizi
sociali senza rilevanza imprenditoriale;
e) a mezzo di società per azioni o a responsabilità
limitata a prevalente capitale pubblico locale costituite o partecipate dall’ente
titolare del pubblico servizio, qualora sia opportuna in relazione alla natura o
all’ambito territoriale del servizio la partecipazione di più soggetti
pubblici o privati”.
Ormai si va verso il totale superamento di tale impostazione in quanto si fa
prevalere la logica dell’efficienza di impresa, quindi le leggi del mercato e
del profitto, nella gestione dei servizi pubblici locali, attuando processi di
liberalizzazione e privatizzazione che avendo rilevanza imprenditoriale
trasformano il servizio pubblico in un vero complessivo business locale. Il
superamento delle precedenti normative ed impostazioni è nei fatti [24], già a partire dal nuovo ruolo assegnato
alla complessiva riorganizzazione generale che ha visto l’attuarsi di una
sfrenata liberalizzazione dei servizi pubblici nell’ambito di un sempre più
diffuso ricorso alla “privatizzazione” delle aziende che sono diventate “società
per azioni” e quindi soggette in tutto alla legge del mercato, alla
concorrenza, alla “globalizzazione”, applicando gli stessi principi di
flessibilità in uso nel privato.
“Il termine flessibilità sembra ormai diventato uno slogan
che si riferisce a pressoché qualunque cosa le imprese ritengano utile per
accrescere la propria competitività e a qualunque ricetta per combattere la
disoccupazione... La flessibilità numerica si riferisce alla possibilità di
adeguare il numero di lavoratori occupati alle fluttuazioni della domanda o all’innovazione
tecnologica... La flessibilità funzionale si riferisce invece alla possibilità
di adeguare le mansioni svolte dai dipendenti ai mutamenti della domanda. Ciò
significa che deve essere abbastanza agevole spostare un dipendente da una
mansione all’altra o da un reparto all’altro, oppure variare il contenuto
della mansione stessa... La flessibilità salariale riguarda la misura in cui il
management è libero di variare i salari e le strutture retributive in risposta
ai mutamenti nel mercato del lavoro o nelle condizioni di concorrenza; ovvero di
applicare livelli salariali diversi da quelli stabiliti dagli accordi collettivi
o, in taluni paesi dalla legislazione. Questo tipo di flessibilità può essere
verso l’alto, come nel caso degli incentivi, o verso il basso, quando non
esistono minimi salariali stabiliti dalla legge o dalla contrattazione, o quando
sono ammesse deroghe per particolari gruppi occupazionali, aree geografiche, ecc...
Infine la flessibilità temporale riguarda la possibilità di adattare l’ammontare
totale di forza lavoro utilizzata ai mutamenti ciclici o stagionali della
domanda, variando il numero di ore lavorate in un giorno, settimana o anno
anziché il numero di persone occupate (Adam e Canziani, 1997). Gli esempi più
noti sono quelli del lavoro straordinario, il part-time, e i vari accordi per
fare fronte alle punte di produzione ricorrendo a riposi compensativi.”
[25]
La legge di riforma del pubblico impiego ratifica l’idea di
conformare le norme di gestione del personale pubblico a quello privato,
rimuovendo il formalismo burocratico e cambiando il concetto di pianta organica
con quello della dotazione organica, per ottenere una maggiore flessibilità
nella gestione del rapporto di lavoro. Il personale pubblico diviene un fattore
di produzione e quindi diventa rimovibile a seconda dei cambiamenti nell’organizzazione
e nelle strategie dell’ente. Considerato che viene prevista la revisione
periodica delle dotazioni organiche, è chiaro che si abbandona qualsiasi tipo
di schematismo rigido (come se fosse possibile considerare schematismo rigido la
sicurezza di un posto di lavoro!). I lavoratori diventano quindi, come nel caso
del rapporto di lavoro privato, passibili di essere sottoposti a normative ma
anche a compiti e logiche che rispondono a finalità di efficienza produttiva
orientata all’ottimizzazione del rapporto costi/benefici in ambiti di
incrementi di produttività come nel caso dei datori di lavoro privati.
