Verso una comunicazione politica egemonizzata
Mauro Fotia
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1. Economia Comunicazione Potere
Rl rapporto che lega oggi i mondi dell’economia, della
comunicazione e del potere solo apparentemente è tripolare; nei fatti è
bipolare. L’odierna economia capitalistica ha soggiogato gli strumenti della
comunicazione al punto non solo di subordinarli alla sua logica, ma di
integrarli per intero nella sua unitaria struttura di produzione e consumo.
Già agli inizi degli anni Novanta, il triangolo del
capitalismo avanzato, formato da Stati Uniti, Unione Europea e Giappone, in
quanto detentore di oltre il settanta per cento del prodotto interno lordo
mondiale, controllava il novanta per cento della produzione di beni e servizi
della comunicazione (Unesco, 1991).
Dove per comunicazione si intendeva, come si intende oggi,
non solamente ciò che emanava dal settore mediatico stricto sensu,
bensì anche l’insieme dei messaggi, dei flussi, delle forme di organizzazione
della società, e dunque dei modi di produzione e di consumo che modellavano e
scolpivano individui e gruppi. Il controllo di cui si parla si è fatto ancora
più netto a seguito dei mutamenti intervenuti negli ultimi anni nei processi di
produzione, di distribuzione e di consumo.
I progressi dell’elettronica sospingono infatti il processo
produttivo delle imprese ad utilizzare sempre più le risorse immateriali o
intangibili, vale a dire le risorse comunicazionali dalle quali si originano le
forme di accumulazione del capitale cosiddetto dell’astrazione,inoltre, l’aumentato
abbattimento delle barriere doganali e l’accresciuto superamento dei confini
territoriali sottolineano la tendenza dei mercati ad unificarsi in un solo
mercato globale; mercato che non può reggersi senza una fitta rete di canali
comunicazionali rigidamente governati da una stretta oligarchia.
La telematica ha da subito affermato il concetto della
dipendenza delle imprese dalle immagini e di conseguenza ai ricercatori di una
economia e di una cultura globali ha additato la meta della creazione di un
mercato unico delle immagini (Mattelart, 1998, 103). Senonché, l’immagine è
veicolo di un messaggio e comunque di un’idea. Per comprendere l’idea nel
suo significato, oltre che nella sua forma espressiva, è necessario considerare
l’immagine nella sua materialità. Occorre perciò scomporre l’immagine nei
suoi elementi costitutivi, analizzarne il significato così come appare nel
contesto dell’immagine stessa, identificare l’elemento unificante che dà
senso a tutti gli elementi di cui essa è costituita. Ora, la televisione, che
nella gerarchia dei media telematici occupa un posto dominante, grazie alla sua
ideologia della diretta e del tempo reale, non consente tali operazioni (Robins,
1996).
Anche per questo i detentori delle nuove reti digitali dell’informatica
e dei servizi multimediali mettono le mani sul mercato delle immagini, ponendolo
al centro della riorganizzazione generale della produzione e della distribuzione
delle informazioni. Non solo di quelle strettamente inerenti al processo
produttivo, e dunque circolanti all’interno delle imprese,ma anche di quelle
che investono la società nelle sue più ampie e svariate manifestazioni. Dando
così vita ad una sorta di cultura di impresa che, in un contesto di
assemblaggio comunicazionale svolgentesi tutto in direzione sociale, finisce con
l’agire da chiave interpretativa non solamente della vita produttiva ma anche
dei comportamenti collettivi. Consentendo ad ogni dinamica sociale di poter
essere veramente compresa soltanto se concretamente riportata al circuito
informazione-decisione - azione, scaturente da siffatto contesto.
In tali condizioni peraltro ogni organizzazione sociale si
trova ad incarnare una forma-impresa, che, diffondendosi sul territorio, porta
ad identificare la società come un’impresa sociale generalizzata. E poiché l’obiettivo
ultimo di un simile processo è il dominio del mercato del vivere sociale, la
forma-impresa di cui si parla svela l’instaurazione di una forma-istituzione
operante a sua volta come forma politica generalizzata.
In tema di rapporti tra economia capitalistica, comunicazione
e potere, dunque, gli anni Ottanta sono anni di processi collettivi lenti e
nascosti; gli anni Novanta cedono all’urto delle grandi trasformazioni
tecnologiche gestite da pochi giganti dell’economia internazionale; gli anni
di esordio del Duemila registrano la conclusione di un ciclo di ricomposizione o
meglio di riassestamento e consolidamento del dominio del capitalismo globale
sulla ricchezza e sull’intera società mondiale (Abruzzese - Dal Lago, 1997;
Sorice, 2000).
