I lavoratori nella “competizione globale” o nell’”imperialismo globale”?
Vladimiro Giacché
Osservazioni critiche sul saggio di Ernesto Screpanti
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5. Conclusioni... per riflettere
Al termine di questa disamina del contributo di Screpanti ci
sembra di poter dire che esso non ci aiuti ad interpretare i fenomeni più
importanti di questo scorcio di millennio. Fenomeni quali: la gerarchizzazione
tra Stati (con la subordinazione e talora lo smembramento di Stati non
appartenenti ai principali blocchi imperialistici); la perdurante importanza
delle politiche statuali, e semmai la loro sussunzione entro la più ampia
cornice costituita da entità sovranazionali (o superstatuali) quali l’Unione
Europea; il formarsi di due principali poli imperialistici (USA e Unione
Europea); la tendenza alla regionalizzazione degli scambi; l’accentuarsi delle
politiche esplicitamente protezionistiche; l’esplodere di guerre commerciali e
valutarie; l’intensificarsi delle crisi finanziarie; la lotta sempre più
accanita per il controllo delle materie prime e per estendere e consolidare la
propria zona d’influenza da parte dei principali poli imperialistici; la
preoccupante intensificazione, a partire dai primi anni Novanta, di vere e
proprie guerre (che sino ad oggi hanno preso la forma di conflitti “per
interposta persona”). Tutto questo resta fuori dal quadro dell’“imperialismo
globale” disegnato da Screpanti. La stessa accentuazione del ruolo crescente
delle istituzioni internazionali, in sé giusta (ancorché con la non
trascurabile eccezione dell’ONU...), non può essere condivisa se quel ruolo
è semplicemente giustapposto al ruolo degli Stati e se manca l’indicazione
che gli attori principali del processo - anche attraverso queste
istituzioni, che sovente svolgono il ruolo di “stanze di compensazione” dei
conflitti - sono i poli imperialistici che rappresentano i principali attori
dell’attuale fase di competizione globale; né è condivisibile la
considerazione a sé stante di “quei centri di governance “atomistici”
che passano per i cosiddetti “mercati”, cioè i soggetti economici,
soprattutto le imprese multinazionali”.
Tutto questo ricorda da vicino, a dispetto delle differenze
su singoli punti, la tesi di Negri e Hardt di un “Impero” senza Stato, senza
imperialismo, imperniato attorno ad una nozione di mercato mondiale dominato
dalle imprese multinazionali che “alla fin fine deve vincere sull’imperalismo
e distruggere le barriere tra dentro e fuori”; un Impero nel cui “spazio
omogeneo... non c’è un posto in cui risiede il potere - è in tutti i posti e
in nessun posto”. [1] Quantomeno, questo
è un rischio assai presente se - come fa Screpanti - definiamo l’“imperialismo
globale” come una “struttura intrinsecamente acefala”, limitandoci a
postulare l’esistenza di “una molteplicità di centri di governance”
che stanno in non meglio precisati “complessi rapporti di competizione e
cooperazione” tra loro.
E dire che fuggire dalle sirene dell’Impero, precisando un
po’ meglio la natura di tali “complessi rapporti”, sarebbe facile:
basterebbe ricordare che al Fondo Monetario Internazionale l’unico Stato con
diritto di veto sono gli Stati Uniti; che la maggior parte dei membri del board
di Fondo Monetario e Banca Mondiale provengono da Stati Uniti e Unione Europea;
che in una delle più gravi crisi finanziarie degli anni Novanta, la crisi dell’Asia
del 1997-8, organizzazioni sovranazionali, Stati Uniti e speculatori privati
hanno agito in oggettiva coordinazione tra loro. [2] Si potrebbe proseguire, ricordando che le
multinazionali USA della difesa e dell’energia hanno fornito al governo
statunitense parte cospicua dei suoi membri (a cominciare dal presidente e dal
vicepresidente), oltre a finanziare la campagna elettorale di Bush; oppure che l’intesa
franco-tedesca è nata sul terreno della collaborazione in campo aerospaziale (e
che Chirac non ha mancato di richiedere l’esenzione dal patto di stabilità
per le spese militari); ancora, che in questo mondo “acefalo” la testa del
48% delle 500 maggiori multinazionali del mondo sta negli USA, e di un altro 31%
nell’Unione Europea. [3] E così via.
Quanto sopra ci fa ritenere più che giustificate le parole
di un importante volume recente su questi argomenti: “anche se apparentemente
la cosiddetta globalizzazione significa apertura dei mercati e delle frontiere,
la realtà è che con la metà degli anni Novanta si è entrati definitivamente
nella nuova fase della mondializzazione capitalista con i connotati da
competizione globale”. [4]
Conclusione: forse è bene che i lavoratori, anziché Lenin,
in soffitta ci mettano l’Impero e i suoi seguaci.
[1] M. Hardt, A. Negri, Impero, Milano, Rizzoli, 2002;
cit. in M. Casadio, J. Petras, L. Vasapollo, Clash!, cit., pp. 185-6 e
72-3; si vedano anche le “ipotesi infondate”di Negri e Hardt richiamate
nello stesso volume, ed in particolare la seconda (p. 75).
[2] Lo mostra conclusivamente J.
Stiglitz nel suo La globalizzazione e i suoi oppositori. Sulla vicenda
rinvio al mio “Come si crea una crisi: Asia 1997”, la Contraddizione, n.
100, genn.-febbr. 2004.
[3] Dati riferiti al 2000, riportati in Clash!, cit., p.
206.
[4] M. Casadio, J. Petras, L. Vasapollo,Clash!, cit.,
p. 136. Il volume citato, oltreché condivisibile nella sua impostazione, è di
grande utilità anche per la notevole mole di dati che rende disponibili.