Il termine “efficienza“ in genere in un’azienda privata
è il risultato di una serie di rapporti e di parametri basati su un’entità
di costi a numeratore e su un’entità di ricavi a denominatore; un rapporto
tra input e output. Il ragionamento dell’imprenditore è: a fronte di un
determinato risultato che voglio raggiungere, quali sono i costi che posso
sopportare. Consideriamo che già ci troviamo in una società terziarizzata
quale è la nostra - le ultime proiezioni di più di un anno fa davano nel 2010
una società italiana con il 70% dell’occupazione nel terziario (fino a
pochissimi anni fa questo 70% era nell’industria); una società in assoluta
trasformazione, una società che ha visto un intenso processo evolutivo in
termini di assetto produttivo, che anche sul piano culturale e sociale è
cambiata moltissimo in questi ultimi 10-15 anni e continua a trasformarsi in
chiave prettamente terziaria, dove un ruolo fondamentale ancora, in questo
terziario lo dovranno avere i servizi pubblici. In una società così fortemente
terziarizzata qualsiasi analisi statistica, qualsiasi studio
statistico-economico, rivela una grandissima difficoltà nell’andare a
determinare la produttività del lavoro. In tutte le relazioni connesse alla
riforma della PA si parla di incremento di efficienza e di produttività e
quindi si ha il problema: quali sono i costi che si andranno a tagliare, e
questo è il primo problema, perché non si può determinare da subito un
incremento di profitto per quanto riguarda i servizi pubblici proprio per la
loro natura. Quindi in quegli indicatori di efficienza di cui si scriveva prima
probabilmente non è tanto in gioco l’aumento del profitto, quanto l’obiettivo
della riforma è la riduzione dei costi, in particolare di quelli del lavoro. E
così si arriva al problema della produttività.Un coefficiente di produttività
qualsiasi si determina facendo un rapporto tra valore aggiunto, per esempio, e
costo del lavoro oppure numero degli occupati o numero delle ore lavorate. Il
valore aggiunto nella costruzione di una penna è immediatamente rilevabile come
il prezzo della penna, quindi il valore delle vendite potenziali della penna, e
da questo si detraggono i costi intermedi, i costi per le materie prime, per
esempio, per i beni e servizi, che sono all’interno di questa penna, di natura
intermedia; appunto la differenza dà il valore aggiunto. Questo valore aggiunto
diviso per il costo del lavoro, oppure per il numero di ore lavorate, o per il
numero dei lavoratori, ci fornisce la produttività del lavoro. Se è facile
rilevare il valore aggiunto di una penna è estremamente difficile rilevare il
valore aggiunto di un qualsiasi servizio. Qual è il valore aggiunto di una
visita medica, qual è il valore aggiunto di una lezione di un docente, qual è
il valore aggiunto di un servizio effettuato da un portantino all’interno di
un ospedale? Per esempio, per qualsiasi servizio a forte contenuto di
conoscenza, di know-how, di apprendimento, ecc., è difficile calcolare l’introito
di capacità, di know-how, di conoscenze, di informazione, di preparazione, di
professionalità del lavoratore. È ancora più difficile la rilevazione per i
servizi della PA in quanto proprio come definizione non hanno un prezzo di
mercato; la PA fornisce dei servizi senza una controprestazione immediata in
denaro. Cioè da un punto di vista statistico-economico il servizio prestato è
gratuito, è gratuito perché non c’è una domanda immediata di mercato, il
servizio viene “pagato” nel momento in cui a posteriori c’è l’imposizione
fiscale e quindi ci sono le entrate nel bilancio dello Stato. Per cui il primo
problema che ci poniamo immediatamente qual è? Manca il primo parametro, cioè
il valore aggiunto, perché non è determinabile facilmente per i servizi in
genere. Inoltre di fatturato della PA, in effetti, non si può parlare, quindi
non solo non è determinabile facilmente il valore aggiunto di un servizio, ma
in particolare per un servizio pubblico non è neppure rilevabile il prezzo di
mercato. Per cui se già la determinazione del valore aggiunto e quindi del
prodotto lordo, diciamo come ragionamento generale, è difficilmente
determinabile per il terziario in sé, allora diventa ancora più difficile per
quanto riguarda la PA proprio perché non c’è, diversamente per quanto
avviene per il servizio privato, un prezzo di mercato, e quindi la
determinazione del valore aggiunto può avvenire solo per via indiretta. E
allora, quando si parla in queste relazioni connesse alla riforma e alla
modifica dei ministeri con un criterio di accorpamento in modo da rendere i
servizi più efficienti e nello stesso tempo si parla di maggiore efficacia e di
quindi maggiore produttività, di quale produttività si parla? Significa
aumento della produttività è ottenibile solo attraverso la riduzione del
denominatore del rapporto di produttività, cioè del costo del lavoro, quindi
il “taglio delle teste”, cioè meno occupazione. Cio significa tagliare
fortemente il costo del lavoro diretto ma ci sono forme di taglio anche di costo
di lavoro in forma indiretta, per esempio l’aumento dei carichi di lavoro, l’aumento
dei ritmi, e l’incremento di una produttività che è comunque difficilmente
misurabile. Un esempio semplice per capire questo passaggio: nella produzione
delle penne se un operaio invece di produrre in un’ora due penne produce dieci
penne è più produttivo, e quindi è più efficiente per l’impresa. Portare
questo stesso criterio con gli stessi parametri nella Pubblica Amministrazione
significa, per fare un esempio, che l’infermiere o il portantino che nella
giornata riesce ad accudire invece che due malati dieci malati, è più
efficiente ed è più produttivo. Lo sarà certo per quell’impresa Italia di
chi vuole imporre scelte di privatizzare la funzione pubblica, non lo è
sicuramente per il lavoratore e non lo è sicuramente per il povero malato che
sicuramente ha un minor livello di attenzione e di cure. Quando si trasferiscono
in maniera immediata i parametri dell’azienda privata, della produttività,
del mercato, nell’azienda pubblica, bisognerebbe prestare particolare
attenzione. Tranne che, non si voglia fare anche del pubblico un gran mercato
privato, con regole del privato e quindi logiche di profitto, logiche di
profitto che stanno passando anche all’interno del Welfare State nella
trasformazione verso il Profit State.
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4. Il dirigente-manager: il nuovo “padroncino imprenditore” nell’impresa
del business pubblico
La riforma del pubblico impiego avvicina anche il settore
della dirigenza a quello dei dirigenti privati.
Il vecchio tipo di rapporto di pubblico impiego, basato su
gerarchie e formalità, su ruoli assicurati dal giudice amministrativo è ora
sostituito da un modello diverso, basato sulla cosiddetta “flessibilità” e
“mobilità” e verso un’idea dell’azienda -Stato come impresa della “Federal
Business Revolution”.
