Analisi statistico-economica dei mutamenti strutturali e localizzativi dello sviluppo del sistema socio-economico italiano
Luciano Vasapollo
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Diventa così determinante l’analisi dell’organizzazione del
ciclo produttivo, delle caratteristiche del tessuto industriale e sociale, dei
rapporti tra le imprese e tra queste e le istituzioni centrali e locali, della
struttura economica dell’area e le nuove determinazioni sociali del mercato
del lavoro.
Se nella realtà attuale viene a cadere il legame indissolubile
fra impresa e imprenditore, se predominante diventa lo studio della funzione
sociale e la nuova logica territoriale dell’attività imprenditoriale rispetto
alla figura tradizionale della fabbrica e dell’imprenditore, allora anche le
scienze quantitative devono elaborare metodi, modelli, indicatori capaci di
indagare questa diversa, moderna funzione di regolamentazione e di governo della
società.
L’applicazione di un più puntuale coefficiente per la determinazione
della localizzazione imprenditoriale introdotto in questo lavoro conduce a diverse
e più articolate conclusioni rispetto ad altri studi similari. I risultati ottenuti
evidenziano infatti la presenza in tutto il Paese di soli 22 bacini a dotazione
imprenditoriale “ più che sufficiente”, in grado quindi di “esportare” la funzione
imprenditoriale riferita al totale delle attività produttive. Tali bacini, tra
l’altro, sono molto decentrati sul territorio nazionale (11 al Nord, 4 al Centro
e 7 nel Mezzogiorno) non accorpandosi mai in vere e proprie aree a carattere
contiguo. Quella che evidenzia forti caratteri di contiguità è la “mappa” della
sottodotazione imprenditoriale che interessa con pari intensità, e livelli di
concentrazione, le varie suddivisioni geografiche del Paese. Si tratta di ben
226 bacini “importatori” di imprenditorialità complessiva, riferita cioè all’insieme
di tutte le attività economiche considerate. Fra questi appaiono 83 bacini definiti
a dotazione imprenditoriale “molto bassa”, collocati prevalentemente nell’Italia
Meridionale ed Insulare.
Sinteticamente, quindi, i coefficienti di localizzazione imprenditoriale
a carattere generale se da una parte evidenziano una significativa e altamente
diffusa sottodotazione imprenditoriale riguardante tutto il Paese, anche se
maggiormente accentuata al Sud, dall’altra parte non mettono in evidenza la
presenza di concentrazioni di bacini ad alta imprenditorialità formanti vere
aree territoriali a forte dotazione imprenditoriale, ma l’esistenza di 22 bacini
“esportatori” (di cui solo 5 costituiscono poli imprenditoriali) isolati, sparsi
sul territorio nazionale.
Tali indici ben si adattano a rappresentare la differenzazione
spaziale nella struttura socio-economico-culturale dell’impresa, la geografia
delle imprese e la loro concentrazione territoriale; ma nulla possono dire sulla
caratterizzazione sociale della nuova imprenditorialità, sulla diffusione territoriale
di una funzione imprenditoriale intesa in un contesto di ridefinizione del modello
del capitalismo italiano in una realtà in cui appare superato il concetto di
“unitarietà” imprenditoriale, cioè il concetto di un’impresa che è tutt’uno
con l’imprenditore.
I profondi mutamenti in atto nella vita politica, sociale,
economica e aziendale, pur apportando nuovi ed importanti elementi al dibattito,
spesso a causa di valutazioni non corrette hanno introdotto nel già confuso
dibattito ulteriori motivi di confusione, fino al punto di considerare come
sviluppo di nuova imprenditorialità anche l’apparire sulla scena produttiva
di nuove figure che dell’imprenditore assumono solo le forme suggestive indotte
dalla pubblicistica ufficiale e dai modelli comunicazionali del pensiero neoliberista.
Ma l’attuale contesto economico-sociale, le nuove forme di
presentarsi del modello di sfruttamento dell’economia capitalista, tende ad
ostacolare una convincente lettura di classe dell’attuale società a tutt’oggi
non si sono ancora ben delineati i contenuti della trasformazione economica
in atto, anche nel campo della nuova imprenditorialità. Si configurano così
spesso figure economiche e sociali che ancora sono oggetto di studio indefinito,
poco concreto, dai contenuti non delineati, che sicuramente nulla hanno a che
fare con il ruolo economico-sociale dell’imprenditore.
