“Impero” e “lavoro immateriale”. Su alcune recenti derive teoriche del movimento di classe
Alberto Burgio
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Dinanzi a questo quadro interpretativo, dai contorni tutt’altro
che sfumati, si pongono diverse questioni. Ci si deve chiedere, in primo luogo,
quanto esso sia in grado di interpretare i processi reali; in secondo luogo
(visto che qui ci interroghiamo in merito al ruolo attuale di Marx) c’è da
chiedersi in che misura il “paradigma imperiale” sia debitore all’analisi
marxiana.
Forse però, prima di cercare di rispondere a queste domande,
conviene spendere poche parole sulle ragioni dell’incidenza di queste tesi e
del complesso delle teorie di Negri, ivi comprese le analisi dei processi di
riproduzione incentrate sulla categoria di “lavoro immateriale”.
3. Le ragioni di un’egemonia
Per rapidità, si possono individuare a questo proposito due
ordini di ragioni.
Il primo attiene al fondamentale riduzionismo caratteristico
della posizione di Negri. Qualunque sia l’oggetto dell’analisi, il quadro
che egli offre appare semplice, governato da logiche totalitarie, immediatamente
riducibile a un’unica logica dominante. La società è, come tale,
messa al lavoro, senza ulteriori mediazioni; il mondo è, come tale,
ridotto a uno sconfinato distretto industriale, immediatamente sottomesso al
comando capitalistico.
Al di là delle apparenze, siamo agli antipodi di una lettura
organica del conflitto capitale-lavoro come rapporto sociale-politico. A questo
riguardo, l’intera ricerca di Negri sembra muoversi, è vero, sulla base del
più plausibile dei presupposti. Il capitale è sin dall’inizio considerato
come “capitale sociale” e in quanto tale indagato come “soggetto dello
sviluppo”. [1] La
scelta di privilegiare i Grundrisse rispetto al Capitale è essa
stessa motivata dal convincimento che i manoscritti del ’57-58 offrano da
questo punto di vista una riflessione più avanzata, all’altezza della “sussunzione
reale della società” quale compiuta espressione della potenza sociale del
capitale. [2] Ma, fedele alla prospettiva operaistica, l’intero discorso si
mantiene interno all’analisi del processo di produzione immediato. Ad
appropriarsi della società è il capitale in quanto funzione produttiva, per
cui la “sussunzione capitalistica della società” non è altro che l’inclusione
della collettività sociale entro il perimetro del “ciclo lavorativo”.
Non si tratta del processo in forza del quale il capitale
estende il proprio dominio sull’intera area sociale in quanto rapporto
sociale-politico, con l’insieme dei problemi che ne discendono non solo in
àmbito giuridico-istituzionale, ma anche sul piano ideologico e persino “antropologico”.
A dispetto delle dimensioni dei processi, il discorso resta ancorato al terreno
economico-produttivo.
Letteralmente tutto è fabbrica, tutto è lavoro, chiunque è
trasformato in operaio (anche chi non lavora, per cui scompare qualsiasi
differenza tra il coinvolgimento indiretto del disoccupato nel processo
riproduttivo e la parte in esso svolto dalla forza-lavoro effettivamente
mobilitata). L’organizzazione della produzione si replica in quanto tale
(cioè come dinamica economica) nell’intero della società. Per questo
ogni potere è concepito come immediata espressione del comando capitalistico,
non importa se si affidi alla parola dei codici o a quella dei
caccia-bombardieri.
Hegel parlerebbe di “sapere immediato”; Marx, forse, di
“scienza delle quattro frasi”. Scrivendo a Theodor Cuno che gli chiedeva
lumi intorno alla notevole diffusione della “teoria bakunistica” in Italia,
Engels osservava che in questa teoria “tutto suona estremamente radicale ed è
tanto semplice che lo si può imparare a memoria in cinque minuti”. [3] Nella misura
in cui qualcosa di simile vale anche per le tesi di Negri, disponiamo di una
prima spiegazione della loro capacità egemonica nell’ambito della cosiddetta
“sinistra critica”.
A questa prima ragione, per dir così “metodologica”, se
ne affianca una seconda, connessa al merito politico. L’analisi di Negri si
traduce in una parola di conforto a beneficio delle aree sociali subalterne. La
sottende l’idea che il loro riscatto non sia lontano: anzi, malgrado le
apparenze, la loro liberazione è già nei fatti. Non resta che rendersene
conto, e finalmente spiccare quel “salto immediato” nel comunismo che
Gramsci considera tema ideologico centrale del “sindacalismo teorico”.
[4]
Com’è noto, Negri scorge una profetica anticipazione della
propria teoria del “lavoro immateriale” in un testo aureo per la tradizione
operaista italiana, il cosiddetto “frammento sulle macchine” dei Grundrisse,
nel quale Marx sostiene che, in una società industriale pienamente sviluppata,
la “combinazione delle attività umane” e “lo sviluppo delle relazioni
umane” sono destinati a svolgere, in quanto tali, la funzione di mezzi di
produzione. [5] A questa prognosi si accompagnerebbero,
nella lettura di Negri, due implicazioni, del tutto confermate - a suo parere -
dai reali processi di sviluppo della nostra società.
