Ritengo che il libro "EuroBang" di Martufi e
Vasapollo abbia una interessante impostazione ed anche molto condivisibile.
Mi convince, soprattutto, l’analisi del contesto: ritengo,
infatti, che sarebbe errato ritenere sempre uguali a se stessi i processi di
valorizzazione del capitale. Il capitale, infatti, non ha caratteristiche
conservative: siamo di fronte a quella che, con un ossimoro, abbiamo chiamato
"rivoluzione restauratrice" del capitale. Parlo di
"rivoluzione" perché (come ho ampiamente analizzato nella prima parte
di questa relazione, che do, in questa sede, per assunta) il capitale ha
prodotto un radicale mutamento di paradigma sia per quanto riguarda luoghi e
mercati del lavoro, che le culture, le statualità, lo stesso immaginario
collettivo. Parlo, dialetticamente, inoltre, di "restaurazione"
perché, pur in forme inedite, il capitale ha promosso un processo immane e
pervasivo di svalorizzazione del lavoro, ristabilendo l’assoluto primato dei
profitti e delle rendite, abbattendo salari e redditi proletari: in questo senso
siamo giunti, in alcuni segmenti della forza lavoro, perfino a forme di
erogazione della forza lavoro di tipo semischiavistico, all’interno delle quali
precarizzazioni, caporalato di massa, lavoro dei fanciulli non sono
"nicchie" di arretratezza ma punti avanzati ed organici della
"modernizzazione" produttiva.
La deregolamentazione del lavoro, l’ingente, puntiglioso,
ottuso processo di privatizzazioni, lo smantellamento dei settori fondamentali e
tecnologicamente più avanzati dell’economia e del sistema produttivo hanno,
inoltre, reso l’Italia un paese quasi "coloniale" all’interno della
nuova divisione internazionale dei lavori e delle produzioni.
La competitività del sistema produttivo italiano, infatti,
lungi dall’attingere forme di cooperazione non liberista e di produzione
sociale, non è affidata all’innovazione ed alla qualità del prodotto ma
all’inseguimento della forza lavoro al livello ed al prezzo più basso, alla
deregolamentazione del lavoro, al peggioramento complessivo delle condizioni di
erogazione della forza lavoro.
I lavori, precarizzati e svalorizzati, sono diventati luoghi
di strage di lavoratori e lavoratrici (4 morti sul lavoro al giorno); è il
segno di un dramma e di una inaudita vergogna, che allude al complessivo sistema
politico/economico e, in profondità, alle forme, ai modi, ai modelli di
sviluppo. Ne consegue la bancarotta della "politica", intesa come
luogo della riflessione, della ricerca, della sperimentazione, della
progettualità trasformatrice, soprattutto.
Questo vuol dire che la vittoria, in questa fase storica, del
capitale, proprio perché devastante, è irresistibile? Che la criticità
anticapitalista non possa che oscillare tra modeste e banali tendenze alla
omologazione da un lato (diventando esausta ed inerte) e impotente testimonianza
massimalista, dall’altro? Non credo. Bisogna saper leggere, in filigrana,
ritornando alla radicalità della critica marxiana del capitale, ed è quello
che fanno gli autori di "Eurobang", le contraddizioni interne alla
feroce competitività interimperialistica, le debolezze strutturali,
l’incapacità di costruire l’egemonia di un modello di civiltà globale. Certo,
la condizione è che il movimento anticapitalista si liberi definitivamente di
ogni meccanicismo, di ogni determinismo economicista, pur profondamente e
drammaticamente presenti nella sua vicenda storica. Il capitale, come è ovvio,
non crollerà da solo; all’interno delle sue contraddizioni deve essere
rifondata soggettività politica, linea di massa, progettualità.
Un punto di attacco mi sembra, in questa fase, essenziale: il
capitalismo, questo è il punto che mi pare essenziale sottolineare, ha separato
la sua forte capacità di innovazione dal processo sociale e culturale. Stiamo
entrando nel cono d’ombra di una "crisi di civiltà". È, questo, un
dato inedito, un cambiamento di paradigma, non un mero mutamento di fase. Il
progetto di trasformazione deve, necessariamente, iscriversi all’interno del
rapporto dicotomico tra innovazione e civiltà.
