IL mio intento è disegnare un significato di dialettica che,
da un lato, sia filologicamente sostenibile e, dall’altro, si mostri in
sintonia con esigenze e orientamenti profondi della nostra epoca. Mia
intenzione, insomma, è dimostrare che esiste un senso di dialettica,
storicamente fondato e, ad un tempo, capace di raccogliere ed esprimere quanto c’è
di vitale nella cultura contemporanea. Allo scopo mi servo di due pagine di
altrettanti autori che, sia pure diversamente, hanno rappresentato momenti
importanti della riflessione teorica novecentesca sulla dialettica: l’economista
inglese Maurice Dobb e il filosofo francese J-P. Sartre.
Non casualmente ho usato l’espressione «mi servo»: in
effetti, utilizzo a volte (quasi sempre?) quanto scrivono i due Autori, anche
per ordinare riflessioni, che mi derivano da altre fonti. L’operazione è
legittima, esattamente perché dichiarata: ciò che conta è sapere che non
necessariamente il mio commento a Dobb o Sartre è rispettivamente ‘dobbiano’
o ‘sartriano’, dacché rinvia, invece, ad altre sollecitazioni, che per
altro risultano dalla bibliografia citata..
Il disegno, che dovrebbe risultare da tutto ciò, non
pretende certo di essere esaustivo, ma sì orientativo - nel senso di orientare
il lettore verso la comprensione della fertilità, ancora oggi, della
prospettiva dialettica.
1. In M. Dobb, 1974: 70s, troviamo un’esposizione dell’approccio
dialettico, che ci conviene riportare quasi integralmente, per via della sua
precisione ed essenzialità: riflettere sulle singole parti di tale esposizione
ci consentirà subito di afferrare alcuni termini essenziali del problema
«dialettica». Iniziamo.
“Secondo la concezione marxista della storia (dunque,
posta la marxista «filosofia della storia»: che d’ora in avanti
indicherò con FDS), il progresso ha visto succedersi vari sistemi di
classe, ciascuno generante le condizioni tecniche e i connessi modi di
produzione del tempo, e a sua volta condizionato da essi. Gli
antagonismi di classe, fondati sui rapporti che le diverse sezioni della
società hanno con il sistema di produzione predominante, sono stati la
fondamentale forza motrice del processo, del passaggio da una forma a quella
successiva. Come risulta chiaramente da un esame delle sue origini, anche il
capitalismo è un sistema di classe; diverso per aspetti di essenziale
importanza dai sistemi precedenti, ma pur sempre fondato su una dicotomia
fra i padroni proprietari e i soggetti espropriati. Era ben naturale che Marx
guardasse alle peculiarità di questo rapporto di classe per trovare una
chiave che gli consentisse d’interpretare il ritmo essenziale della società
capitalistica, di ritrovare gli squilibri, le tendenze al movimento della
società nei suoi fondamenti e non solo sui suoi fondamenti,
dietro il velo delle armonie economiche, che un’analisi limitata
semplicemente ai rapporti di scambio in un libero mercato sembrava rivelare.“
(sott. mie, S.G.).
Notiamo subito che M. Dobb, pur volendo illustrare la teoria
marxiana circa il modo capitalistico di produzione (kapitalistische
Produktionsweise, d’ora in avanti KPW) - dunque, un argomento singolare,
determinato, specifico-avverte, tuttavia, la necessità (in piena coerenza con l’impostazione
di Marx) di fare di una teoria generale (la FDS) il punto di partenza.
Com’è chiaro, si tratta di un modo di procedere
radicalmente anti-empiristico, in quanto presuppone che il «generale» non sia
come l’empirismo, invece, vorrebbe - il risultato di un processo di generalizzazione
(appunto!) dal «particolare» o empirico [1];
ma sìa piuttosto la condizione per poter osservare il «particolare».
In altre parole, possedere una teoria (corretta) è il presupposto, che
mi mette in condizione di avere una consapevole e determinata esperienza
degli eventi, che si manifestano (in questo senso, di osservarli, non
semplicemente di vederli). Si tratta, lo ripeto, di un classico argomento
anti-empiristico, che Marx poteva ricavare - se non altro - da Hegel (1770-1831)
e da Leibniz (1646-1716) [2] e che ricomparirà,
per es. in Lenin (1870-1924), quando questi affermerà la centralità della teoria
sia per la costruzione del partito, sia per la stessa azione rivoluzionaria.
