L’analisi-inchiesta di carattere macroeconomico tesa a
verificare la dinamica e la strutturazione del processo di accumulazione
capitalistica degli ultimi trenta anni, presentata da Martufi e Vasapollo nel
volume “EuroBang” [1], porta inevitabilmente a fare delle
considerazioni sulla globalizzazione, o meglio ancora sulla competizione
globale, e sulle sue conseguenze sociali ed economiche.
Prima di addentrarmi nella trattazione coinvolgente e molto
ben documentata, presentata dai due Autori, sembra opportuno fare alcune
considerazioni su questa pretesa nuova fase della storia del capitalismo che
mentre da un lato costringe tutte le imprese ad un continuo confronto mondiale
sul piano della competitività, pena l’uscita dalla scena economica, dall’altro
obbliga tutti gli Stati nazionali a continui e dolorosi tagli delle spese
sociali per riuscire a rispettare i parametri economici che possono garantire la
loro permanenza nei grandi mercati internazionali.
Non a caso si è detto “pretesa nuova fase”, infatti;
nonostante da anni i mezzi di comunicazione di massa tentino di convincerci che
la globalizzazione è qualche cosa di totalmente nuovo e di inevitabile che deve
caratterizzare, rinnovandolo, tutto il nostro modo di agire, in realtà quella
che stiamo attualmente vivendo è l’espressione ultima, o meglio più recente,
di un processo strettamente connesso allo sviluppo del capitalismo. Il “villaggio
globale” ha cominciato ad esistere dal momento in cui lo sviluppo
tecnologico ha permesso all’uomo di accorciare le distanze e di comunicare
senza bisogno di incontri personali o tramite messaggeri. Da quel momento il
mondo ha cominciato a rimpicciolire ed il capitale ha cominciato a stabilire che
era più forte chi riusciva a controllare meglio non solo le vie, ma soprattutto
i mezzi di comunicazione e, tramite questi, anche i mercati e l’opinione
pubblica. Ai nostri giorni la sostanza non è cambiata, ma è molto cambiata l’intensità
del fenomeno. L’ondata di globalizzazione che ha investito il nostro pianeta
è di portata molto superiore a quanto è avvenuto in passato, è veramente un’”onda
anomala” alimentata dallo spettacolare sviluppo del progresso tecnologico,
dalla mancanza totale di principi etici nell’agire economico e dalla fine
della storica minaccia per la sopravvivenza del sistema capitalistico.
Il crollo dei difficili equilibri instauratisi in tanti anni
di guerra fredda tra mondo capitalistico e mondo comunista, simboleggiato dalla
caduta del muro di Berlino, non rappresenta solamente la fine del socialismo
reale, ma anche la crisi del Welfare State che può “finalmente”
essere smantellato per rendere gli Stati nazionali più competitivi a livello
mondiale. Finita infatti la paura della “rivoluzione”, riformismo e
riforme sociali a favore del lavoro dipendente, delle persone in cerca di
occupazione e dei ceti poveri, possono essere portate avanti solo in virtù di
motivazioni etiche che, tuttavia non hanno alcun peso nell’economia
utilitaristica. Ecco perché si è parlato di onda anomala che può oramai
travolgere chiunque, anche chi ne ha provocato l’accelerazione, perché dal
1989 non ci sono più argini che possano moderarne il flusso o correggerne la
direzione. La minaccia alla sopravvivenza del sistema, rappresentata per decenni
dal blocco orientale, ottima arma per mantenere il mondo capitalistico in stato
di continua allerta e che alimentando il clima di precarietà impediva qualunque
cedimento verso un rallentamento del ritmo del lavoro e della produzione, non è
tuttavia scomparsa, ma ha solo cambiato natura, divenendo la sfida della “competizione
globale” in cui domina incontrastata l’Economia Finanziaria. Il 98%
delle transazioni valutarie mondiali non corrisponde a scambi di merci e
servizi, ma solo a movimenti finanziari. Il potere del mercato finanziario è
così elevato da aver ribaltato il rapporto tra moneta e produzione di beni e
servizi con conseguenze molto pesanti per la legittimità di tutte le
istituzioni nazionali. La precarietà non minaccia solo la vita dei privati, ma
anche quella degli Stati nazionali che non sono più in grado, neanche i più
potenti, di assumere decisioni che possano rivelarsi in contrasto con gli
interessi del capitale finanziario. Ecco così la nascita di coalizioni
economiche, di aree di libero scambio, di tentativi di unificare monete e
istituzioni politiche, provocando tensioni e competizioni economiche nell’area
industrializzata che allontanano sempre più l’attenzione dei governi e degli
organismi internazionali dai problemi della povertà e non solo da quella dei
Paesi del Terzo Mondo.
Questo è il contesto sociale ed economico in cui si situa la
ricerca presentata da Martufi e Vasapollo che focalizza in modo particolare, lo
scontro globale tra l’area del Dollaro, quella dell’Euro e quella dello Yen.
Questa lotta tra i giganti dell’economia mondiale, in base alla ricca
documentazione messa a disposizione dei lettori, mostra di non lasciare spazio
ad altri attori, di non permettere azioni umanitarie, ma di poter distruggere,
in nome del più assoluto utilitarismo, tutto ciò che non è in grado di
produrre reddito a partire dai valori fondamentali del vivere civile.