L’art.51 bis della legge 142/90 stabilisce la possibilità
per i comuni con più di 15.000 abitanti, di nominare un direttore generale che
deve sovrintendere la gestione del comune cercando di raggiungere i migliori
livelli di efficienza e efficacia. Infatti la legge 127/97 recita: “10. Dopo l’articolo
51 della legge 8 giugno 1990, n. 142, è inserito il seguente:
Art. 51-bis - Bassanini bis - (Direttore generale).
1. Il sindaco nei comuni con popolazione superiore ai 15.000
abitanti e il presidente della provincia, previa deliberazione della giunta
comunale o provinciale, possono nominare un direttore generale, al di fuori
della dotazione organica e con contratto a tempo determinato, e secondo criteri
stabiliti dal regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi, che
provvede ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di
governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente
della provincia, e che sovrintende alla gestione dell’ente, perseguendo
livelli ottimali di efficacia ed efficienza. Compete in particolare al direttore
generale la predisposizione del piano dettagliato di obiettivi previsto dalla
lettera a) del comma 2 dell’articolo 40 del decreto legislativo 25 febbraio
1995, n. 77, nonchè la proposta di piano esecutivo di gestione previsto dall’articolo
11 del predetto decreto legislativo n. 77 del 1995. A tali fini, al direttore
generale rispondono, nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti
dell’ente, ad eccezione del segretario del comune e della provincia.
2. Il direttore generale è revocato dal sindaco o dal
presidente della provincia, previa deliberazione della giunta comunale o
provinciale. La durata dell’incarico non può eccedere quella del mandato del
sindaco o del presidente della provincia.
3. Nei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti è
consentito procedere alla nomina del direttore generale previa stipula di
convenzione tra comuni le cui popolazioni assommate raggiungano i 15.000
abitanti. In tal caso il direttore generale dovrà provvedere anche alla
gestione coordinata o unitaria dei servizi tra i comuni interessati...”
Ora il nuovo art.22 della legge 142 del 1990 stabilisce che
“Gli enti locali, nell’esercizio delle funzioni di loro competenza,
provvedono ad organizzare i servizi pubblici, o segmenti di esse, con le
modalità di cui al presente articolo, ove il relativo svolgimento in regime di
concorrenza non assicuri la regolarità, la continuità, l’accessibilità, la
economicità e la qualità dell’erogazione in condizioni di uguaglianza...”. [26]
Ed allora è lecito chiedersi quali nuove funzioni specifiche
deve avere in generale il dirigente dell’impresa-Stato?
Gli art. 16 e 17 del d.lgs.n.29/93 stabiliscono la distribuzione dei compiti
e delle funzioni, sia dei dirigenti degli uffici dirigenziali generali sia di
quelli degli altri uffici dirigenziali [27]. Si stabilisce, tra
l’altro, che ai dirigenti spetta la responsabilità della gestione in modo
totale, comprendendo anche il potere di utilizzare provvedimenti amministrativi
non espressamente riservati agli organi politici. I dirigenti possono fare delle
proposte all’organo politico anche attraverso l’adozione di programmi e
piani definiti dal Ministro. Quest’ultimo, infatti, controlla l’operato dei
dirigenti attraverso nuclei di valutazione composti da esperti tecnici; il
Ministro comunque non può revocare o riformare le azioni proposte dai dirigenti
se non in caso di annullamenti dovuti a motivi di legittimità o di annullamento
straordinario. Vi è inoltre una ulteriore forma di controllo degli atti dei
dirigenti, ossia quella esercitata dal Parlamento sull’attività del governo,
dalla Magistratura (in merito alla legittimità) e dalla Corte dei Conti
(controllo della contabilità pubblica).
Il dirigente statale, in sostanza, diventa nei rapporti con il personale come
il datore di lavoro dei rapporti privati, un nuovo dirigente-manager con il
ruolo di padroncino-imprenditore. Infatti, [28] in sostanza, mentre i politici emanano gli atti normativi,
definiscono gli obiettivi, i programmi, e hanno la possibilità di fare delle
nomine ed assegnare degli incarichi, i dirigenti amministrativi dovranno gestire
il personale stimolandolo e coordinandolo al meglio ed inoltre hanno il compito
di gestire finanziariamente, tecnicamente e amministrativamente organizzando le
risorse umane e le strutture, anche attraverso una regolazione delle spese nell’ambito
delle risorse economiche attribuite; i dirigenti devono anche organizzare gli
uffici le attività di controllo e i rapporti con i sindacati. Si vede, in
questo senso, chiaramente il ruolo fondamentale da parte del dirigente-manager
soprattutto nello svolgere nuove funzioni di controllo coercitivo nei confronti
del personale, con logiche di gestione di rilevanza imprenditoriale in una
complessiva impresa del business pubblico. Infatti anche l’efficienza di un
dirigente si valuta in funzione del fatto che riesca o meno a raggiungere il
massimo risultato, con la migliore produttività e la massima efficienza.
Inoltre al dirigente amministrativo è richiesta anche, la
“giusta economicità dell’azione.....La PA ed i suoi dirigenti, che ne
effettuano il decision taking, sono insomma tenuti ex lege, ossia in base a
regole immodificabili e tendenzialmente permanenti, allo svolgimento di
attività legittime, eque e aperte alla partecipazione, che pervengano, quindi,
alla giusta efficacia” [29].