Di queste gravi realtà parla il recente studio di R.
Martufi e Luciano Vasapollo, Comunicazione Devianza, L’impero del
capitale sulla comunicazione, Roma, Mediaprint, 2000. Un libro che invita
riflettere su come lo sviluppo della comunicazione nel mondo abbia imposto la
sua centralità non solo nel sociale ma anche nel politico. Definendo e
proponendo la cultura ed i parametri dell’efficienza produttiva come valori
sociali e puntando, attraverso il veicolo strategico dei mezzi di comunicazione
più aggiornati, ad un nuovo ruolo dello Stato - impresa. Talché a ragione i
due autori, per rappresentare la forte distorsione derivante, si avvalgono del
concetto di devianza fornita dalla sociologia giuridica. Invocano cioè un
riferimento alla struttura dell’intero sistema sociale, al suo quadro
normativo, ai processi di interiorizzazione delle norme, alle attese di ruolo
che ne provengono (Lemert, 1981).
2. L’impresa sociale generalizzata
L’idea di impresa sociale generalizzata o “fabbrica
sociale generalizzata”, come la chiamano Martufi e Vasapollo, scaturisce dal
fatto che l’elemento base di ogni attività e decisione diviene il capitale
immateriale comunicazione - informazione. L’uso del termine “immateriale”
nell’impresa postfordista, come nei più disparati ambiti della società, al
fine di caratterizzare ciò che riguarda l’intelligenza, la cultura, la
formazione, non va sottovalutata. Esso è “espressione di una riduzione
economicista del concetto di materia, che contrappone struttura economica,
materiale e sovrastrutture immateriali. C’è oggi un materialismo diffuso. La
forma di produzione che ha nel consumismo il momento centrale di smaltimento del
prodotto, quale condizione del proprio perdurare, è direttamente interessata
alla diffusione di un materialismo vissuto, comportamentale. Si tratta di un
materialismo che si coniuga con l’egoismo più miope e conservatore, con l’affermazione
più accanita dell’identità, con l’omologazione più soffocante, con il
realismo più radicale fino all’accettazione realistica della guerra (quando
ovviamente è «giusta e necessaria«» e «serve alla pace»), con la
rivendicazione dei propri diritti e il disconoscimento dei diritti altrui, con l’espulsione
fino all’eliminazione, fino al genocidio, dell’alterità (ivi compreso il
genocidio culturale)” (Ponzio,97).
La crescente dipendenza della gestione e delle decisioni
dalla tempestività con cui vengono recepite le informazioni necessarie, i
profondi cambiamenti tecnico-organizzativi che rendono in poco tempo obsolete le
informazioni acquisite, la crescente complessità dei fenomeni imprenditoriali e
sociali da governare, i termini di redditività, che, senza aggiornati sistemi
di controllo gestionale, tendono a ridursi, fanno del capitale informazione un
elemento essenziale per l’evoluzione di ciascuna impresa, del sistema delle
imprese nel suo complesso e del sistema sociale (Martufi - Vasapollo, 45-46).
Questo non significa che il capitale materiale e quello finanziario vengono meno
nella loro importanza; ma l’operatività del sistema impresa evidenzia che
più forte è divenuto il loro legame con il capitale immateriale-informazione.
Dopotutto, i modelli comunicazionali imposti dai mutamenti
tecnologici degli ultimi venti anni sono divenuti come dei processi biologici,
caratterizzanti gli eventi dentro gli organismi impresa e società. E dunque si
sono strutturati attorno alla loro energia intesa nel significato fisico del
termine.
Ma non è tutto. Comunicazione, da un lato, non è soltanto
la circolazione-scambio, ma anche il consumo e la stessa produzione. Dall’altro
lato, è ancora comunicazione il luogo di costituzione dei significati, di
organizzazione delle esperienze, di formazione dei messaggi, di realizzazione di
atti intenzionali, eccetera (Ponzio,120).
Ne può dimenticarsi che investire in tecnologie
comunicazionali risulta sempre più conveniente che investire in macchinari.
Anche perché‚ esse, essendo sempre correlate al principio di flessibilità,
finiscono col favorire i modelli concertativi e consociativi. Modelli fatalmente
destinati a comprimere la conflittualità del mondo del lavoro, del non lavoro,
del lavoro negato, e a piegare ancora ai voleri dell’impresa le figure esterne
al ciclo produttivo, come i fornitori, i clienti e le stesse amministrazioni
pubbliche con le quali si entra in rapporto, quasi si tratti di un insieme di
portatori di interessi imprenditoriali (Martufi - Vasapollo, 47). Con il
risultato di creare attorno all’impresa quel “consenso” che risulta la
migliore garanzia di ininterrotto incremento del profitto.
