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Vladimiro Giacché
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I lavoratori nella “competizione globale” o nell’”imperialismo globale”?

Vladimiro Giacché

Osservazioni critiche sul saggio di Ernesto Screpanti

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1. Premessa

L’articolo di Screpanti rientra a pieno titolo in un genere letterario che ultimamente ha conosciuto qualche fortuna, ma il cui successo era stato addirittura straripante negli anni Settanta: si tratta della critica al marxismo condotta in nome di Marx. Come ricorderà chi ancora oggi si ostina ad occuparsi di cose così desolatamente fuori moda, trent’anni fa questa modalità di attacco al marxismo conobbe due varianti: l’attacco a Engels (“rozzo interprete del pensiero di Marx”, inquinato dal positivismo se non addirittura dal materialismo volgare) e l’attacco a Lenin (“rozzo interprete del pensiero di Marx”, da lui tradotto in una concezione politicistica della storia e in una pratica politica in ultima analisi riconducibile al despotismo asiatico, totalitaria, ecc. ecc.). Screpanti sceglie oggi la seconda variante: attaccare Lenin in nome di Marx. Lo fa in maniera relativamente sofisticata e apparentemente soft, ossia accettando alcune tesi leniniane. Questo attacco ha comunque il punto di approdo in una esplicita negazione della validità attuale della categoria di “imperialismo”, che ha rappresentato una delle chiavi di lettura peculiari del mondo contemporaneo offerte dal marxismo novecentesco. Ad essa Screpanti contrappone la propria tesi secondo cui l’imperialismo stesso e i conflitti interimperialistici che a tale fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico sono inevitabilmente inerenti (secondo Lenin, ma anche secondo Bucharin, Rosa Luxemburg, e ancor prima secondo tutta l’ala sinistra della socialdemocrazia tedesca) sarebbe una fase superata del modo di produzione capitalistico: superata, cioè, dall’attuale “imperialismo globale”, inteso come “un sistema di controllo dell’economia mondiale in cui non esistono sostanziali contraddizioni inter-imperialistiche”.

Nel seguito si vedranno nel dettaglio le posizioni di Screpanti e le loro conseguenze - ad avviso di chi scrive tutt’altro che incoraggianti - sotto il profilo dell’interpretazione di quanto sta accadendo ed è accaduto negli ultimi anni.

2. Gli “errori” dei padri

La cifra stilistica dello scritto di Screpanti è chiara fin dall’incipit: “per capire la globalizzazione capitalistica moderna non c’è niente di meglio dell’Imperialismo di Lenin. Da usare però come pietra di paragone e modello controfattuale. ... Osservando le somiglianze e le differenze tra la realtà attuale e lo schema di Lenin, si può riuscire a capire cosa la globalizzazione è e cosa non è”. Insomma: per capire la realtà attuale dobbiamo leggere Lenin... e capire dove ha sbagliato.

Ecco, appunto: dove ha sbagliato? Secondo Screpanti, è presto detto: nelle ultime 2 tra le 5 caratteristiche distintive dell’“imperialismo”. Ossia la quarta: formazione di “associazioni monopolistiche internazionali che si spartiscono il mondo”. E la quinta: spartizione della terra tra grandi potenze imperialistiche e inasprimento delle contraddizioni interimperialistiche.

Di queste due caratteristiche Screpanti afferma, con sicurezza degna di miglior causa, che esse “non sembrano essersi realizzate, né essere in via di realizzazione, neanche in tendenza”. In altri termini: “Non sembra che il capitalismo globale contemporaneo abbia dato origine alla formazione di associazioni monopolistiche internazionali che si spartiscono il mondo. Né pare di assistere oggi alla spartizione della terra tra le grandi potenze”.

Si tratta di affermazioni piuttosto sorprendenti già a prima vista.

Quanto al “sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo”, ci sembra al contrario che la situazione attuale ci mostri una conferma (ed un rafforzamento) della tendenza evidenziata da Lenin. Chiunque salga su un’automobile, ad esempio, ha immediatamente a che fare con i cartelli delle società petrolifere, con quelli delle società assicurative, e con un enorme processo di concentrazione delle società produttrici di automobili su scala mondiale. I processi di concentrazione, in questo come in altri settori, sono talmente imponenti che hanno dato vita a transnazionali per le quali le stesse autorità Antitrust di un singolo Paese risultano totalmente inefficaci. Ed anche gli Antitrust più potenti (quelli degli USA e dell’UE) spesso scendono a più miti consigli, soprattutto in questi tempi di crisi: basterà ricordare il procedimento aperto negli Stati Uniti contro la Microsoft, conclusosi sostanzialmente con un nulla di fatto (e chi nega la realtà di poli imperialistici dovrebbe viceversa riflettere sul perché - per converso - l’Antitrust dell’Unione Europea appaia tuttora assai determinato a colpire la rendita di monopolio di questa multinazionale statunitense...).

