“Impero” e “lavoro immateriale”. Su alcune recenti derive teoriche del movimento di classe
Alberto Burgio
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Ove poi l’ipotesi di trasformazioni radicali del lavoro,
tali da determinare un mutamento del modo di produzione, dovesse discendere dal
presupposto secondo cui il modello marxiano di capitalismo non contemplerebbe
“lavori immateriali”, vale la pena di ricordare che il Capitale
annovera esempi di attività produttive collocate “al di fuori della sfera
della produzione materiale”, [1] e lo fa, non per
caso, per sottolineare la ininfluenza del tipo di attività e di prodotto
rispetto all’unica funzione del lavoro che abbia rilevanza per il capitale,
cioè il suo essere fonte di plusvalore (lavoro astratto). In questo senso Marx
osserva come - posto che “produttivo è soltanto l’operaio che produce
plusvalore per il capitalista, cioè serve all’autovalorizzazione del capitale”
“lavoratore produttivo” (sostanzialmente, operaio) sia anche il “maestro
di scuola” che “si schianta dal lavoro per arricchire l’imprenditore”.
[2]
Incomprensibili, ove adottassimo lo schema interpretativo
definito dalle teorie che, in un modo o nell’altro, affermano la fine del
lavoro dipendente, sarebbero anche gli avvenimenti che hanno caratterizzato la
scena politica mondiale nel corso dell’ultimo decennio. Proprio l’attacco
angloamericano all’Afghanistan sembra rivelare all’osservatore spregiudicato
un quadro coerente, nel quale tutte le campagne militari promosse dalle potenze
occidentali nel corso degli anni Novanta trovano una spiegazione connessa ai
loro fondamentali interessi economici e “geopolitici”. Tra i Balcani, il
Golfo Persico e l’area caspica corre una cintura decisiva per il controllo di
giacimenti petroliferi e di gas e per il contenimento delle potenze
politico-militari emergenti, dalla Cina all’India, al Pakistan, dall’Indonesia
alla stessa Confederazione Russa.
Come ancora di recente ha osservato Giulietto Chiesa, “se
si vorrà capire qualcosa”, “ciò che succederà, a Kabul e dintorni, nei
prossimi mesi, dovrà essere letto in questa chiave” e cioè tenendo presente
il rinnovato antagonismo tra Usa e Russia e la ripresa della corsa al riarmo
dalla parte della Cina, consapevole “di essere stata già eletta a nemico
principale quando l’attuale “clash of civilisations” contro il mondo
islamico sarà terminato”. [3] Non si può dunque concordare con quanti,
accogliendo entusiasticamente il “paradigma imperiale” come ultimo grido
dell’intelletto critico, si precipitano a consegnare agli archivi della
memoria una categoria fondamentale come l’idea di “imperialismo”, della
quale già Marx si servì, ante litteram, per analizzare il sistema della
dominazione coloniale inglese in India e, più in generale, il nesso tra
produzione capitalistica e sviluppo del mercato mondiale, indagato anche nel
quadro delle cause antagonistiche alla caduta tendenziale del saggio di
profitto.
Non è possibile adesso soffermarsi su questi aspetti, ma,
siccome la discussione ferve intorno alla natura della guerra attualmente in
corso (e in generale delle guerre susseguitesi nell’ultimo decennio), mi
permetto tre brevi citazioni.
Nel 1999 Adrian Burke, consigliere logistico dei marines,
ha pubblicato sull’autorevole rivista “Strategic Review” un articolo
intitolato Una strategia regionale statunitense per il bacino caspico nel
quale osservava, tra l’altro, che “l’insieme dei campi energetici della
regione Asia centrale-Medio Oriente contiene la più grande concentrazione
mondiale di riserve di idrocarburi e merita l’attenzione statunitense”.
[4] Ciò premesso, Burke concludeva: “assicurare alle compagnie statunitensi
la leadership nello sviluppo delle risorse della regione e azzerare l’influenza
russa ed iraniana sull’esplorazione e lo sviluppo dei campi energetici,
nonché sulle direttrici delle pipelines per l’esportazione,
costituisce la base di quella politica”.