Sul piano sociale, poi, non va omesso di evidenziare come la
comunicazione-informazione, mezzo imprescindibile per il soddisfacimento dei
nuovi bisogni umani, viene a condizionare e determinare l’identità stessa
delle persone e a definirne il ruolo sociale. Il tutto naturalmente in un quadro
appiattito e uniforme nel quale gli uomini appaiono tutti “identici” nella
mentalità, nel costume, nello stile di vita. Ed i lavoratori, “nomadi dell’alta
tecnologia”, si trovano contemporaneamente in casa e sul posto di lavoro:
isolati, lavorano tuttavia con altri; attraversano ogni spazio, confini di Stati
e di continenti, rimanendo ancorati nella rete nel qui e nell’ora (Beck,
2000). Poiché‚ con i nuovi sviluppi dell’integrazione dell’economia
mondiale si ha l’ingresso definitivo nell’era di una global factory e
di un global shopping center.
Vettore principe di queste realtà, di questi schemi di
comportamento e valori universali sono gli Stati Uniti. Per cui, ove si voglia
ammettere quanto agiograficamente scrive di essi Brzezinski, animatore della
Trilaterale e consigliere del presidente Carter in materia di sicurezza
nazionale, quando parla degli USA come della società che comunica di più, e
che, nel crogiolo della globalità, trascende le “culture fortemente radicate”,
le “identità nazionali ben distinte”, le “religioni tradizionali
solidamente fortificate”, ed elabora una nuova coscienza planetaria
(Brzezinski, 1970), lo si può fare a condizione di mettere contemporaneamente
in evidenza tutte le contraddizioni che derivano loro dall’essere all’origine
dell’odierna “società del totalitarismo comunicazionale”, secondo l’efficace
espressione di Martufi e Vasapollo.
3. Linguaggio delle merci e linguaggio umano
L’accenno al global shopping center esige peraltro
un qualche ulteriore sviluppo allo scopo di comprendere le gravi conseguenze che
ne discendono sui piani culturali e di civiltà per l’uomo contemporaneo. D’altronde,
se comunicazione, come si è testé detto, è anche il consumo, il richiamo dell’argomento
è estremamente coerente con le riflessioni che stiamo conducendo.
In pratica, stiamo tutti constatando che la normalità della
comunicazione, soprattutto politica, registra la dissoluzione del nostro
linguaggio nel linguaggio delle merci.
In forza dell’esplosione comunicazionale a livello globale
e delle sue possenti capacità manipolative, l’economia e la politica dei
consumi sono diventate oggi teologia. Studiosi di rilievo ci avvertono del
rischio che il salotto di ogni uomo comune diventi un reparto del supermercato.
Essi non diffondono incubi fantasociologici. Si limitano a censire gli elementi
che sospingono l’umanità contemporanea verso un solo orizzonte: l’iperconsumismo
trionfante senza rivali, né‚ alternative (Baudrillard, 1976; Ritzen, 2000a).
Sicuramente il grande magazzino francese (e prima ancora i passages
studiati da Benjamin), il department store americano sono i precursori
del nuovo sistema. Ma erano luoghi chiusi, dove l’acquisto era limitato nel
tempo e nello spazio. Si comprava, si tornava a casa, si consumava. La mutazione
rivoluzionaria, il passaggio dal consumismo all’iperconsumismo, sta nell’implosione
di tutti i confini: fra tipi diversi di consumo, fra consumo e divertimento, fra
consumo e turismo, in generale, tra consumo e vita privata. Il consumo dilaga
nelle nostre esistenze domestiche e familiari. La casa oggi non è più solo il
luogo, ma anche il mezzo di consumo. Il supermarket possiede quinte
colonne nelle nostre cucine: il forno a microonde è una testa di ponte
formidabile per l’invasione dei surgelati e dei precotti e per lo
smantellamento della nostra cucina casalinga.
L’e-commerce di conseguenza ha buone chance
di invadere le nostre case soprattutto con i prodotti immateriali, scaricabili
direttamente dal computer come azioni, informazioni, eccetera. Ma al momento
sono ancora più potenti le televendite, che ci portano in salotto venditori e
prodotti ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Non ci sono
più limiti di spazio e di tempo, non esistono più ambiti al riparo dal
consumo. Gli stadi, le scuole, i musei sono già luoghi in cui si consuma una
varietà incredibile di prodotti.