Va però detto che Screpanti si semplifica le cose, stiracchiando un po’ le affermazioni di Lenin: ad esempio, secondo lui la quarta caratteristica “postula che si formino delle associazioni monopolistiche che acquisiscono il controllo di certi mercati o aree geografiche di sbocco e che associazioni monopolistiche di diverse nazionalità si spartiscano i mercati mondiali. Così ci saranno dei mercati dominati dai monopoli tedeschi, altri dominati da quelli americani e così via.” Detta così, sembra che Lenin descriva un puzzle i cui pezzi vengono sistemati una volta per tutte. Lenin però non dice questo: al contrario, mostra come il controllo dei mercati sia determinato dall’evoluzione sempre mutevole dei rapporti di forza. Scrive infatti Lenin: “la spartizione si compie ’proporzionalmente al capitale’, ’in proporzione alla forza’, poiché in regime di produzione mercantile e di capitalismo non è possibile alcun altro sistema di spartizione. Ma la forza muta per il mutare dello sviluppo economico e politico. Per capire gli avvenimenti, occorre sapere quali questioni siano risolte da un mutamento di potenza; che poi tale mutamento sia di natura ’puramente’ economica oppure ’extra-economica’ (per esempio militare), ciò, in sé, è questione secondaria, che non può mutar nulla nella fondamentale concezione del più recente periodo del capitalismo”. [1]

È qui che entra in gioco la quinta caratteristica dell’imperialismo, che Screpanti così sintetizza: “La quinta caratteristica postula che le grandi potenze imperialistiche, ponendosi al servizio delle associazioni monopolistiche nazionali, si spartiscano il mondo nella forma di zone d’influenza privilegiate. La spartizione delle zone d’influenza politiche sarebbe una conseguenza e una concretizzazione della spartizione dei mercati... Dunque si può anche dire che esistono le contraddizioni interimperialiste perché esistono quelle intermonopolistiche.

Ora, per Screpanti questo è stato vero sino alla seconda guerra mondiale. Poi non più. A noi sembra invece che questo sia sempre più vero. E che in particolare dopo la caduta dell’Unione Sovietica e la dissoluzione del Patto di Varsavia le contraddizioni interimperialistiche - venuto meno il “nemico comune” dei paesi imperialistici - abbiano ripreso a manifestarsi in maniera sempre più esplicita, e secondo modalità sinistramente simili a quelle che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale.

Del resto, è difficile leggere la guerra all’Irak come qualcosa di diverso da un’aggressione imperialistica ad un paese “semicoloniale” (Lenin), aggressione che è al contempo - e manifestamente - conflitto interimperialistico. È sufficiente pensare ai contratti delle grandi compagnie petrolifere USA, alle opere per la ricostruzione appaltate ad imprese statunitensi come Halliburton e Bechtel (e alle briciole attorno a cui si affannano i capitalisti nostrani), per intendere di cosa stiamo parlando. O dobbiamo considerare un caso che il capo delle strategie per Prudential Securities, Ed Yardeni, seraficamente affermi che oggi “attraverso l’Irak gli USA sono il secondo paese Opec”? [2] Questo per quanto riguarda i monopoli attualmente vincitori. Quanto ai monopoli vinti, basterà menzionare la compagnia petrolifera francese Total, già titolare delle più importanti concessioni petrolifere nell’Irak di Saddam Hussein, e oggi costretta a dichiarare pateticamente, per bocca del suo presidente: “abbiamo fiducia nella nostra capacità di batterci ad armi uguali”. [3]

Ma c’è di più. Lenin afferma tra l’altro che “per l’imperialismo è caratteristica la gara di alcune grandi potenze in lotta per l’egemonia, cioè per la conquista di terre, diretta non tanto al proprio beneficio quanto a indebolire l’avversario e a minare la sua egemonia (per la Germania, il Belgio ha particolare importanza come punto d’appoggio contro l’Inghilterra; per questa a sua volta è importante Bagdad come punto d’appoggio contro la Germania, ecc.)”. [4]

Questo non è meno vero nel 2004 di quanto lo fosse nel 1916, quando Lenin attendeva al suo scritto. Con l’aggiunta di un’importante specificazione, che nulla toglie alla perdurante validità delle indicazioni leniniane: l’equivalente odierno delle vecchie politiche di “contenimento” esercitate da un paese imperialista contro l’espansione territoriale di un altro paese imperialista è rappresentato dalle iniziative volte ad impedire l’espansione della relativa area valutaria. Da questo punto di vista è facile dimostrare come proprio l’intendimento di contenere l’espansione dell’euro in Medio Oriente, oltreché quello di scongiurare l’effettuazione dei pagamenti di petrolio in euro anziché in dollari (che sarebbe esiziale per il mantenimento, da parte del dollaro, dello status di principale valuta internazionale di riserva), abbiano rappresentato i moventi fondamentali della recente guerra all’Irak.  [5] L’aspetto della lotta per l’egemonia valutaria è essenziale per capire le attuali forme di dominio imperialistico e di conflitto interimperialistico. [6] Ma sempre di conflitto interimperialistico si tratta.