Anche oggi, nel momento in cui le varie componenti economiche,
politiche e socio-culturali si sforzano per rilanciare nel nostro Paese una
figura imprenditoriale con ruoli e contenuti fortemente innovativi, si nota,nonostante
gli sforzi,una staticità dottrinale di impostazione che,aggiunta alla ancor
presente diversità e contrapposta lettura dei fenomeni economici ed aziendali,
finisce con l’attribuire alla funzione imprenditoriale falsi contenuti di realizzazione
sociale, riproponendo contributi scientifici scontati e compatibili agli attuali
processi ridefinitori del capitale, ma comunque non riferibili alla concreta
realtà socio-economica che ancora una volta va interpretata in termini di classe.
Va sempre ricordato che l’imprenditore, in quanto istituzione
economica capitalistica, agisce all’interno di istituzioni economico-sociali,
svolgendo un’attività intenzionale diretta alla messa in pratica di propri processi
decisori, al fine di realizzare propri determinati obiettivi prefissati e adattati
al complesso delle condizioni sociali e ambientali, comunque finalizzati alle
compatibilità del mercato e del profitto. In questa chiave di lettura la funzione
di classe degli imprenditori può sussistere al di là della presenza o meno della
struttura di impresa intesa nel senso classico.
In questa prospettiva è evidente che per la realizzazione dell’attuale
modello neoliberista può essere assolutamente compatibile, e anzi molto più
funzionale, la rottura di quella che prima veniva reputata un’unità indissolubile
fra impresa e imprenditore, legame sostanziato dall’attività produttiva rivolta
al mercato.
Allora gli incrementi di imprenditorialità che emergono
dalla ricerca presentata nel precedente capitolo vanno interpretati come causati
soprattutto dallo spropositato aumento di “partite IVA”, che ormai superano
ampiamente i sette milioni di iscrizioni, e che altro non sono che “ditte individuali”,
le quali rappresentano il cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione.
Si tratta nella maggior parte dei casi di ex lavoratori dipendenti di fatto
precarizzati, non più garantiti nella continuità del lavoro , espulsi dall’impresa
madre e assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, fuori dalle garanzie
normative e retribuite del lavoro dipendente. Dietro l’illusione del “fai da
te”, dell’”autoimprenditorialità”, della libertà economico-sociale derivante
dell’autocelebrazione di farsi “imprenditori di se stessi”, troviamo sempre
una nuova forma di lavoro subordinato, privo di normativa, un supersfruttamento
a cottimo, con la mancanza assoluta di garanzie sociali a causa della mancanza
di coperture assicurative (sanità, pensione, infortunistica, assistenza varia).
La realtà economica è in rapida e ineluttabile evoluzione,
ma tende a rendere sempre più evidente la linea di demarcazione fra proprietà-
capitale e una classe dei lavoratori che non può accettare coinvolgimenti
nel controllo-governo dell’impresa. In tal senso spesso le nuove figure
dell’imprenditore individuale, raffigurato come detentore del capitale ma anche
di spirito di iniziativa, creatività, innovazione, abilità, assunzione del rischio,
spregiudicatezza, rimane confinata ad una forma atipica di impresa, che al pari
di molte forme della cosiddetta economia sociale e della partecipazione, altro
non sono che accettazione voluta o incosciente a quelle compatibilità funzionali
alla crisi quantitativa di accumulazione che il capitale sta attraversando.
A questa logica risponde anche la visione e il ruolo che si
vuole dare al cosiddetto “Terzo settore”, e si badi bene che tale importanza
strategica attribuita al non-profit in generale proviene da riconoscimenti effettuati
nientemeno che dalla Banca d’Italia, dalla Fondazione Agnelli, dai vertici della
Chiesa Cattolica, dal mondo delle fondazioni bancarie e finanziarie. La tendenza
sembra essere quella di una economia dai due volti: nel primo si persegue esclusivamente
il profitto con i conseguenti costi sociali in termini di esclusione ed emarginazione;
esclusione che dovrebbe venir recuperata dalla logica solidaristica del Terzo
settore. Un Terzo settore in mano alle fondazioni bancarie, in maniera diretta
o indiretta, che a partire dalla tensione etica viene utilizzato dal consociativismo
neo-liberista per precarizzare e flessibilizzare il lavoro diminuendone nel
contempo la forza contrattuale e calmierando così le tensioni e gli incrementi
salariali; realizzando indirettamente profitto attraverso il controllo dell’impresa
e della cooperazione sociale, sfruttando anche in termini fiscali le donazioni
a fini solidaristici; allargando le possibilità di finanziamento e di distribuzione
dei trasferimenti pubblici su quelle imprese sociali legate al mondo politico-affaristico.