Soffermandoci, come fanno i due autori, sulle problematiche e
le conseguenze causate da trent’anni di “testa a testa”
tra Europa, USA e Giappone [2], non si può non rilevare che, a livello mondiale questa concorrenza senza
esclusione di colpi, avrebbe dovuto determinare, secondo le aspettative, una
realtà economica dinamica in cui l’import/export avrebbe dovuto crescere
consistentemente, il Pil avrebbe dovuto presentare tassi consistenti di
incremento ed il mercato del lavoro, stimolato dall’interdipendenza, avrebbe
dovuto essere caratterizzato da bassi livelli di disoccupazione. Niente di tutto
ciò è invece avvenuto; sia il commercio internazionale, sia il Pil hanno
mostrato un forte rallentamento della crescita e la disoccupazione, con l’unica
eccezione degli USA, è consistentemente cresciuta tra il 1975 ed il 1998 in
tutti i Paesi più industrializzati, con punte di +179% in Giappone e +293% in
Germania. Per altro il risultato favorevole relativo agli USA (-22%) ed in parte
alla Gran Bretagna (+45%) “evidenzia ancora una volta le scelte del modello
di capitalismo anglosassone le quali, se da una parte realizzano un calo della
disoccupazione dall’altra fanno sì che tale risultato si raggiunga con
occupazione precaria, flessibile e a tempo determinato e con forti tagli alle
spese sociali per le politiche del lavoro” [3].
L’unico parametro che mostra un aumento è il rapporto tra
le variazioni relative medie annue del commercio internazionale e quelle del
prodotto mondiale lordo che, secondo i dati forniti dalla World Bank, è passato
da 1,7 per il periodo 1950/70 a 1,9 per il periodo 1970/90 a 2,8 per il periodo
1990/95; tuttavia se si verifica la dinamica delle due variabili poste a
confronto ci si accorge che il risultato favorevole è dovuto al fatto che il
commercio internazionale è diminuito meno di quanto non sia diminuito il
prodotto mondiale lordo e che tale maggiore tenuta è praticamente da ascrivere
quasi per intero, agli ottimi risultati conseguiti da Cina e India che, come è
noto, non rientrano nel novero dei paesi più industrializzati del mondo.
Di fronte a questi risultati scoraggianti, l’analisi acuta
e puntuale dei due Autori, pone in rilievo come la risposta istituzionale non
sia stata socialmente positiva, come cioè non si sia cercato, ad esempio nel
mercato del lavoro, di intervenire in favore dei lavoratori, ma come si sia
accentuata all’interno del mondo capitalista, la polarizzazione sociale in
atto fin dagli anni ottanta, attaccando duramente i salari e le forme di
protezione sociale. All’interno di questo mondo, lo smantellamento dello Stato
sociale e la frantumazione delle grandi imprese, collegata alla localizzazione
produttiva su scala mondiale, hanno determinato un forte aumento della
disoccupazione, un incremento del numero dei poveri ed un’accentuazione del
divario tra classi ricche e povere. Allo stesso tempo i sempre maggiori
investimenti provenienti dalle aree ricche e diretti verso i paesi del Terzo
Mondo disposti a favorirli in ogni modo, anche illecito (creazione di free
zones), hanno favorito in tali Paesi, la nascita di una classe numericamente
esigua che vive e consuma a livello della classe ricca del mondo sviluppato, a
scapito del resto della popolazione che vede peggiorare di giorno in giorno la
propria condizione. Questo è il processo di polarizzazione sociale che agisce a
livello mondiale. La conseguenza di questa doppia azione è che sta aumentando
la classe povera nei paesi ricchi e quella ricca nei paesi poveri, con un sempre
più accentuato divario, reso ancor più evidente dalla progressiva sparizione
della classe media. Le tradizionali definizioni di Nord e Sud del mondo stanno
così sempre più perdendo la capacità di definire aree territorialmente
individuabili, per assumere una connotazione sociale, infatti la miseria e l’emarginazione
di massa presentano le stesse caratteristiche nelle parti più disparate del
mondo.
Sono molte le riflessioni indotte dalla lettura di questo
studio, sia riguardo ai sacrifici che siamo stati costretti a fare e a quelli
che ancora ci aspettano per non venire estromessi da una “competizione
globale” che ci ripaga con una emarginazione crescente, sia riguardo alle
perdite in tema di “valori” e di etica, sia, e questo aspetto
colpisce in particolare chi si occupa di problemi del sottosviluppo, riguardo al
sempre più palese disinteresse per l’umanità di quel “sud del mondo”
precedentemente ricordato.
Nonostante che purtroppo non sia facile riuscire a trovare,
fra le argomentazioni proposte dai due Autori, temi di riflessione che
autorizzino aspettative ottimistiche per il futuro, la lettura di questa analisi
economica e sociale, è sicuramente fondamentale per chiunque desideri
approfondire tematiche tanto attuali e dibattute, come quelle che interessano la
competizione globale e la progressiva emarginazione di una sempre più cospicua
parte dell’umanità.
[1] Rita Martufi, Luciano Vasapollo: EuroBang, La sfida
del polo europeo nella competizione globale: inchiesta sul lavoro e sul capitale,
Ed. Media Print, Roma, ottobre 2000.
[2] Rita Martufi, Luciano Vasapollo: op. cit. pag.
21.
[3] Rita Martufi, Luciano
Vasapollo: op. cit. pag. 105.