3. I “padri” si scontrano: Marx contro Lenin?

Screpanti non la pensa così. Il che è legittimo. Ma argomenta questa convinzione in maniera decisamente discutibile. Seguiamone i passi: “Si può dire che l’instabilità causata dalle contraddizioni interimperialistiche sia una caratteristica essenziale dell’accumulazione capitalistica? O non è più valida la tesi secondo cui il capitale è intrinsecamente cosmopolita?”. In questa schematica contrapposizione di tesi presentate come opposte, da una parte abbiamo la teoria dell’imperialismo, dall’altra l’intrinseca tendenza del capitale a creare il mercato mondiale. La prima teoria Screpanti la ravvisa in Lenin, la seconda in Marx. E ovviamente dà ragione a quest’ultimo. Qui è opportuno fare chiarezza. In primo luogo sulla validità stessa di tale contrapposizione, in secondo luogo sulla correttezza dell’attribuzione a Marx di uno dei suoi poli.

a) La contrapposizione tra conflitto interimperialistico e cosmopolitismo del capitale non ha alcuna ragion d’essere. Gli odierni conflitti interimperialistici possono ben coesistere con la tendenza cosmopolitica del capitale. Anche perché il cosmopolitismo per il capitale non è un fine ma un mezzo: quando l’apertura delle economie (preferibilmente di quelle altrui...) è giovevole ai profitti si procede in tale direzione, non appena l’accumulazione del capitale incontra i suoi limiti (essi pure intrinseci!) e si manifestano le crisi, subentrano il protezionismo, le chiusure nazionali, le guerre. E benché la scala di questo processo sia sempre più ampia con il procedere delle dinamiche monopolistiche (talché dalle industrie nazionali si passa alle multinazionali e transnazionali, dallo Stato-nazione ad entità superstatuali “regionali” quali l’Unione Europea e gli stessi Stati Uniti), nulla lascia presagire ad oggi che i conflitti intermonopolistici ed interimperialistici debbano per ciò stesso cessare. Anzi: le guerre commerciali, finanziarie e valutarie, per non parlare di quelle guerreggiate, attualmente in corso ci dicono che è vero il contrario. Affermare, come fa Screpanti, che l’ordine economico e politico che controlla l’economia mondiale oggi è piuttosto simile ad un “ordine mondiale sostanzialmente esente dalle contraddizioni inter-imperialistiche”, è affermazione non soltanto teoricamente infondata, non soltanto sintomo di un modo di ragionare scarsamente dialettico, ma anche assai poco compatibile con quello che quotidianamente vediamo avvenire nel mondo.

Ovviamente l’autore è consapevole di questa - diciamo così - discrepanza della sua teoria rispetto alla realtà empiricamente constatabile. E allora ricorre ad un escamotage classico, tipico di tutte le filosofie della storia (quelle che Labriola assai opportunamente definiva “storie a disegno”): tutto ciò che nel mondo di oggi possiamo osservare di incompatibile con la teoria della fine dei conflitti interimperialistici, viene minimizzato come frutto di una “sopravvivenza” storica e di un residuo del passato.

Il problema - si potrebbe obiettare - nasce quando questa “sopravvivenza” storica, nella forma di un potere statuale quale quello statunitense, con le sue azioni (Afghanistan, Irak, ecc.) ed i suoi veti (protocollo di Kyoto), minaccia la pace mondiale e la stessa sopravvivenza del pianeta. Niente paura, ci rassicura Screpanti: le contraddizioni inter-imperialistiche, ove anche vi siano, sono “residuali” non hanno alcunché di “sostanziale”, non sono “essenziali”, “non sono utili all’accumulazione capitalistica” (anche se, curiosamente, le multinazionali americane della “difesa” e dell’energia sembrano proprio pensarla in un altro modo...). Vale la pena di notare che questo modo di procedere, per cui ciò che contraddice la tendenza storica teorizzata è “inessenziale” o rappresenta un “residuo” del passato, è assai prossimo a quello utilizzato da Toni Negri allorché, avendo appena finito di teorizzare l’“Impero”, si è trovato nell’imbarazzante necessità di dover dar conto delle concrete manifestazioni dell’imperialismo americano - che andavano in tutt’altra direzione rispetto alla sua “storia a disegno”. Negri ha quindi escogitato, assieme al fido sodale Hardt, l’idea di una “deviazione” ed un “arretramento” rispetto al corso storico fissato dalla sua filosofia della storia; finanche - testualmente - di un “golpe nell’impero” [sic!!!]. [7] La logica è la stessa che informava molti testi sovietici: contrapposizione tra il corso storico immaginato (nobilitato con l’appellativo di “storicamente necessario”) e quanto lo contraddiceva (cui veniva affibbiato l’epiteto di “contingente”, “momentaneo arretramento”, ecc. ecc.).