È utile notare, ancora, che fa parte della teoria generale
ovvero della FDS marxiana o dialettica- concepire le condizioni tecniche e i
modi di produzione come qualcosa che muta nella storia, che assume forme diverse;
e che son proprio queste forme diverse ciò, che specifica e differenzia
ogni singola tappa del processo storico: quest’ultimo, dunque, non potrà
esser letto -linearmente- come lo svolgersi progressivo di uno stesso
schema o essenza (la economia, la società o l’uomo) [3].
Ben al contrario, i sistemi di classe, che volta a volta si
presentano nella storia, da un lato, impongono alle condizioni tecniche ed ai
modi di produzione certe forme determinate e, dunque, irripetibili;
dall’altro, questi stessi sistemi non sono né casuali né arbitrari, in
quanto son quelli resi possibili da condizioni tecniche e modi di produzione
empiricamente esistenti [4].
Dunque, fa certo parte dell’approccio dialettico l’affermazione
del primato della teoria sull’empirico, ma anche la consapevolezza che una
teoria è capace effettivamente di ‘leggere’ il movimento reale (in questo
senso la storia), se è in grado di cogliere di quest’ultimo (e di
giustificare) non solo i tratti costanti e generali, sì anche le differenze
essenziali, che ne caratterizzano le varie tappe. Ma dal rapporto fra
sistemi di classe, da un lato, e condizioni e modi di produzione, dall’altro,
possiamo ricavare anche un’ulteriore riflessione, per altro di grande
importanza sul piano scientifico.
Abbiamo visto, infatti, che per un verso i sistemi di classe determinano
condizioni e modi di produzione, ma per un altro sono, a loro volta, determinati
da questi ultimi: è esattamente come se dicessi che «c è causa di e
(cCe)», ma a sua volta che «e è causa di c
(eCc)». Non è difficile comprendere che accogliere come vere entrambi le
formule significa mettere radicalmente in discussione quello che comunemente si
intende per rapporto di causa ed effetto [5]. Facciamo un esempio per chiarire.
Posto che M sia una medicina, suo effetto sarà la
guarigione -in questo senso è del tutto legittimo affermare che M è causa
della guarigione. Ma cos’è che rende M una medicina? Il suo produrre
guarigione -in questo senso è del tutto legittimo affermare che la guarigione è
causa della medicina, è ciò che rende la medicina appunto medicina. [6] In definitiva, la critica
dialettica del principio di causalità significa operare una duplice
sostituzione: (i) al posto di categorie rigidamente separate e giustapposte (causa
e/o effetto), introdurre, invece, categorie fluide; (ii) al posto di un
movimento univocamente determinato (quello della causa in direzione dell’effetto),
introdurre un sistema di interazione e, dunque, un movimento in qualche modo
circolare (nel senso che se è vero che la causa determina l’effetto, è
altrettanto vero che solo la presenza dell’effetto fa sì che la causa esista
effettivamente) [7].
Riprendendo a leggere il testo di M. Dobb, osserviamo che
esso sottolinea come oggetto della riflessione marxiana sia non già uno stato
di fatto, ma sì un processo (quello del passaggio da una forma sociale
ad un’altra) e, quindi, le forze motrici, che lo provocano.
Si tratta di una precisazione di grande rilievo, perché, da
un lato, ci fa capire cosa significhi il motivo dialettico (hegeliano, in
effetti), secondo cui la coscienza è sempre in ritardo rispetto a ciò, di
cui è coscienza; dall’altro, ci dota di uno strumento per valutare la
serietà (o non serietà) di una filosofia, nonché ci permette di comprendere
in che senso e limite sia possibile - filosoficamente - un sapere, che anticipi
sul futuro. Vediamo con ordine.
Iniziando, nei Grundrisse, l’analisi delle forme
precapitalistiche di produzione, Marx indica tre processi o relazioni, che
caratterizzano la KPW: 1) lo scambio lavoro libero contro denaro, 2) la ricerca
del denaro per ottenere nuovo denaro, 3) la netta separazione del lavoratore
libero dalle condizioni materiali del lavoro.
Sotto il profilo metodologico, il fatto che il testo di Marx
(dedicato, lo si ricordi, alle forme pre-capitalistiche di produzione)
inizi in questo modo, a ben vedere, ci dice che l’intento di Marx non è
propriamente quello dello storico (almeno se ci atteniamo a ciò che comunemente
si intende per «ricostruzione storica»). Insomma ci dice subito che dalle
marxiane Formen non dovremo attenderci la ricostruzione attenta e precisa
di ciò, che costituiva l’essenza specifica di ognuna delle
forme precapitalistiche; sì piuttosto un’analisi di esse, che ci aiuti a comprendere
attraverso quale processo si sia giunti alle relazioni, caratterizzanti la KPW.