Si tratta quindi di un uso strumentale del Terzo settore finalizzato alle regole
dell’efficienza capitalistica con l’utilizzo dell’economia non profit che si
sostituisce al ruolo dello Stato sociale, comprimendo e canalizzando i conflitti
nell’ottica di uno Stato basato esclusivamente sulle regole dell’economia del
profitto affiancate da elargizioni caritatevoli compatibili con il sistema.
Ciò risponde ai criteri ridefinitori e di compatibilità dei
processi innovativi d’impresa fortemente interagenti con il territorio e con
il sociale e che permeano il tessuto di classe attraverso l’imposizione di direttrici
e funzioni decisorie inerenti la localizzazione e la diffusione dell’economia
e della cultura di un nuovo e apparentemente più socializzante modello capitalistico.
La dinamicità funzionale, la ricerca continua di sviluppo attraverso
l’individuazione del territorio come luogo dove diffondere la cultura imprenditoriale,
è l’elemento chiave di uno sviluppo incentrato sulla logica e sulle compatibilità
stesse dell’impresa. Attraverso le successive e continue fasi di adattamento,
la funzione imprenditoriale si diffonde soprattutto anche in termini di imposizione
dell’agire aziendale sul sociale ai diversi contesti territoriali, intesi in
senso socio-economico e storico, in cui l’azienda è inserita.
Il territorio, lo spazio e il suo studio, i modelli localizzativi,
la conoscenza socio-politica della geografia dello sviluppo, sono ormai variabili
fondamentali dell’agire di classe, rappresentano anzi vere e proprie risorse
per attuare con successo le strategie di un nuovo e diverso antagonismo sociale.
Si tratta di conoscenze irrinunciabili per pensare in termini reali e praticabili
ad un intervento capace di riproporre l’unità di classe del lavoro, a partire
dalla comprensione delle trasformazioni del capitale per poter realizzare la
trasformazione dell’agire economico, sociale e politico al fine di realizzare
processi di uno sviluppo con immediati connotati di fuoriuscita dalle compatibilità
del mercato e della sostenibilità del modello dell’impresa capitalista.
Per poter riflettere, studiare ed agire in tal senso bisogna
assolutamente capire ed interpretare che nel nuovo modello di sviluppo liberista
sono individuabili intorno alla centralità delle imprese i ruoli esercitati
da nuove categorie di agenti, da nuovi soggetti compatibili e incompatibili
che tale modello crea: gli imprenditori terminali e marginali (spesso lavoratori
autonomi di seconda generazione), che costituiscono l’ambito di connessione
tra il mercato e i circuiti interni all’universo locale; contoterzisti, lavoratori
a nero, precari, sottoccupati, lavoratori a partita IVA di breve durata, tutti
operatori prevalentemente specializzati in lavorazioni monofase; lavoratori
dipendenti, quasi sempre a forte specializzazione, che assumono sempre più spesso
la veste di cogestori, di nuovi cottimisti corporativi con una radicata etica
del lavoro ed una diffusa propensione ad accumulare specializzazioni anche a
fini di mobilità verticale e che aspirano a “mettersi in proprio”, ad accettare
il nuovo ruolo di finti imprenditori; lavoratori a domicilio, spesso sottopagati,
senza garanzie, cottimisti e lavoratori a nero che vengono utilizzati in ambito
di integrazione multidimensionale tra attività economica delle imprese e vita
familiare, riproducendo forme di ricatto sociale e al mondo del lavoro, affermando
una falsa socialità d’impresa; istituzioni che hanno contribuito alla armonizzazione
dei processi socio-economici attraverso l’erogazione di servizi e la mediazione
politica funzionale esclusivamente alle leggi di mercato, asservitealladeterminazione sociale della centralità del profitto.
Tutto ciò è finalizzato non tanto alla competitività d’impresa
,né al miglioramento delle opportunità occupazionali e della qualità del lavoro,
tanto meno alla modernizzazione ed efficienza del sistema Paese nel suo complesso,
quanto alla costruzione di una società in cui le speranze di sviluppo siano
esclusivamente affidate al mercato, un mercato che sappia regolare se stesso,
libero da vincoli e da controlli. È questa la scommessa per i prossimi decenni
che la nuova strutturaconsociativa del nostro Paese sta giocando: l’affermazione
economica , ma soprattutto di consenso sociale al modello del pensiero unico
di mercato, ad un capitalismo capace di realizzare un nuovo patto sociale che
si faccia “divinità sociale”, cioèfilosofia di vita ispiratrice dell’unico
modello di sviluppo possibile e giustificato dalle capacità di autoregolamentazione
del mercato.