Tutto ciò è la conferma di affidare le funzioni pubbliche
ad una figura di manager che risponda ad una logica di mercato e ad una logica
di profitto incentrata sul taglio degli stipendi e taglio dell’occupazione,
quindi riduzione del costo del lavoro, politiche di efficienza e di
produttività privatistica all’interno della PA con agenzie che cominciano ad
essere delle “sottoaziende” private ancora compresenti nella struttura
pubblica, ma che poi dovranno sostituire interamente la struttura pubblica. Le
attività dello Stato vengono suddivise in missioni di business, cioè l’insieme
delle missioni dei ministeri costituisce i compiti dello Stato che sostituiscono
il ruolo di regolatore dei conflitti, come sovranità che dovvrebbe essere al di
sopra delle parti, per regolare conflitti che in una società normalmente sono
in essere; cioè uno Stato che dovrebbe fungere da regolatore per mettere
davanti gli interessi dei più bisognosi, dei meno abbienti, dei lavoratori
salvaguardando le fasce emarginate, quelle fasce marginali che appunto il
mercato non può assolutamente soddisfare. Oggi si supera questo tipo di logica
e si entra in un contesto assolutamente privatistico; le missioni allora sono
dei compiti che vengono a coordinare delle funzioni, che sono funzioni però di
uno Stato che si fa parte e non sopra le parti. Siamo, cioè, al passaggio dal
“Welfare State”, cioè lo Stato che doveva fare gli interessi anche dei più
deboli e quindi si doveva occupare anche delle politiche di benessere, al “Profit
State”, cioè lo Stato che non è più regolatore, non è più sopra le parti,
ma diventa la lunga mano della Confindustria, la lunga mano degli interessi del
grande capitale, la lunga mano degli interessi finanziari di questo Paese e dei
grandi gruppi di potere economico-finanziario internazionali. Quando si comincia
a parlare di missioni con potere di vigilanza che rispettino dei criteri di
bilancio comparati alla logica di mercato, allora significa che si è fatta una
scelta o si sta facendo una scelta all’interno della PA, che è quella del
profitto, delle compatibilità di mercato.
5. Privatizzazioni centrali e locali: la “Federal Busienss Revolution”
invade il sociale
Nell’ottica della trasformazione della PA si è visto che
le nuove normative prevedono la dismissione da parte dello Stato di una grande
parte di imprese pubbliche che gestivano in precedenza la maggior parte dei
settori di grande interesse collettivo (acqua, elettricità, trasporti, sanità,
istruzione, ecc.), anche a carattere di servizi pubblici locali.
Va innanzitutto ricordato che il programma di
privatizzazioni [30] prende definitiva forma nel nostro Paese negli anni ’80 e si
realizza seguendo tipologie diverse, soprattutto per tentare di rispondere a
logiche macro di politica-economica a connotati di liberismo puro, e a logiche
micro legate a modalità produttive e finalità gestionali adatte al tipo di
azienda considerata.
In Italia, a differenza degli altri paesi europei, non è
stata promulgata inizialmente alcuna legge, né si è svolto alcun tipo di
dibattito politico o sindacale sul processo di privatizzazione. Questa
situazione ha permesso ai grandi gruppi privati di diventare i maggiori
acquirenti delle imprese da cedere ed ha relegato i piccoli risparmiatori al
ruolo di spettatori ai margini del processo di privatizzazione.
Per quanto concerne i servizi pubblici a livello locale
(ci si riferisce al trasporto, alla luce, al gas, ai rifiuti urbani, alla
sanità, alla gestione di parchi e giardini), va ricordato che la formula di
solito adottata nel passaggio dalla gestione pubblica a quella privata, è stata
quella dell’appalto ad imprese private. Sono stati, cioè, affidati i compiti
di erogazione dei servizi ad aziende private che vengono direttamente o
indirettamente finanziate dall’autorità locale, la quale si riserva di
operare solo una sorta di controllo e di direzione dei lavori.
Lo stimolo alle privatizzazioni é stato - soprattutto negli
ultimi dieci anni - la necessità di risanare le finanze pubbliche, anche a
seguito delle pressioni derivarti dai processo di unificazione europea, e dei
conseguenti parametri di Maastricht di vero “soffocamento di ogni
compatibilità sociale”.
Il primo grande smobilizzo di attività nel sistema delle
Partecipazioni Statali si è avuto negli anni ’80 con oltre 70 casi di
dismissione dei principali enti di gestione (39 attribuibili all’IRI, 15 all’EFIM
e 21 all’ENI). Nel triennio successivo (1986-89) si rafforzano le tendenze
decisionali più di natura politica che di necessità economico-gestionale, in
modo da iniziare a coinvolgere nel processo di privatizzazione aziende e marchi
simbolo dell’economia italiana, coinvolgendo nei processi di cessione tutti e
tre i maggiori enti di gestione (IRI, ENI, EFIM).
Negli anni ’90 si è verificato in Italia il vero e proprio
processo di privatizzazione con l’intento di ridimensionare la presenza
pubblica nell’intero sistema produttivo del Paese. Le azioni del Governo di
questi anni confermano la volontà di attuare un programma completo di
dismissione delle aziende pubbliche per risolvere i problemi produttivi ed
economici dell’Italia.
Questo processo si è avviato in concomitanza alla
costituzione del Mercato Unico Europeo (1992). Gli intensi processi di
globalizzazione dell’economia a livello mondiale hanno portato il nostro Paese
a cercare una ipotetica soluzione dei problemi della concorrenza internazionale
con la cessione ai privati di interi settori di attività, ritenuti
inefficienti, con l’obiettivo di risanare in questo modo una situazione ormai
compromessa.