Essendo questo l’intento di Marx, è evidente che il suo
studio storico selezionerà, tra i fatti, quelli pertinenti, rilevanti,
significativi rispetto all’intento dichiarato; la sua sarà tutt’altro che
una storia ‘totale’, sì piuttosto una storia orientata, funzionale rispetto
allo scopo di comprendere meglio le caratteristiche della KPW. E ciò
comporterà, anche, una particolare predilezione da parte di Marx (ma, lo si
può dimostrare, anche da parte di Hegel) verso quei momenti storici, che
possiamo dire critici, nel senso che consentono di vedere
sufficientemente ben dispiegati i caratteri di un’epoca, insieme, però, al
primo evidenziarsi di quegli altri caratteri, che accompagnano l’epoca
alla propria dissoluzione ed al passaggio ad un’altra.
Se chiamiamo «filosofia» la coscienza, che l’epoca
storica assume di sé [8], vediamo che - nel senso dialettico di Marx (e di Hegel)- essa nasce
tardivamente rispetto all’epoca, in quanto ha bisogno non solo che questa
epoca esista effettivamente, ma sì anche che sia sufficientemente sviluppata da
mostrare quali siano i propri tratti specifici, - ovvero, quelli mancando i
quali, si scuotono le basi d’esistenza dell’epoca in questione -; ed anche
da cominciare a lasciar vedere i tratti di una nuova epoca.
La filosofia, dunque, è sempre legata ad un ‘oggetto’,
ad un mondo storico effettivamente esistente; e compito suo è render conto di
questo mondo, non di abbandonarsi a quell’ebbrezza speculativa, che fa
disprezzare l’esistente, sostituendolo con l’ideale.
Ecco il criterio discriminativo: una filosofia, che si sia
liberata di ogni romanticismo, che abbia raggiunto l’età matura e, dunque,
sappia farsi carico delle proprie responsabilità, non si ritiene estranea a
questo mondo; considera, al contrario, proprio questo mondo come la sua
autentica patria [9] e cerca di
comprenderlo (non di fuggirlo, in nome di un nobile ma esangue ideale), nonché
di comprendersi come parte di esso. [10]
Tirando le somme, una filosofia, per esser seria [11], ha da avere un «oggetto» -e, dunque, comparire dopo
di quello-; deve coglierne la specifica razionalità, ovvero, quel dinamismo
proprio, che ne spiega sia la sussistenza, sia il possibile ‘superamento in
altro’; ma ciò significa che l’«oggetto» della filosofia non è una cosa,
uno stato di fatto, sì invece un certo determinato groviglio di forze,
di tendenze, di dinamismi, di contraddizioni, che ci consentono attraverso la
comprensione dell’oggetto, la comprensione, anche, del suo possibile futuro.
In questo senso, la filosofia -pur nascendo dopo il
proprio «oggetto»-, si apre alla comprensione del futuro [12].
Il testo di M. Dobb, che qui ci interessa, termina,
proponendoci una considerazione di estremo interesse.
“Il valore -sottolineava Marx- non è un misterioso
attributo intrinseco alla cose: è semplicemente un’espressione del rapporto
sociale tra uomini... Spiegare per tanto il plusvalore in termini di qualche
proprietà di un oggetto (capitale), significava ricadere in quello che Marx
definiva il feticismo delle merci: una specie di animismo in cui l’economia
volgare post- ricardiana si invischiava sempre più.”.
Posto che capitale, plusvalore, salario, profitto, merce etc.
non sono che membri della classe categoria economica, appartiene alla
teoria di Marx la tesi, secondo cui ogni categoria economica è il risultato di
un certo insieme di relazioni sociali, costruitosi storicamente. In questo
senso, la categoria economica non è un’esistenza autonoma, non solo perché
ha senso unicamente in quanto si relaziona, in un certo modo, ad altre categorie
economiche, ma anche perché non esisterebbe (o se esistesse, non avrebbe il
senso che, di fatto, ha all’interno di un sistema produttivo dato), se non si
dessero storicamente certe relazioni di classe.
Assumere effettivamente coscienza, dunque, della categoria
economica significa scioglierla dalla sua apparenza di cosa esistente e
ricondurla alla sua realtà, al suo essere, ovvero, rappresentazione di un certo
intreccio di relazioni sociali (naturalmente non gratuito e arbitrario, ma
storicamente spiegabile, dati certi livelli di sviluppo tecnologico e certe
condizioni naturali e culturali).