Lo studio-inchiesta proposto nei capitoli precedenti è servito
per avere un riscontro empirico dell’esistenza di economie del territorio concentrate
in aree non contigue, ma la conclusione conduce alla evidenziazione e alla verifica
di ipotesi socio-politiche sulla loro natura e sul loro ruolo. Si giunge allora
a capire che la piccola impresa è una realtà eterogenea perché risponde ad una
pluralità di funzioni che ne consentono l’esistenza nel capitalismo maturo,
e tale configurazione aziendale risponde a specifiche esigenze di ristrutturazione
del capitale internazionale, ma che trovano in alcune zone dell’Italia alcune
peculiarità per uno sviluppo esplosivo. Ciò perché esistono meccanismi di sopravvivenza
della piccola impresa comuni ai capitalismi contemporanei, ma che trovano terreno
fertile in contesti in cui il mercato del lavoro assume dinamiche particolari.
È per questo che si sviluppano fenomeni economico-produttivi derivanti dall’importanza
della valutazione della collocazione dell’Italia nella divisione internazionale
del lavoro oltre che del capitale.
Esiste quindi una stretta correlazione tra fenomeni economici
e fenomeni sociali, non è un caso che nel tanto decantato Nord-Est convivono
forme di aristocrazia operaia, superspecializzata e ben pagata, che identifica
i propri destini con quelli dell’imprenditore, e forme di lavoro sottopagato,
senza garanzie, lavoro nero, precario e flessibile anche nella remunerazione
oltre che nei tempi e nei modi di lavoro. Si spiega così, e non solo nella dicotomia
Nord-Sud, il carattere dualistico dello sviluppo italiano, che sconta sottosviluppo
in molte sue parti territoriali e sociali in funzione dei modi di accumulazione
del capitale che si correla allo sviluppo ritardato e dipendente del capitalismo
italiano rispetto al resto dell’occidente. Ciò, per esempio, contribuisce a
continuare a provocare una crescita particolare della piccola impresa che si
era sviluppata come risposta alle lotte operaie degli anni ’60 e ’70, realizzando
così un modello istituzionale, funzionale e voluto dal capitalismo italiano
al sol fine di attuare strategia di controllo sulla classe operaia e di compressione
del conflitto sociale.
È a partire da tali modalità di lettura che si possono correttamente
interpretare i fenomeni fondamentali del processo di trasformazione che ha portato
ad una redistribuzione territoriale delle attività industriali e produttive
in genere, a partire da alcune caratterizzazioni che hanno assunto le modalità
delle dinamiche dello sviluppo geo-economico collegate e finalizzate al controllo
sociale.
La depolarizzazione produttiva, lo sviluppo economico-demografico
non metropolitano, la deindustrializzazione accompagnata da processi di delocalizzazione
e decentramento territoriale, la deconcentrazione produttiva caratterizzata
dalla diminuzione delle dimensioni d’impresa, dalla deverticalizzazione e scomposizione
dei cicli produttivi, la formazione e sviluppo di sistemi produttivi locali
accompagnati da alta specializzazione, piccola dimensione, interrelazioni produttive;
tutto ciò non deriva da una natura “fisiologica” del processo di diffusione
territoriale, poiché questa invece va vista come il risultato di alcune
contraddizioni del precedente modello di sviluppo, di particolari condizioni
esogene ed endogene alle aree di “diffusione”, dai processi di ridefinizione
del modello e del progetto del capitalismo italiano. Nel nuovo modello assumono
forte rilevanza i processi endogeni di sviluppo che sono specifici di particolari
formazioni sociali e territoriali, che facilitano le dinamiche di ristrutturazione
di un capitalismo sempre più basato sulla crescita di un’imprenditoria locale.