Da un lato, la rottura del nesso - fondativo della legge
marxiana del valore - tra tempo di lavoro immediato e quantità di prodotto
(poiché la produzione dipenderebbe ormai soltanto “dallo stato generale della
scienza e dal progresso della tecnologia”); [6] dall’altro lato, il
fungere del “sapere sociale generale” da fondamentale “forza produttiva
immediata” [7] e, di conseguenza, l’affermazione del general
intellect quale effettivo dominus della riproduzione sociale. [8] Con buona pace dei capitalisti, ancora attardati nell’illusione di
governare la società nel proprio interesse, il potere sociale è quindi già
nelle mani del proletariato, arcano signore della riproduzione. Non è più vero
che la vita sia “prodotta nei cicli di riproduzione subordinati alla giornata
lavorativa”: “è la vita che penetra e domina ogni produzione”. [9] A ben vedere il comunismo è già realtà: “noi siamo
signori del mondo perché il nostro desiderio e il nostro lavoro
lo rigenerano continuamente”. [10]
Lo stesso vale sul piano politico mondiale. L’“Impero”
non è sinonimo soltanto della immediata e totale sovranità del capitale
transnazionale, ma anche dell’unità attuale del proletariato mondiale, la cui
infinita potenza deterritorializzante sovverte il potere nei suoi assetti dati.
La moltitudine è vettore di una “crisi immanente” dell’“Impero”. Il
Terzo mondo è “distrutto” (riscattato dalla sua inferiorità) dacché, “sul
terreno ontologico della mondializzazione, il più dannato della terra diviene l’essere
più potente”, “la forza più creativa”. [11] Per contro, il
potere del capitale si rivela una fragile maschera di subalternità. Hegel
direbbe che “esiste”, ma non è più “reale”. La conquista del mondo è
la sua perdita, l’“Impero” evoca di per se stesso un “contro-Impero”:
[12] in ciò consiste - leggiamo in Empire -
“il paradosso di un potere che, nel momento stesso in cui unifica e ingloba in
sé tutti gli elementi della vita sociale, rivela un nuovo, non dominabile,
contesto di pluralità e di singolarizzazione”. [13]
L’effetto consolatorio di tali rappresentazioni può non
essere una spiegazione esaustiva della loro diffusione, ma certo contribuisce a
farsene una ragione. “Si immagina che un fatto sia avvenuto e che il
meccanismo della necessità sia stato capovolto”, osserva Gramsci
soffermandosi sulle caratteristiche “del sognare a occhi aperti e del
fantasticare”: “la propria iniziativa è divenuta libera. Tutto è facile.
Si può ciò che si vuole, e si vuole tutta una serie di cose di cui
presentemente si è privi. È, in fondo, il presente capovolto che si proietta
nel futuro”. [14]
Quando il presente resiste a chi vorrebbe trasformarlo, dirsi
che i cambiamenti si sono già realizzati può servire ad evitare frustrazioni.
Tutt’altro discorso riguarda il prezzo imposto dai romanzi utopici, che, pur
di tenere alto il morale della truppa, dipingono il presente a tinte rosee e -
beffardo paradosso per un pensiero che si vorrebbe critico - ne diffondono
rappresentazioni apologetiche.
E qui, nonostante la distanza delle rispettive premesse
analitiche, Negri incontra nel loro esito moderato le teorie “radicali” del no
profit e della “fine del lavoro”. Da una parte, l’utopia dell’autoemancipazione
immediata dalla forma di merce consente il mascheramento ideologico della
privatizzazione dei sistemi pubblici di assistenza e previdenza. Dall’altra,
il paradigma imperiale legittima una interpretazione della mondializzazione
capitalistica come effetto della crisi sistemica del capitale globale. In
entrambi i casi, il panorama è quello di una situazione rivoluzionaria entrata
già nel vivo e destinata in breve a sottrarre la “moltitudine” al dominio
capitalistico.
4. Conti che non tornano
In che senso la posizione di Negri può definirsi, nel
merito, utopistica?
Come si diceva, non si può negare in blocco valore alle
analisi dei processi di riproduzione che, nel corso degli ultimi tre decenni,
hanno condotto Negri a costruire modelli interpretativi intorno alle figure dell’operaio
massa e dell’operaio sociale. Queste analisi hanno colto elementi di verità e
anticipato tendenze reali dello sviluppo. Proprio questo loro pregio ne ha
tuttavia, regolarmente, inficiato i risultati.
Per cavarcela con una battuta, potremmo dire che Negri ha
preso troppo alla lettera i luoghi nei quali Marx sottolinea la natura
dialettica del capitalismo e afferma che nel grembo della “vecchia” vive
già la “nuova società”. Più precisamente, Negri brucia le tappe,
identificando, un po’ gentilianamente, atto e potenza. Così, in un trionfo di
determinismo che azzera il ruolo della soggettività e nega ragion d’essere
alla prassi politica, le tendenze diventano in quanto tali realtà, e le
potenzialità immanenti nel presente stato di cose valgono di per sé come dati
di fatto.