Il simbolo della globalizzazione consumistica di fine secolo
sono i ristoranti McDonald (Ritzen, 1996). Così come la Coca Cola era stata l’icona
yankee nell’era della guerra nel Vietnam. E tuttavia il modello
McDonald è sì il più diffuso, ma non è il solo e non è neppure il più
potente. Vi sono i big store, supermarket smisurati con pile di
merci alte dieci metri e confezioni gigantesche, che scommettono sul wow-effect,
il fascino della quantità pantagruelica. E’ un elemento di quello che Ritzen
chiama il re-incantamento del consumo: dopo il fascino moderno della
razionalizzazione e dell’efficienza, ora si punta sul fascino post-moderno
della spettacolarizzazione, della sorpresa e dell’incanto quasi religioso. Ma
credo che prima assisteremo allo sbarco in larga scala del sistema delle catena
in franchising applicato anche a consumi che in Europa erano appannaggio
del piccolo commercio. Una grande catena di coffee shop americana aprirà
fra poco il suo primo negozio in Svizzera, per poi passare in Francia e Italia.
Il modello McDonald, comunque, dal cibo si trasferisce alla
cultura, alle attività educative, alla formazione professionale. Ritzen parla
di McDottori, McProfessori, sformati da un’istituzione che vende prodotti
educativi, puntando sulle caratteristiche dei grandi mezzi di consumo: alta
organizzazione, prevedibilità, calcolabilità. E che si promuove puntando sulla
quantità e non sulla qualità: noi produciamo x laureati all’anno. Lo stesso
vale per gli ospedali che reclamizzano il numero dei posti letto e dei servizi
alberghieri, anziché la qualità delle prestazioni cliniche, e perfino per le
chiese che sbandierano gli orari delle funzioni e la comodità di parcheggio in
una economia di mercato generalizzato. Ospedali, scuole e chiese hanno lo stesso
problema di un negozio: attirare clienti. Logico che imitino i colleghi che
hanno più esperienza e sviluppano simboli e linguaggi capaci di dilatare e
diffondere sempre più i flussi comunicazionali più avanzati. A Vancouver è in
costruzione un cimitero multipiano organizzato tematicamente, come un parco di
divertimenti, con ricostruzioni e scenari: un piano cattolico, uno per i morti
in guerra, uno esotico. La gente ci va a passare le giornate, in attesa di
passarci l’eternità.
Né si pensi che modelli comportamentali di questo tipo siano
destinati a restare decisamente fuori dai Paesi europei, ad essere respinti
dalla loro storia e cultura.
«Oggi, dice in una recente intervista Ritzen, passeggiavo
nel centro di Bologna. Sono capitato in una galleria commerciale. Stupefacente:
stessi negozi di catena, stessa architettura che potrei trovare a Denver o a
Houston. Mi chiedo cosa serva viaggiare, se ovunque ci si ritrova in quello che
Baudrillard chiamava l’inferno dell’uguale» (Ritzen, 2000b).
Del resto, non è senza significato che fenomeni del genere
vengano affrontati in termini culturali. Si parla di cultura materialistica,
edonistica ed in particolare consumistica (Featherstone, 1991). «Eccezion fatta
per l’interesse di Marx per il carattere di feticcio delle merci, non è
eccessivo dire che la sociologia preclassica e classica si è interessata al
fattore economico quasi esclusivamente dal punto di vista dell’offerta, cioè
dell’organizzazione e del lavoro che confluiscono nella produzione e nell’offerta
alla vendita di beni economici. E, con l’importante eccezione dell’opera di
Veblen sul consumo visibile, non c’è mai stato, almeno fino a pochissimo
tempo fa, un corrispondente sociologo della svolta keynesiana in economia; ciò
naturalmente ha comportato un forte spostamento di interesse verso la domanda di
beni e servizi economici. L’attuale interesse di sociologi e antropologi per
la “domanda” rappresenta una sorta di ritardo culturale, in quanto gli
economisti hanno compreso l’importanza della domanda aggregata da almeno
cinquant’anni, mentre gran parte dei sociologi, seguendo la teoria di Weber
sul protestantesimo e lo spirito del capitalismo, ha rivolto il proprio
interesse alla vita economica dal punto di vista del lavoro e della produzione.
A questa carenza ora si cerca di rimediare, e ne conseguono importanti
implicazioni per la nostra concezione della cultura (...); (Featherstone, 1991).
Per semplificare le cose, possiamo affermare che l’attribuzione di importanza
all’“offerta” incoraggiava a credere che la cultura fosse un epifenomeno,
mentre invece sottolineare l’importanza della “domanda” porta ora a
concludere che la cultura sia in qualche modo infrastrutturale. Come che sia,
diviene sempre più chiaro che la base pre-economica dei “vincoli economici”
è una importantissima Problemstellung dell’antropologia e della
sociologia moderne» (Robertson, 1999).