Tra le condizioni esogene che favoriscono la “diffusione” va allora evidenziato
il forzato incremento di produttività del lavoro dovuto al ruolo delle nuove
tecnologie non più incorporate in grandi impianti (diffusione orizzontale),
la crisi provocata dei mercati di prodotti standardizzati nonchè l’abbassamento
delle barriere all’entrata di nuove imprese. Quindi piccola impresa e sviluppo
diffuso caratterizzano un nuovo modo di organizzare la produzione con profonde
caratteristiche autonome, ma sempre basate su forme più o meno sofisticate di
aumento dello sfruttamento della forza lavoro.
La redistribuzione territoriale non è determinata da un semplice
decentramento del capitale o prodotta esclusivamente dalla valorizzazione di
risorse locali ma è dovuta soprattutto ad intensi processi di ristrutturazione
del capitalismo italiano che, alla ricerca della competitività sul piano internazionale,
determina efficienza a partire soprattutto dall’imposizione di forte mobilità
spaziale e settoriale della forza-lavoro e dalla diversificazione dei progetti
di flessibilità del lavoro e del salario.
L’analisi va quindi riportata sul piano delle relazioni industriali,
si individuano così i caratteri strutturali dei sistemi produttivi locali basati
sul lavoro specializzato; sull’intensificazione dei ritmi, sull’elevata divisione
del lavoro, sulla spinta alla specializzazione produttiva, sulla molteplicità
dei soggetti economici locali, molti dei quali non garantiti, con rapporti di
lavoro saltuario, con precarizzazione del lavoro e del reddito, sulla diffusa
professionalità dei lavoratori accompagnata, per i lavori “più miseri”, da commesse
esterne con forte componente di lavoro nero e sottopagato; sulla diffusione
dei rapporti “faccia a faccia” senza intermediazioni sindacali.
Va allora sottolineato che se è vero che il sistema locale
giunge a livelli elevati di sviluppo tendendo ad allargarsi a comparti e settori
merceologici diversi, dando luogo non ad una despecializzazione bensì al rafforzamento
e a un approfondimento del sistema originario con un aumento dell’integrazione
intersettoriale locale, questo però determina condizioni dinamiche di sopravvivenza
imponendo un modello in continuo cambiamento non solo delle attività produttive,
ma soprattutto generando nuove soggettualità economiche a forte differenziale
di trattamento retributivo e sociale, andando sicuramente ad allargare le forme
marginali e non garantite del lavoro.
La condizione fondamentale per il consolidamento del sistema
locale è sancita allora da variabili quali l’innovazione tecnologica-organizzativa,
il sistema informativo sviluppato, un alto ricorso alle risorse immateriali,
ma soprattutto dalla capacità di controllo del mercato del lavoro, di deregolamentazione
e precarizzazione dei rapporti di lavoro, da flessibilità delle remunerazioni,
infine cioè da forme di regolazione sociale compatibili con il nuovo assetto
produttivo, espellendo ed emarginando le soggettualità sociali non omologabili,
conflittuali e non compatibili. E allora il modello di sviluppo locale si adatta,
si trasforma in una molteplicità di localismi nel tentativo di piegare comunque
la “resistenza” della forza lavoro e dei soggetti sociali.
La società del terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con
l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni; diventa allora
strategico porre al centro del dibattito una progettualità complessiva per un
diverso modello di sviluppo in cui strategiche siano le compatibilità ambientali,
la qualità della vita, il soddisfacimento dei nuovi bisogni, la centralità del
lavoro e la valorizzazione del tempo liberato, la redistribuzione del reddito,
del valore e la socializzazione della ricchezza complessivamente prodotta.
Riverticalizzare il conflitto sociale significa porsi immediatamente
il problema della socializzazione dell’accumulazione, quindi il problema della
ridefinizione dei meccanismi del potere economico-sociale. Riverticalizzare
lo scontro significa ripartire dalla reale democrazia partecipativa politica
ed economica, ma non vista come semplice intervento dei lavoratori nella partecipazione
di natura passiva ai flussi finanziari, ai profitti o al capitale, ma una partecipazione
che a partire dai nuovi bisogni, dalle necessità e dalle domande provenienti
dal basso realizzi concreti processi decisionali, rimettendo in discussione
lo stesso concetto di proprietà in uso nell’economia moderna e il suo meccanismo
di allocazione. Si tratta in un’ultima analisi di realizzare una nuova e
più avanzata ricomposizione di classe, un’unità di classe a partire dalle nuove
povertà, dai nuovi soggetti marginali, emarginati e non compatibili per proporre
da subito la nuova questione sociale con al centro una rielaborazione scientifica
per rilanciare battaglie offensive sulla socializzazione dell’accumulazione.