Quanto alla guerra in Afghanistan (iscritto dagli Stati Uniti
nel libro nero da quando i taliban fecero saltare l’accordo per un
megaoleodotto da otto miliardi di dollari stipulato tra il governo turkmeno e la
compagnia petrolifera californiana Unocal), [5] Augusto Graziani ha sostenuto che la
ripresa in grande stile della guerra determinerebbe una “ripresa generale dell’economia”
statunitense, in quanto solleciterebbe “non soltanto il settore degli
armamenti, ma tutto l’insieme illimitato di industrie che riforniscono la
truppa americana nei suoi spostamenti”. [6] Graziani fa riferimento anche al
quadro “geopolitico” complessivo nel quale si colloca l’intervento
anglo-americano. “Oggi - scrive - potrebbe profilarsi l’occasione per
estendere l’operazione e collocare una presenza armata fino al Pakistan e all’Afghanistan.
Il collegamento con la presenza militare nei Balcani seguita alla guerra del
Kosovo creerebbe una cintura completa, una nuova frontiera fra oriente e
occidente, e al tempo stesso una salda protezione per gli oleodotti che in
avvenire dovranno convogliare sulle sponde del Mediterraneo il greggio estratto
dal Caspio e dai paesi circonvicini”.
Graziani disegna un quadro coerente - sul piano descrittivo -
con quello prospettato da Zbignew Brzezinski in una recente intervista alle “Izvestia”.
Consultato sui contraccolpi “geopolitici” dell’attacco alle Twin Towers, l’ex
consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter non ha nascosto le
proprie perplessità per la “mancanza di chiarezza nelle prospettive” della
coalizione internazionale “contro il terrorismo” (e dell’alleanza
russo-statunitense in particolare) e ha tenuto a sottolineare che “sarebbe un’esagerazione
affermare che dopo l’11 settembre si è creata una “nuova situazione
geopolitica”” in quanto “le caratteristiche fondamentali della potenza
economica, finanziaria, tecnologica e persino culturale dell’America non
subiranno cambiamenti”. In una battuta, “la posizione degli Usa nel mondo
sostanzialmente non cambierà”. [7]
Nulla di tutto ciò trova cittadinanza nel quadro
interpretativo elaborato sulla scorta del paradigma imperiale. Come non lo era
quella del Golfo, nemmeno questa contro l’Afghanistan è, per Negri, una
guerra. Si tratta, tutt’al più di “una vendetta”, di una “faida” tra
bande rivali, [8] che in nessun modo confuta la tesi
della a-nazionalità dell’“Impero” né, tanto meno, quella della sua
imminente crisi sistemica. Accade così che, considerato come il contesto più
propizio allo sviluppo di un “antagonismo pieno”, l’“Impero” sia oggi
il “benvenuto”, esattamente come vent’anni fa era accaduto all’“imperialismo
del capitale”, celebrato quale “premessa” dell’espressione della “soggettività
rivoluzionaria”. [9] La complessità del tema marxiano della “funzione
civilizzatrice del capitale” è azzerata per effetto di una lettura
deterministica dei processi di sviluppo che, nel momento stesso in cui enuncia
tesi radicalmente sovversive, autorizza l’attesa fideistica nell’automatico
prodursi della crisi.
5. Fine dell’imperialismo e morte della politica: ancora sulla
pervasività di un paradigma
Recenti sviluppi ulteriori della discussione politica nell’àmbito
della sinistra italiana sembrano confermare le valutazioni svolte poc’anzi a
proposito della pervasività del paradigma negriano. Mi riferisco in particolare
al dibattito interno a Rifondazione comunista e alle tesi proposte dalla
maggioranza del Comitato politico nazionale in vista del Congresso nazionale del
partito, previsto per il prossimo aprile. Ovviamente non è possibile procedere
qui a una disamina puntuale del documento. Mi limiterò quindi a poche
osservazioni, strettamente legate al punto in questione.