Come si vede, torna la critica all’empirismo: posta la KPW,
essa si rappresenta attaverso categorie economiche, che a tutta prima si
presentano come costituenti un autonomo dominio reale (il mondo
economico), dotato di proprie leggi e regole, che la coscienza umana
dovrebbe limitarsi sostanzialmente a riconoscere [13].
Ma -dice la critica dialettica (anche qui non solo di Marx,
ma pure di Hegel)-, in realtà, quelle categorie non sono altro che il
presentarsi -come cose a sé stanti- delle relazioni sociali o di classe,
che specificano la KPW; dunque, ‘le cose’ non vanno prese sul serio,
non vanno assunte per come si presentano; ma piuttosto -a dir così- bisogna
aggirarle, andar dietro o sotto di esse, per mettere in evidenza il non casuale
intrigo di forze, tendenze, relazioni e contraddizioni, che costituiscono l’autentica
sorgente storico-sociale di quelle categorie (o cose). [14]
È facile vedere come la forma o logica di questo
ragionamento riproduca la forma o logica della critica all’empirismo, che
Leibniz, ad es., muoveva.
La produttività scientifica della critica all’empirismo è
sottolineata, in un esempio di rilievo, dallo stesso M. Dobb, quando scrive:
“indubbiamente, per Marx la più importante applicazione
della sua teoria fu l’analisi del carattere delle crisi economiche. Ai suoi
tempi, l’esame serio di questi fenomeni era ancora agli inizi. Si erano avute
alcune feconde, ma non-sistematiche, osservazioni del Sismondi (1773-1842) circa
gli effetti disintegratori della concorrenza e della produzione per un largo
mercato; si era avuta la classica discussione fra Malthus (1766-1834) e Ricardo
sul fatto se prosperità e depressione fossero dovute alla deficienza del
consumo; in Germania, Rodbertus (1805-1875) aveva sviluppato la sua teoria delle
crisi, basata sul sottoconsumo. Ma, per quanto riguardava la scuola ricardiana e
la sua tradizione, si può dire che nel suo sistema le crisi non trovavano
virtualmente posto; se si verificavano depressioni, esse dovevano essere
considerate come dovute a interferenze esterne nel libero gioco delle forze
economiche o nel progresso dell’accumulazione del capitale, piuttosto che come
effetto di una cronica malattia interna della società capitalistica. Perfino i
successori di questa scuola furono tanto ossessionati da questa presunzione che
cercarono una spiegazione in cause naturali (come il diverso andamento dei
raccolti) o nel “velo monetario”. Ma a Marx appariva evidente che le crisi
sono connesse con i caratteri essenziali della economia capitalistica presa in
sé.“ (Dobb, 1974: 85).
[1] Va da sé che tutto ciò che è
empirico (dunque, possibile oggetto d’esperienza sensibile) è particolare.
[2] Quest’ultimo, in particolare, è interessante,
dacché in polemica con l’empirista inglese John Locke (1632-1704), sottolinea
il dogmatismo, da cui è necessariamente affètta l’impostazione empiristica,
che assume il dato empirico come l’indiscutibile e non si sforza di cogliere
il complesso di condizioni, di cui invece è espressione.
[3] È’
l’«errore», che commette il pensiero economico borghese, dacché interpreta
le epoche pre-capitalistiche come tappe per giungere alla società
capitalistica, ovvero, all’unica in cui, finalmente, le eterne leggi dell’economia
sono riconosciute e rispettate. È questo il senso anche della critica che F.
Engels muoveva a Dühring.
[4] A sostegno dell’uso di «possibile» in questo
contesto, cf. M. Dobb, 1974: 19, il quale scrive: “... le alternative
esistono, nonostante il determinismo di cui danno prova gli economisti
appellandosi alle ‘leggi economiche’.”. Per questi temi, rimando al mio
Dialettica e socialità, Roma 2000.
[5] Almeno se è vero che tale
rapporto implica una chiara e netta distinzione fra ciò che gioca il ruolo di
causa e ciò che gioca il ruolo di effetto. Accettare come vere sia cCe che eCc,
implica invece ammettere che causa ed effetto, pur essendo opposti, si rovescino
l’una nell’altro e vice versa.
[6] La
‘pericolosità’ di questo tipo di argomento è chiara: se affermo, poniamo,
che dio è creatore del mondo, in realtà affermo anche che dio, per esser tale,
dipende dal mondo, nel senso che è l’esistenza del mondo a renderlo dio, a
porlo come dio. In tal modo ho rovesciato una fondamentale affermazione
religiosa nel proprio contrario -ovvero, nell’affermazione della dipendenza di
dio dal mondo. È questa, in definitiva, l’operazione, che compie Hegel, 1970;
operazione che, con tutta evidenza, è il presupposto del discorso, che
Feuerbach (1804-187) farà sulla religione.