È a partire dal 1990 con la costituzione di una Commissione
Ministeriale (Commissione Scogamiglio), seguita poi da altri programmi di
Governo (Governo Andreotti 1991) che si è dato l’avvio a una serie di
interventi legislativi atti a delineare un programma di privatizzazione delle
imprese pubbliche. -----
Con la legge del 1992 n.35 erano state previste due fasi;
nella prima si attuava la trasformazione delle Aziende Autonome e degli Enti
pubblici in società per azioni; nella seconda fase invece si procedeva alla
vendita delle azioni pubbliche. Questo programma ha presentato però molte
difficoltà, dovute soprattutto al fatto che le imprese presentavano realtà
molto diverse tra loro.
Con il “programma di riordino delle partecipazioni
statali“ della legge 359/92 si stabilisce che occorre:
• valorizzare le partecipazioni con la previsione di
cessione di attività o settori d’azienda, con gli scambi di partecipazioni e
con le fusioni, incorporazioni ed ogni altro atto necessario al riordino;
• quotare le società partecipate e definire il ricavo
destinato alla diminuzione del debito pubblico;
• favorire l’azionariato diffuso con premi di
fedeltà azionaria e agevolazioni fiscali, evitando assetti proprietari
instabili;
• limitare le dismissioni di attività considerate
strategiche sotto il profilo pubblico;
• favorire la nascita di nuovi investitori istituzionali.
Il Governo Amato ha dato l’avvio effettivo alle operazioni
proposte in precedenza (legge dell’8 Agosto 1992, n.359) con la
privatizzazione dell’IRI, dell’ENEL, dell’ENI e dell’INA, trasformate in
società per azioni.
A legittimare definitivamente gli strumenti nel nostro
ordinamento per un indiscriminato ricorso alle privatizzazioni, è stato il
decreto legge 389 del 27 settembre 1993 con il quale il Governo Ciampi, ha
impresso una brusca accelerazione al processo di definizione del quadro
istituzionale in cui si collocano le strategie di privatizzazioni. Dopo un primo
incerto tentativo con il decreto legge del dicembre 1991, questo processo aveva
conosciuto un avvio più deciso con il decreto 333 dell’11 luglio 1992, poi
convertito con modifiche nella legge 3 59 dell’8 agosto 1992.
Quel provvedimento disponeva, con effetto immediato, la
trasformazione di IRI, ENI, ENEL, e INA in società per azioni, semplificava
più in generale la procedura di trasformazione in S.p.A. degli enti pubblici
economici, e individuava nel Ministero del Tesoro l’azionista unico delle
nuove società.
Sempre in base alla legge 3 59/1992, il Ministero del Tesoro
era tenuto a sottopone al Parlamento un “ Piano di riordino e privatizzazione
delle partecipazioni dello Stato”, rispetto al quale le Commissioni
Parlamentari competenti dovevano esprimere un parere non vincolante.
Se si prendono in esame i singoli settori del servizio
pubblico si ricorda che ad esempio per quanto riguarda il settore idrico si è
avuta una quasi totale trasformazione delle aziende pubbliche in società per
azioni (ad esempio a Roma l’ACEA); anche nel settore del gas è stata varata
una legge che prevede la liberalizzazione del mercato.
Si comprende quanto ha inciso in questa situazione la
progressiva trasformazione di quasi tutte le aziende municipalizzate in società
per azioni (processo iniziato nel nostro Paese dalla seconda metà degli anni
‘90; tra i gruppi principali che hanno investito nelle imprese municipalizzate
si ricorda l’ENI, l’AEM ecc.).
Per quanto riguarda i rapporti che si instaurano tra
erogatore e committente va rilevato che il nostro Paese, seguendo l’esempio
dei paesi anglosassoni, ha introdotto i cosiddetti “Contratti di servizio”
che servono a gestire il rapporto tra la pubblica Amministrazione e l’azienda
appaltatrice del servizio, mentre la “Carta dei servizi” serve per regolare
i rapporti tra i cittadini (gli utenti) e l’azienda erogatrice del servizio.
Per regolare la Carta dei servizi vi è una direttiva conosciuta come Direttiva
Ciampi (del 1994) che determina le regole da seguire per l’erogazione dei
servizi.
È interessante sottolineare che i fondamentali principi in
cui si struttura la direttiva:
“a) enunciazione dei principi fondamentali cui devono
attenersi i soggetti che erogano un servizio pubblico:
- eguaglianza: parità di trattamento sia fra le diverse aree
geografiche di utenza, sia fra le diverse categorie o fasce di utenti;
- imparzialità: divieto di ingiustificate discriminazioni
dei soggetti erogatori nei confronti degli utenti;
- continuità: erogazione continua, regolare e senza
interruzioni;
- diritto di scelta: tra i diversi soggetti che erogano il
servizio;
- partecipazione: del cittadino alla prestazione del servizio
(il c.d diritto di accesso);
- efficienza ed efficacia: sia in termini assoluti che in
termini relativi.
b) adozione degli standard di qualità e quantità del
servizio...
c) semplificazione delle procedure relative agli atti
concernenti la prestazione di servizio pubblico...
d) informazione degli utenti circa le modalità di
prestazione dei servizi;
e) verifiche sulla qualità e l’efficienza dei servizi
prestati;
f) rimborso nei casi in cui il servizio è inferiore, per
qualità e tempestività, agli standard pubblicitari;
g) procedure di reclamo dell’utente...
h) sanzioni per la mancata osservanza della Direttiva...”. [31]
Anche se con questa direttiva si dichiara di tutelare i
cittadini è chiaro che la sostituzione delle aziende pubbliche (che dovrebbero
tutelare gli interessi della collettività) con aziende private che hanno come
fine ultimo il profitto non può che accentuare i disagi già esistenti di
larghe fasce della popolazione.