Potrei citare un emblema, che a questa aporia allude:
l’insano e perverso ossimoro di una «guerra umanitaria», che ha preteso di
assurgere addirittura a "costituente" di un "nuovo ordine
mondiale" degrada in barbarie di fronte alle malformazioni genetiche che
uranio "impoverito", plutonio, disastro ambientale scientificamente
perseguito dalle potenze "vincitrici" hanno prodotto. O vogliamo
ricordare l’alimentazione con farine animali delle mucche, vero e proprio
attentato alla salute pubblica, prodotto in nome del profitto assoluto, della
mercificazione globale, della nuova dislocazione mondiale dei poteri economici,
finanziari, scientifici? Il capitale vince, ma la sua vittoria, in questa fase,
genera progressivamente un distacco dalla convivialità, dalla solidarietà,
dalla socializzazione. Predomina la privazione di senso. È qui che bisogna
riaprire il conflitto per un altro modello di società e di civiltà, ripartendo
dalla materialità delle contraddizioni sociali.
Ritorna, ed è spesso sottolineato nelle pagine di
"EuroBang", la necessità, il ruolo ineludibile e fondamentale del
conflitto di classe. Una concezione "moderna" e classista
dell’antagonismo deve superare, ovviamente, ogni errore economicista, ogni
visione banalmente produttivista e "sviluppista", figli
dell’ingenuità prometeica delle «magnifiche sorti e progressive»: nuovi
soggetti, nuovi temi devono irrompere nella costruzione del "blocco
storico" contemporaneo.
Marxianamente, l’«uno si divide in due»: contraddizioni di
classe, di specie, di genere, senza alcuna visione gerarchizzata, concorrono
alla costruzione della criticità e della progettualità alternativa. Non va, in
questo senso, sottovalutato l’intreccio di temi, di sensazioni, di pulsioni, di
conflitti che sottendono l’esplosione e l’espansione del cosiddetto "popolo
di Seattle". Esso allude simbolicamente, a livello molto alto, alle forme,
ai modi, ai contenuti di un conflitto inedito "dentro" e
"contro" la globalizzazione liberista; esso si proietta, nel tragitto
tra Seattle e Porto Alegre, sino ad embrioni di progetto di una nuova economia
sociale, di una nuova democrazia partecipativa, che potranno trovare momenti e
luoghi di approfondimento nella fase preparatoria della convenzione contro la
riunione del G8 a Genova, nei prossimi mesi.
Siamo ad un possibile salto di qualità, ad un momento di
rottura dell’assoluta rimozione del conflitto sociale, dell’appannamento
assoluto di ogni criticità che ha caratterizzato soprattutto gli anni più
recenti. Siamo, forse, di fronte a numerosi segnali di "disgelo"
sociale, a reti, certo ancora fragili e modeste, che vengono ritessute: sono
tendenze che vanno seguite con attenzione, tensione, passione.
Bisogna, io credo, ricominciare a definire contesti economici
sociali, pronunciando parole che il liberismo imperante ritiene impronunciabili,
in quanto pericolose tendenze "bolsceviche": programmazione
democratica, controllo pubblico e socializzato dell’economia, introduzione di
misure di regolazione della circolazione dei capitali, Tobin Tax.
Ma non voglio, in questa sede, parlare di singoli obiettivi
programmatici, bensì del senso e della direzione di un impegno trasformatore:
riprendersi tempi, salari, redditi sociali, conquistare forme di
regolamentazione ed arricchimento della formazione e della polifunzionalità che
contrastino il degrado nelle schiavistiche precarizzazioni, introducendo, con il
conflitto, anche radicale ed aspro, nuove rigidità nel meccanismo di
accumulazione capitalistica e nel mercato. Se le sinistre politiche sono
spaesate e confuse, occorre incominciare da qui, dalla società, in questo senso
analisi e inchieste come quelle approntate da Martufi e Vasapollo su
"EuroBang" devono essere incoraggiate e condivise per rafforzare anche
con un approccio scientifico una forte ripresa del conflitto sociale.