[7] Le formule possono aiutare a capire: se il rapporto di
causalità può essere rappresentato con: c -->
e (la causa, che si muove verso l’effetto, che opera su
di esso); la critica dialettica alla causalità può invece autorizzare una
formula come la seguente: c <--> e
(ovvero, il muoversi degli estremi ognuno verso l’altro, dunque, il loro agire
l’uno sull’altro). “Le spiegazioni causali - osserva V. Giacchè, 1990: 59
hanno per Hegel validità universale, ma loro proprium è la natura
inorganica, in quanto solo eccezionalmente (per lo più in condizioni
patologiche) i rapporti causali risultano «dominanti» nell’ambito della vita
e dello spirito... per un verso causa ed effetto restano esterni e contingenti l’uno
all’altro, cosicché la necessità che nel rapporto causale si vorrebbe
esibire è soltanto presunta...; per l’altro, la cosiddetta «spiegazione» di
un fenomeno è concepita come il mostrare l’identità di un effetto e delle
sue condizioni causali, lo stesso «spiegare non è nient’altro che la
produzione di una tautologia».”
[8] Dobbiamo necessariamente risolvere in questo modo
pericolosamente rapido un problema centrale della prospettiva dialettica (l’affermazione,
appunto, della filosofia come coscienza scientifica, che la storia assume di
sé). Se non lo facessimo renderemmo questo scritto ancora più esteso e
pesante.
[9] Il termine tedesco per patria è Heimat e unheimlich è,
per Freud, quella condizione psichica, per cui proprio in ciò che riconosco
come mia patria mi sento - nello stesso momento - estraneo.
[10] Siamo probabilmente in condizione, ora, di
comprendere cosa intendesse Hegel con la sua identificazione di reale e
razionale (il razionale sta qua, in questo mondo; non c’è altra razionalità,
se non la razionalità di questo mondo) e Marx, quando parlava di
«realizzazione della filosofia» (la filosofia deve assumere coscienza che
questo mondo è la sua patria, così come il mondo deve riconoscere nella
problematica filosofica l’espressione di sue effettive, profonde esigenze). Si
consideri quest’altra pagina di M. Dobb: “I problemi reali sono determinati
tanto dall’azione che l’uomo guidato dal pensiero esplica su una situazione
determinata, quanto dalla stessa situazione oggettiva (ma in movimento); in tal
senso si può dire che i problemi reali rappresentano sempre, pur se in vario
grado, una contraddizione tra i due elementi indicati. Questi problemi diventano
comunque il punto di partenza di un nuovo pensiero, il punto d’avvio della
formazione di nuovi concetti e teorie, che in tal senso sono sempre in rapporto
con un particolare contesto storico. I concetti e idee che cambiano di continuo
sono in parte un commento o un’interpretazione - un «riflesso», se si vuole
usare un termine così passivo- della situazione oggettiva osservata secondo una
prospettiva particolare”. (Dobb, 1974: 21). Nello spirito della dialettica di
Hegel e di Marx sembra essere questa pagina: “Noi abbiamo a che fare col
fondamento di ogni scienza e di ogni metodo, con quel fondamento tanto difficile
da cogliere nella sua semplicità -il fatto che c’è ragione. C’è ragione -
è il principio di ogni scienza teorica, di ogni scienza che vuol parlare in
modo ragionevole di ciò che è... C’è ragione (ovvero) l’essere del mondo
è aperto all’uomo, ... il mondo è ragionevole come lo è il discorso dell’uomo,
... la ragione del mondo e la ragione nell’uomo sono una e medesima ragione. C’è
osservazione, c’è analisi, sintesi, perché il discorso è il mondo divenuto
parola e questo mondo è il discorso realizzato.” (Weil, 1985: 202)10.
[11] Per Hegel e
per Marx questo significa non utopistica, non idealistica, non
irrazionalistica.
[12] In quanto
basata sulla conoscenza dell’oggetto proprio, tale apertura non ha nulla a che
vedere con l’utopismo.
[13] Si osservi come questo
attegiamento della coscienza sia simile a quello, che essa assume nei confronti
della verità religiosa.
[14] È ovvio notare
l’evidente relazione tra questa concezione delle categorie economiche da un
lato, e l’hegeliana identificazione di reale e razionale, nonché la marxiana
realizzazione della filosofia.