Il processo di liberalizzazione e privatizzazione della
erogazione e produzione dei servizi pubblici in effetti sta operando un
sostanziale mutamento nel ruolo dello Stato che si ritrova a “regolare” e
non più “amministrare” i servizi pubblici. I cittadini instaurano così un
diverso rapporto con lo Stato e soprattutto con le imprese che gestiscono i
servizi. Di qui i cittadini che diventano “utenti” e “clienti” nelle due
direzioni sia rispetto ai processi di privatizzazioni in atto delle imprese sia
in quelli relativi al Welfare.
Qual è la considerazione finale? In effetti, se si
confrontano le linee di intervento che si propone questa riforma della Pubblica
Amministrazione si nota che l’unico modo per raggiungere l’efficienza e
quello di arrivare ad una veloce privatizzazione di interi comparti e di interi
settori dell’Amministrazione Pubblica e di tagliare il costo del lavoro e
diminuire l’occupazione nel pubblico impiego.Ciò passa sia per il taglio del
Welfare State, e quindi scuola, sanità, formazione, lavoro, passaggio ai fondi
pensioni, quindi obbligo di tagli pensionistici e ricorso ai fondi privati, e
con la mancanza assoluta di compatibilità delle politiche keynesiane. Questa
riforma dell’organizzazione della PA usa come criterio di privatizzazione
selvaggia non soltanto quello del taglio diretto del costo del lavoro e quindi
il blocco delle assunzioni, ma anche il taglio indiretto, e ciò significa
ricorso alle agenzie private, delocalizzazione produttiva anche per quanto
riguarda i servizi pubblici; una parte dei beni necessari per i servizi pubblici
dovranno, cioè, essere prodotti all’estero, e questo comporterà una
riduzione del personale e del costo complessivo del lavoro e quindi dei
contributi versati per la sanità e per le pensioni. Fino a qualche anno fa nel
nostro paese erano compatibili le politiche keynesiane, e ciò significava,
quindi, profitto ma parallelamente sviluppo; oggi lo sviluppo non è più
possibile, non è più compatibile perché non è bastato raggiungere i
parametri di Maastricht, ma si trasforma radicalmente la forma e il ruolo dello
Stato. Allora “le lacrime e il sangue” dovranno continuare per mantenere una
logica privatizzatrice e di parametrizzazione finanziaria a danno della spesa
sociale e degli investimenti pubblici. Questa è comunque la filosofia, l’impostazione
e le scelte insite nella complessiva riforma della Pubblica amministrazione che
si configura come passaggio dal Welfare State al Profit State nella più
generale “Federal Business Revolution”.
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Decentrare!, Quaderni di CentroVeneto, Quadrimestrale dell’Associazione
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Enti Locali, Atti della Terza Conferenza nazionale sulla misurazione dell’azione
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di interesse regionale (1991-1992) (atti del seminario di aggiornamento
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[1] Cfr. “Gli Sciamani del federalismo” in Contropiano, giornale per l’iniziativa
politica e di classe, Novembre 2000, pag. 1.
[2] L’art.2.del Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 sulla
Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e
revisione della disciplina in materia di pubblico impiego cita: “Per
amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi
compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni
educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le
regioni, le provincie, i comuni, le comunità montane, e loro consorzi ed
associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari,
le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro
associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e
locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario
nazionale”.
[3] Cfr. “Enciclopedia
dell’Economia Garzanti”, Garzanti editore, 1992.
[4] Cfr. A.Quadro Curzio,
M.Fortis (a cura di),”Le liberalizzazioni e le privatizzazioni dei servizi
pubblici locali”, Il Mulino, Bologna, 2000, pag.34.
[5] G.V. Lombardi, “L’ordinamento degli enti locali”, il Sole24 ore,2000,
Milano, pag.27.
[6] Si veda Alvaro
G., “Contabilità Nazionale e Statistica Economica”, Cacucci edit., Bari,
1999.
[7] Va ricordato che l’art. 1 della Legge n. 241 del 7 agosto 1990 cita:
“1. L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è
retta da criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità secondo le
modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che
disciplinano i singoli procedimenti”.
[8] Cfr. S. Russo, “Il
management amministrativo. Ruolo unico, controllo e responsabilità”, Giuffrè
edit., Milano 2000, pag.39.
[9] Cfr.R.Fassa, Federalismo,
in Impresa e Stato, http://impresa-stato.mi.camcom.it/im_39/fassa.htm.
[10] Cfr. M Balducci, E. Forni: “L’incentivazione
della produttività e i nuovi contratti collettivi del comparto enti locali”;
Maggioli ed., Rimini, 1996, pag.8.
[11] La legge
59/97 - Bassanini 1 all’art.2 cita testualmente: “Sono conferite alle
regioni e agli enti locali, nell’osservanza del principio di sussidiarietà di
cui all’articolo 4, comma 3, lettera a), della presente legge, anche ai sensi
dell’articolo 3 della legge 8 giugno 1990, n. 142, tutte le funzioni e i
compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione
dello sviluppo delle rispettive comunità, nonchè tutte le funzioni e i compiti
amministrativi localizzabili nei rispettivi territori in atto esercitati da
qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrali o periferici, ovvero
tramite enti o altri soggetti pubblici”.