Al di là di pur autorevoli smentite, la traccia negriana è
persino dichiarata, laddove le tesi liquidano con sublime indifferenza il Marx
del Capitale e riducono il novero delle opere marxiane “della maturità”
a quelle “conosciute solo nel nostro secolo” (tesi 52). Ma - come ha
acutamente sottolineato Luigi Cavallaro [10] - ben altri e ben
più concreti sono, in diversi passaggi del documento, i rimandi alla
prospettiva di Negri. Essi riguardano l’analisi del processo di valorizzazione
(in specie l’idea - enunciata nella tesi 5 - di una sua modificazione
conseguente all’“accresciuto [...] processo di finanziarizzazione” e alla
maggiore incidenza dello “sfruttamento diretto e indiretto del lavoro
immateriale”); l’analisi della situazione internazionale (dove un’accurata
opera di emendamento ha tolto di mezzo l’ingombrante “Impero” per
sostituirlo con l’espressione, del tutto equivalente, “governo unipolare del
mondo” [tesi 15]); l’analisi delle nuove forme della riproduzione
(interpretate sulla base del presupposto della “sostituzione” delle agenzie
politiche - a cominciare dallo Stato - da parte del “capitale internazionale”
[tesi 10], affermatosi come nuovo soggetto sovrano). Vediamo brevemente più da
vicino qualche passaggio di queste argomentazioni.
Un primo terreno nel quale si evidenzia la decisa ispirazione
negriana di alcune tesi del documento congressuale della maggioranza del Cpn di
Rifondazione riguarda l’analisi internazionale a cominciare dal suo
presupposto, cioè l’idea - argomentata nelle tesi 14 e 15 - che “la nozione
classica di imperialismo appa[ia] inadeguata per caratterizzare l’attuale fase
dello sviluppo capitalistico” e che se ne imponga quindi “il superamento”.
Lo schema è sufficientemente univoco (e di stretta
osservanza negriana): la “globalizzazione” e la conseguente crisi di
sovranità degli Stati nazionali (con l’eccezione degli Stati Uniti, Stato sui
generis perché costitutivamente imperiale) avrebbero decretato l’esaurirsi
di quella specifica forma di proiezione esterna della potenza economica e
militare degli Stati che si era convenuto di definire “imperialismo”
determinandone la sostituzione ad opera di un potere sovrano “unipolare”
(imperiale) sul mondo. “I conflitti di questa fase e quelli in prospettiva -
leggiamo nella tesi 14 - non possono essere interpretati in funzione di
contrapposizione tra le maggiori potenze”, ragion per cui “catalogare i
contrasti e i conflitti internazionali fra Stati come effetti delle
contraddizioni interimperialistiche sarebbe totalmente fuorviante”. Non solo:
sbagliato sarebbe altresì annettere grande importanza a tali contrasti, poiché
se è vero che nel mondo non è “in corso un processo di omologazione assoluta
al sistema capitalista”, è nondimeno indiscutibile (stando almeno a quanto si
legge nella tesi 15) che tutti i contrasti “avvengono entro questo processo di
globalizzazione [e] non contro di esso”, dimodoché la loro evoluzione dipende
esclusivamente dall’“esito della crisi nel processo di globalizzazione” e
non dal loro eventuale ulteriore approfondirsi.
Non vi è, in questa analisi, nessuna traccia dei conflitti
intercapitalistici che nel corso dell’ultimo decennio hanno fatto da sfondo
all’interventismo militare statunitense in Iraq e in Jugoslavia e ora in
Afghanistan, né delle tensioni (manifestatesi anche di recente, in occasione
del vertice Apec di Shangai e dell’incontro tra Bush e Putin a Washington) tra
i diversi “poli” di rilevanza planetaria (Usa, Cina, India, Russia,
Indonesia) in ordine alle strategie di armamento e al controllo delle riserve
energetiche del pianeta. Silenzio assoluto, a maggior ragione, sulla
competizione tra dollaro, marco e yen, come pure sulle forti tensioni tra Usa e
Ue sul terreno della difesa militare e dell’allargamento ed est dell’Unione
europea e sulla gestione di teatri geopolitici cruciali come il Medio Oriente, i
Balcani, l’Africa australe e, oggi, l’Asia centrale.