Così funziona la teoria del “lavoro immateriale”,
costruita, a guardar bene, su un abile gioco di prestigio. Alcune
attività produttive - considerate paradigmatiche dell’attuale fase di
sviluppo - sono assunte come cifra della riproduzione nel suo complesso.
Il fatto che tali attività mobilitino competenze relazionali analoghe a
quelle coinvolte nella normale prassi comunicativa è presentato, a sua volta,
come riprova della loro identità con la prassi vitale, la quale è
quindi, transitivamente, identificata con lo svolgimento di tali
attività lavorative. Dopodiché, con coerenza a prima vista perfetta (peccato
che mettere le mani su un vestito di carta non autorizzerebbe a prevedere che la
carta sostituirà in breve la stoffa né, tantomeno, a cancellare ogni
distinzione tra un vestito e un libro), il ragionamento parrebbe chiudersi con
la dimostrazione della tesi che ormai vivere equivale a lavorare, e che - per
dirla con il Marx dei Grundrisse - la pretesa capitalistica di misurare
la produzione sociale in base al tempo di lavoro non ha già più alcuna materiale
ragion d’essere.
Anche per questa via Negri giunge alle stesse conclusioni dei
teorici della “fine del lavoro”, dei quali in apparenza costituisce l’antitesi.
Quelli, come si ricorderà, scorgono nella diffusione del lavoro formalmente
indipendente e della disoccupazione strutturale gli effetti della crescente
marginalità del lavoro vivo. Da parte sua, Negri legge l’espansione di
attività lavorative morfologicamente affini alla prassi vitale come confusione
tra lavoro e vita (“il proletariato produce ovunque, in tutta la sua
generalità, nel corso dell’intera giornata”), dunque come trionfo del lavoro,
giunto ad espugnare le zone più intime dei processi riproduttivi, “le
profondità delle coscienze e dei corpi”. [15] Ma non è
difficile capire in che senso l’una e l’altra diagnosi concordino su un
aspetto decisivo, l’idea che il nesso fondamentale della riproduzione
capitalistica si sia ormai spezzato, decretando l’anacronismo del modello
critico marxiano.
Questo è vero sia che si sostenga che il lavoro non è più
lo snodo cruciale della valorizzazione, sia che si affermi che esso ha ormai
luogo incessantemente e dappertutto. L’una e l’altra posizione convergono
sull’idea che oggi il lavoro dipendente (cioè l’attività produttiva svolta
in forme e tempi determinati, per finalità e contro valori monetari decisi dal
capitale) non costituisca più il motore fondamentale della riproduzione. Di
qui, appunto, l’esigenza condivisa di mettere Marx da parte, come un classico
della storia intellettuale di una modernità ormai conclusasi.
Ma se le cose stessero così, troppi conti non tornerebbero e
troppi dati di fatto sarebbero inspiegabili. Sarebbe incomprensibile la lotta di
classe che nei singoli paesi e nelle forme dettate dai rispettivi gradi di
sviluppo vede tuttora il capitale tendere a massimizzare l’estrazione di
plusvalore assoluto e relativo dal lavoro dipendente (ivi compreso, per
le ragioni dette, il lavoro formalmente “autonomo” di nuova generazione).
Perché questo forsennato attacco al salario se il capitale si valorizzasse
mercé attività esterne al circuito dell’impresa, fosse “fuoriuscito dalla
relazione salariale”? E perché questa accanita resistenza contro la riduzione
del tempo di lavoro o questa lotta per la sua estensione? Perché questa
crociata per la “flessibilità”, intorno alla quale si è dispiegata la
rivoluzione conservatrice del neo-liberismo di stampo reaganiano? E perché,
ancora, questa infuocata partita per il controllo dei flussi migratori, teso a
disporre di grandi quantità di forza-lavoro politicamente disorganizzata e
priva di garanzie e diritti, abituata a condizioni di vita e di lavoro ben più
dure di quelle conquistate dalle masse lavoratrici dei nostri paesi e quindi da
porre in concorrenza con esse?
[1] Cfr. Marx oltre Marx, cit., pp. 125 ss., 131 e passim.
[2] Cfr. ivi, pp. 13 ss.; si veda in proposito anche la “Introduzione
alla nuova edizione” di Marx oltre Marx, apparsa presso manifestolibri (Roma
1998).
[3] Mew,
vol. XXXIII (lettere luglio 1870 - dicembre 1874), 1984, p. 389.
[4] Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino
Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 1590-1.
[5] Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf)
1857-1858, Dietz, Berlin 1974, p. 592.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 594.
[8] Per l’analisi
del “capitolo sulle macchine”, considerato come “l’apice della tensione
teorica di Marx nel progetto dei Grundrisse”, cfr. Marx oltre Marx, cit., pp.
148 ss.
[9] Empire,
cit., p. 441.
[10] Ivi, p. 467.
[11] Ivi, p. 438.
[12] Ivi, pp. 20, 259 e passim.
[13] Ivi, p. 51.
[14] Quaderni del carcere, cit., p. 1131.
[15] Empire, cit., p. 50.