[12] La legge 127/97 - Bassanini bis recita: Art. 1. “Semplificazione
delle norme sulla documentazione amministrativa. “1. Entro dodici mesi dalla
data di entrata in vigore della presente legge, con uno o più regolamenti da
adottarsi ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n.
400, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, il Governo adotta
misure per la semplificazione delle norme sulla documentazione amministrativa.
Le Commissioni si esprimono entro trenta giorni dalla data di trasmissione.
Decorso tale termine il decreto è emanato anche in mancanza del parere ed entra
in vigore novanta giorni dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale...
3. Il regolamento si conforma, oltre che ai princìpi contenuti nell’articolo
18 della legge 7 agosto 1990, n. 241, ai seguenti criteri e princìpi direttivi:
a) eliminazione o riduzione dei certificati o delle
certificazioni richieste ai soggetti interessati all’adozione di provvedimenti
amministrativi o all’acquisizione di vantaggi, benefìci economici o altre
utilità erogati da soggetti pubblici o gestori o esercenti di pubblici servizi
...”
[13] Cfr.
www: palazzochigi.it/approfondimenti/convegno_pa/federalismo.it.
[14] Cfr.Laimer Armuzzi: “La riforma e il
decentramento della Pubblica Amministrazione”, in Quale Stato, Trimestrale
CGIL, Roma, n..3/2000, pag.203.
[15] Cfr. M. Balducci, “Managerialità
e sussidiarietà: due sfide per il governo locale”, Franco Angeli edit., 1996,
pag.221.
[16] Cfr. Laimer Armuzzi: “La riforma e il
decentramento della pubblica...”, op. cit. pag.196.
[17] Cfr. G.V. Lombardi, “L’ordinamento
degli...”, op. cit. pag.30.
[18] Cfr. www:
palazzochigi.it/approfondimenti/convegno_pa/federalismo.it.
[19] A questo proposito
cfr. www:palazzochigi.it/approfondimenti/riforma_pa/governo_intro.html.
[20] Cfr. www:
palazzochigi.it/approfondimenti/riforma_pa/governo_intro.html.
[21] Per questi argomenti cfr. G.V. Lombardi, “L’ordinamento degli....”, op.
cit.
[22] Gli enti locali possono essere
territoriali (come ad es. il comune, la provincia, le aree metropolitane, le
comunità montane, ecc.) o non territoriale (come ad es. gli ordini
professionali, le ASL, ecc.; in questo caso non è rilevante l’ampiezza del
territorio). La nostra Costituzione all’art.1 stabilisce che lo Stato è l’unico
Ente munito di sovranità che “appartiene al popolo”; la Regione invece è
un ente territoriale con potere legislativo (le materie sono stabilite dall’art.117),
mentre i Comuni e le Provincie sono Enti autonomi con norme regolate da leggi
ordinarie. Gli enti locali sono forniti di autonomia di indirizzo politico
amministrativo che si può differenziare in: autonomia organizzativa, nel senso
che l’ente può avere una propria organizzazione con disposizioni apposite,
autonomia normativa perché l’ente può promulgare leggi (anche se secondarie
e se formalmente si tratta di atti amministrativi) per regolare il proprio
funzionamento, ed infine autonomia contabile e finanziaria perché ha la
possibilità di gestire le proprie risorse finanziarie ottenute anche attraverso
i tributi. Inoltre l’ente deve approvare il bilancio. Gli enti pubblici locali
possono anche avere la possibilità di svolgere una attività amministrativa
allo stesso livello della amministrazione statale varando atti giuridici. Gli
enti locali sono, quindi, dotati oltre che dell’autonomia anche di autarchia
ossia “ L’autarchia è, in buona sostanza, la capacità di agire per il
conseguimento dei propri fini, mediante l’esercizio di una attività
amministrativa, con le stesse potestà che caratterizzano l’amministrazione
dello Stato... come nello Stato si distinguono i tre poteri fondamentali
legislativo, esecutivo e giurisdizionale, negli altri enti substatali, sforniti
dell’attributo della sovranità, si rinvengono tre analoghe potestà; l’autonomia,
l’autarchia e l’autotutela”.Cfr. G.V. Lombardi, “L’ordinamento degli...”,
op. cit., pag.41,42.
[23] Cfr. Pagliarini G., “
Contrattazione nazionale e contrattazione collettiva nelle autonomie locali”,
in Quale Stato, Trimestrale CGIL, Roma, n..3/2000, pag.139
[24] “La
gestione in economia, per il suo carattere generico rispetto alle altre
forme specificatamente previste, è da considerarsi residuale. Essa è
attivabile per i servizi pubblici di modeste dimensioni... per l’assunzione
del servizio con la gestione in economia è necessaria l’adozione di un’apposita
deliberazione del consiglio comunale...
La concessione dei servizi a terzi ha carattere
eccezionale nel senso che può essere rilanciata per particolari ragioni
tecniche, economiche e di opportunità sociale... La struttura del rapporto
concessionario fa sì che l’Ente locale resti il dominus del rapporto
giuridico, in ragione della supremazia che, in qualche modo, è insita nel
soggetto pubblico che ha il potere di rilasciare la concessione...
L’azienda speciale... assicura la gestione dei servizi
che abbiano rilievo economico e imprenditoriale. L’azienda diventa, in tal
modo, un Ente strumentale dell’Ente locale, dotato di personalità giuridica,
di autonomia imprenditoriale e di un proprio Statuto...
