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Alberto Burgio
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Professore, Università di Bologna

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“Impero” e “lavoro immateriale”. Su alcune recenti derive teoriche del movimento di classe
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“Impero” e “lavoro immateriale”. Su alcune recenti derive teoriche del movimento di classe

Alberto Burgio

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Tutto tende a ridursi a un denominatore comune e rischia così di perdersi, come nella notte delle vacche bigie. La logica del discorso obbedisce a una prepotente istanza di semplificazione, dove si ha l’impressione che talvolta quel che più importa non sia l’analisi della realtà e delle sue contraddizioni ma l’individuazione - ad ogni costo - di nuove categorie e nuove soggettività.

Per quanto concerne la questione del rapporto tra Stati nazionali e capitale “globalizzato”, lo schema è il seguente: la tesi della crisi di sovranità degli Stati nazionali (argomentata nella tesi 10) è supportata dal riferimento ai “grandi organismi costruiti su basi a-democratiche a livello internazionale” (Fmi, Omc, Bm, Ocse) che oggi detengono decisive “leve di comando dell’economia”, nonché agli “accordi sovranazionali” (nel caso dell’Europa, il trattato di Maastricht e il Patto di stabilità) dai quali dipendono “le decisioni di politica economica e di bilancio”.

A parte la sommarietà del quadro, non c’è ragione di dissentire, nella misura in cui si intende sottolineare un processo di cessione di quote di sovranità da parte degli Stati a beneficio di altri poteri extraterritoriali che è oggi sotto gli occhi di tutti. Il punto tutt’altro che ovvio è però la natura di questi poteri, che nel documento è letta in termini univocamente economici. Il trasferimento delle sedi decisionali in materia di politica economica e di programmazione è infatti interpretato come processo di acquisizione di sovranità da parte dell’impresa, della quale gli organismi e i trattati sarebbero semplici agenzie di rappresentanza. Subito dopo i passaggi citati, si legge nella tesi 10: “La tradizionale funzione mediatoria che lo Stato ha avuto, pur nella sostanziale difesa della società capitalistica, anche sul terreno di una certa ridistribuzione del reddito e della organizzazione dei servizi sociali, tende ad essere sostituita da quella di porsi come migliore garante dell’allocazione degli investimenti del capitale internazionale e della creazione di nuovi terreni per il mercato, con la riduzione dello spazio pubblico”.

La crisi dello Stato nazionale diventa, senza ulteriori mediazioni, crisi della politica intesa come terreno di elaborazione di soggetti, finalità, poteri e istituzioni relativamente indipendente dalle dinamiche economiche. Evidentemente, il fatto che i trattati e gli organismi sovranazionali svolgano (o contendano agli Stati nazionali) funzioni e prerogative connesse al terreno della regolazione e della politica economica e monetaria non è considerato rilevante, né si tiene conto della circostanza che essi costituiscono luoghi nei quali le leadership politiche dei diversi paesi competono (sulla base dei rapporti di forza internazionali) per determinare il governo dei mercati, il controllo delle risorse, le politiche di sviluppo, le politiche doganali e fiscali nonché gli stessi sistemi normativi influenti sui processi di riproduzione. Solo tenendo presente questi dati di fatto è possibile spiegare, ad esempio, il fallimento del vertice Wto di Seattle, la crisi di quello di Doha, i contrasti in seno all’Ue sugli assetti istituzionali dell’Unione e in tema di politica estera e di programmi di cooperazione economica. Nelle tesi, invece, tutto è risolto con l’aggettivo “a-democratico”: come se deficit di legittimazione democratica e sovranità dell’impresa fossero concetti equivalenti.

Un passaggio della tesi 14 radicalizza tale prospettiva e toglie qualsiasi dubbio circa l’ottica economicistica che la ispira. Dopo avere osservato che le caratteristiche degli attuali processi di accumulazione e di centralizzazione sono cambiate rispetto a settant’anni fa, la tesi conclude che i “centri decisionali del capitale” non solo non “si muovono sulla forza degli Stati” nel cui territorio si trovano più o meno accidentalmente dislocati, ma addirittura “ne condizionano e ne determinano non solo la politica, ma anche modi di funzionamento”. In una parola, l’impresa è il nuovo sovrano: comanda lo Stato (al punto di deciderne funzioni e strategie) e di esso si serve per tenere sotto controllo i corpi sociali (ridotti a puri giacimenti di forza-lavoro) e per asservirli alle proprie finalità. Proprio come in Negri - del quale inconsapevolmente si condivide l’ispirazione liberale su cui a ragione pone l’accento Roberto Esposito [1] (e l’osservazione si potrebbe generalizzare e riferire all’intero paradigma operaista) - il risultato è che la “globalizzazione” (o la “rivoluzione capitalistica”, secondo il linguaggio delle tesi) erode qualsiasi margine di autonomia rispetto al comando capitalistico: l’impresa “sussume realmente” società e cancella la politica quale “sfera di mediazione tra forze sociali in conflitto”.

Resta tuttavia un problema. Molto coerentemente, Negri nega qualunque ragion d’essere e qualunque spazio all’intervento politico inteso non solo come agire istituzionale ma anche come dinamica di ricomposizione sociale e di elaborazione di soggettività critiche: la “moltitudine bio-politica” racchiude in sé già tutto quel che serve per il ribaltamento dei rapporti di forza, è rivoluzionaria per natura, in quanto si costituisce come “potenza” sociale alternativa al dominio capitalistico. In questo senso Negri vi individua il vettore “spontaneo” del comunismo. Ma a un partito politico che approdasse a conclusioni di questo genere (magari cedendo alla tentazione di affidare al movimento no-global funzioni palingenetiche analoghe a quelle che Negri attribuisce alla moltitudine), cos’altro resterebbe se non proclamare il proprio anacronismo, quindi la propria superfluità?


[1] “La mia sensazione è che quando [Negri] tende a sovrapporre la questione del politico a quella del lavoro e della produzione, resti in fondo aderente allo stesso paradigma liberale che vuole criticare, nel senso che finisce per eliminare ogni elemento di specificità del politico” (Dialogo su Impero e democrazia, in “MicroMega”, 5/2001, pp. 122-3).