[1] Mew, vol. XXIII, p. 532.
[2] Ibidem.
[3] La terra trema - Roulette russa a Kabul, “il
manifesto”, 30 dicembre 2001,
[4] Cit. in Sergio Finardi, Stelle e strisce sul Caspio, “il manifesto”, 27
aprile 2000; cfr. Alberto Burgio, La guerra delle razze, manifestolibri 2001, p.
16.
[5] Cfr. l’intervento di Hamid Mir
sul “Friday Times”, riportato sul n. 404 di “Internazionale” (21
settembre 2001, p. 41). Il testo dell’audizione del vicepresidente delle
relazioni internazionali della Unocal Corporation John J. Maresca dinanzi al
Sottocomitato per l’Asia e il Pacifico della Camera dei rappresentanti (12
febbraio 1998) è stato pubblicato dal “manifesto” lo scorso 17 ottobre. Vi
si legge tra l’altro, a proposito dell’Afghanistan: “Fin dall’inizio
abbiamo messo in chiaro che la costruzione dell’oleodotto attraverso l’Afghanistan
che abbiamo proposto non potrà cominciare finché non sarà insediato un
governo riconosciuto che goda della fiducia dei governi, dei finanziatori e
della nostra compagnia. [...] Per quanto riguarda il proposto oleodotto in Asia
centrale, CentGas non può cominciare la costruzione finché non si sarà
insediato un governo afghano riconosciuto internazionalmente. [...] Noi
chiediamo all’Amministrazione e al Congresso di sostenere con forza il
processo di pace in Afghanistan condotto dagli Stati Uniti. Il governo Usa
dovrebbe usare la sua influenza per contribuire a trovare delle soluzioni per
tutti i conflitti nella regione”.
[6] Soldi e soldati, “il manifesto”,
19 settembre 2001. Dello stesso avviso è Joseph Halevi, autore di un lucido
intervento sul “manifesto” del 22 dicembre scorso (Storia di una grande
guerra) nel quale si analizzano le ragioni dell’improvvisa ostilità Usa,
subentrata a un iniziale sostegno, nei confronti del sistema di navigazione
europeo “Galileo”: “il voltafaccia americano - osserva Halevi - testimona
la strettissima connessione che con Bush 2 si è stabilita tra il governo e il
complesso militare-industriale. Contemporaneamente questa vicenda, come altre
avvenute recentemente, mostra quanto sia fallace l’idea avanzata da Michael
Hardt e Toni Negri che oggi ci si trovi in un sistema imperiale senza
imperialismo. Le contraddizioni e gli scontri interimperialistici tendono a
riprodursi soprattutto in un clima di crisi economica mondiale. In questo
contesto però le cesure passano attraverso la stessa Europa, mentre le
istituzioni nazionali e governative Usa unificano l’espansionismo militare con
il sostegno delle loro multinazionali”.
[7] L’originale dell’intervista (qui citata
nella traduzione di Mauro Gemma) è disponibile on line nel sito del quotidiano
russo (http://www.izvestia.ru).
[8] Caroline Monnot - Nicolas Weill, Toni Negri: “È faida, non
guerra”, “La Stampa”, 4 ottobre 2001.
[9] Cfr. Paolo Di Stefano: Toni Negri, la rivoluzione globale
del “cattivo maestro”, “Corriere della sera”, 30 luglio 2001; Marx oltre
Marx, cit., p. 131.
[10] Cfr. L. Cavallaro: In punto di Teoria,
“rivista del manifesto”, n. 24, gennaio 2002, pp. 58-62.