L’Istituzione... è dotata di autonomia gestionale e
i relativi funzionamento e ordinamento sono disciplinati dallo Statuto e dai
regolamenti dell’Ente locale dal quale dipende...
La società per azioni o a responsabilità limitata a
prevalenza pubblica locale... serve a gestire quei servizi per i quali si renda
necessario il concorso associativo dei privati”. Cfr. G.V. Lombardi, “L’ordinamento
degli...”, op. cit. pag.112,113.
[25] M.Regini, “Modelli di capitalismo”, Ed. Laterza, 2000, pag.56,57,58.
[26] Cfr.
A. Quadro Curzio, M. Fortis (a cura di),”Le liberalizzazioni ...”, op. cit.,
pag.44.
[27] Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n.
29
Razionalizzazione dell’organizzazione delle Amministrazioni Pubbliche
e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego:
Art. 16 - Funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali
1. I dirigenti di uffici dirigenziali generali, comunque denominati, nell’ambito
di quanto stabilito dall’articolo 3 esercitano, fra gli altri, i seguenti
compiti e poteri:
a) formulano proposte ed esprimono pareri al Ministro, nelle materie di sua
competenza;
b) curano l’attuazione dei piani, programmi e direttive generali definite
dal Ministro e attribuiscono ai dirigenti gli incarichi e la responsabilità di
specifici progetti e gestioni; definiscono gli obiettivi che i dirigenti devono
perseguire e attribuiscono le conseguenti risorse umane, finanziarie e
materiali;
c) adottano gli atti relativi all’organizzazione degli uffici di livello
dirigenziale non generale;
d) adottano gli atti e i provvedimenti amministrativi ed esercitano i poteri
di spesa e quelli di acquisizione delle entrate rientranti nella competenza dei
propri uffici, salvo quelli delegati ai dirigenti;
e) dirigono, coordinano e controllano l’attività dei dirigenti e dei
responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con potere sostitutivo in
caso di inerzia, e propongono l’adozione, nei confronti dei dirigenti, delle
misure previste dall’articolo 21;
f) hanno il potere di conciliare e di transigere, fermo restando quanto
disposto dall’articolo 12, comma 1, della legge 3 aprile 1979, n. 103;
g) richiedono direttamente pareri agli organi consultivi dell’amministrazione
e rispondono ai rilievi degli organi di controllo sugli atti di competenza;
h) svolgono le attività di organizzazione e gestione del personale e di
gestione dei rapporti sindacali e di lavoro;
i) decidono sui ricorsi gerarchici contro gli atti e i provvedimenti
amministrativi non definitivi dei dirigenti;
l) curano i rapporti con gli uffici dell’Unione Europea e
degli organismi internazionali nelle materie di competenza secondo le specifiche
direttive dell’organo di direzione politica, sempreché tali rapporti non
siano espressamente affidati ad apposito ufficio o organo.
[28] L’art.4 della legge 59/97 -
Bassanini 1.decreta infatti: “Anche al fine di conformare le disposizioni del
decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, alle
disposizioni della presente legge e di coordinarle con i decreti legislativi
emanati ai sensi del presente capo, ulteriori disposizioni integrative e
correttive al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive
modificazioni, possono essere emanate entro il 31 dicembre 1997. A tal fine il
Governo, in sede di adozione dei decreti legislativi, si attiene ai princìpi
contenuti negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ai criteri direttivi di cui
all’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, a partire dal principio
della separazione tra compiti e responsabilità di direzione politica e compiti
e responsabilità di direzione delle amministrazioni, nonchè, ad integrazione,
sostituzione o modifica degli stessi ai seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) completare l’integrazione della disciplina del lavoro
pubblico con quella del lavoro privato e la conseguente estensione al lavoro
pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di
lavoro privato nell’impresa; estendere il regime di diritto privato del
rapporto di lavoro anche ai dirigenti generali ed equiparati delle
amministrazioni pubbliche, mantenendo ferme le altre esclusioni di cui all’articolo
2, commi 4 e 5, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29;
b) prevedere per i dirigenti, compresi quelli di cui alla
lettera a), l’istituzione di un ruolo unico interministeriale presso la
Presidenza del Consiglio dei ministri, articolato in modo da garantire la
necessaria specificità tecnica;
c) semplificare e rendere più spedite le procedure di
contrattazione collettiva; riordinare e potenziare l’Agenzia per la
Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (ARAN) cui è conferita
la rappresentanza negoziale delle amministrazioni interessate ai fini della
sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali, anche consentendo forme di
associazione tra amministrazioni, ai fini dell’esercizio del potere di
indirizzo e direttiva all’ARAN per i contratti dei rispettivi comparti;
d) prevedere che i decreti legislativi e la contrattazione
possano distinguere la disciplina relativa ai dirigenti da quella concernente le
specifiche tipologie professionali, fatto salvo quanto previsto per la dirigenza
del ruolo sanitario di cui all’articolo 15 del decreto legislativo 30 dicembre
1992, n. 502, e successive modificazioni, e stabiliscano altresì una distinta
disciplina per gli altri dipendenti pubblici che svolgano qualificate attività
professionali, implicanti l’iscrizione ad albi, oppure tecnico-scientifiche e
di ricerca;...”.
[29] Cfr. S. Russo, “Il management amministrativo...”,
op. cit., pag.185, 186.
[30] Cfr. in tema di privatizzazioni i numeri di Proteo 1/1998 e
2/1998.
[31]
Cfr. A. Quadro Curzio, M. Fortis (a cura di),”Le liberalizzazioni e le...”,
op. cit. pag.110,111,112.