b) E veniamo a Marx. Le fonti che Screpanti cita per fare di Marx un sostenitore del cosmopolitismo del capitale sono il Discorso sul libero scambio e i Grundrisse. Si potrebbe senz’altro aggiungere la famosa pagina del Manifesto sul carattere progressivo della borghesia, proprio in quanto tendenzialmente cosmopolitica. Se però approfondiamo un poco la cosa, ed esaminiamo quanto Marx dice al riguardo nel Capitale, ci accorgiamo del fatto che il quadro è ben più mosso di quanto Screpanti non suggerisca. Ci accorgiamo, ad esempio, del fatto che Marx attribuisce in generale un ruolo importante alla violenza nella storia, e - più in particolare
 sottolinea con forza la propria visione niente affatto irenica della stessa “età concorrenziale” dell’economia capitalistica. Al contrario: la violenza e la guerra, afferma Marx, hanno giocato un ruolo centrale nella conquista del potere politico da parte della borghesia, sin dalla fase della cosiddetta accumulazione originaria. Al riguardo Marx scrive, in esplicita polemica contro le ricostruzioni idilliache della genesi dell’accumulazione originaria: “nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza” - laddove l’economia politica del tempo vedeva soltanto lavoro e diritto come base dell’accumulazione e della proprietà.  [8] In particolare, come è noto, Marx individua nella violenza la leva fondamentale del “processo che crea il rapporto capitalistico”, ossia il processo di “separazione del lavoratore dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro”: separazione per la quale erano risultati decisivi l’esproprio e l’espulsione della popolazione rurale.  [9] Ma Marx cita altri momenti fondamentali dell’accumulazione originaria fondati sulla guerra e l’uso della violenza: la scoperta dell’oro, lo sterminio e la riduzione in schiavitù degli aborigeni in America; la conquista e il saccheggio delle Indie Orientali; infine, la trasformazione dell’Africa in una “riserva di caccia commerciale delle pelli nere”.


[1] Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in V.I. Lenin, Scritti economici, a cura di U. Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 559.

[2] Intervista di V. Sciarretta a E. Yardeni, Borsa & Finanza, 14/2/2004.

[3] Dichiarazioni di Thierry Desmarest riportate su “Le Monde”, 19/2/2004.

[4] Lenin, op. cit., pp. 573 sg.

[5] Su questo rinvio ad alcuni miei articoli: “Irak: una guerra e i suoi perché”, “Guerra tra capitali - Dollaro contro euro: ultime notizie dal fronte”, comparsi rispettivamente sui nn. 93 e 96 de la Contraddizione. Nel volume curato da L. Vasapollo, Il piano inclinato del capitale, Milano, Jaca Book, 2003, si trova inoltre un’ampia e documentata lettura a più voci dell’attuale situazione internazionale, condotta servendosi delle categorie offerte da Marx e da Lenin.

[6] Screpanti sfiora questo aspetto, laddove accenna alla particolarità di USA e UE, che “emettono moneta internazionale, cosicché non sono soggetti al vincolo estero”. Ma non approfondisce la cosa.

[7] Leggere per credere: M. Hardt, “Il diciotto Brumaio di George W. Bush”, Global, n. 1, anno I, aprile 2003, pp. 4 sg. (queste argomentazioni furono espresse per la prima volta da Toni Negri in un’intervista ad Ida Dominijanni del manifesto, rilasciata a pochi mesi di distanza dall’inizio della guerra in Afghanistan).

[8] K. Marx, Il Capitale, libro I, tr. it. di D. Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 1980, cap. 24, p. 778.

[9] Cfr. ibidem e p. 813. Ma anche il cap. 13, p. 474: e infatti - dice Marx - la rivoluzione agricola “ha agli inizi più l’apparenza di una rivoluzione politica”; si vedano ancora, al cap. 24, le pp. 780-796.