Perché la guerra fa bene all’economia (I)
"Che cosa può ridurre drasticamente il deficit delle
partite correnti americane, e per questa via eliminare i rischi più
significativi per l’economia degli Stati Uniti e per il dollaro? La risposta è:
un atto di guerra. L’ultima volta che gli USA hanno registrato un surplus
delle partite correnti è stato nel 1991, quando il concorso dei Paesi esteri ai
costi sostenuti dall’America per la guerra del Golfo ha contribuito a generare
un avanzo di 3,7 milioni di dollari."
(report caricato sul sito internet di Morgan Stanley,
martedì 11 settembre, 7.30-8.00 [ora di New York]). [1]
“Si può, e certamente sarà fatto, dar lavoro all’industria
della difesa e spazio con grandi commesse statali, ma si tratta di un settore
specializzato, che solo in parte coinvolge anche i produttori di beni civili,
come le automobili. Se si trattasse di una grande mobilitazione bellica, tutti i
settori industriali sarebbero coinvolti, e la General Motors produrrebbe navi,
come ha fatto nella seconda guerra mondiale, o grandi missili, come durante la
guerra fredda. Ma non stiamo parlando di questo tipo di mobilitazione, per
fortuna dal punto di vista politico, ma sfortunatamente da quello economico”.
(M. De Cecco,
“Quando l’angoscia governa l’economia”,
la Repubblica, 5 ottobre 2001).
“Non crede che lo sforzo bellico possa ben presto creare
una condizione in cui più che stimolare l’economia sarà necessario frenarla,
per evitare rischi inflattivi? Segnali del genere per ora non ce ne sono. Ma
l’11 settembre è certo un fenomeno di enorme portata, forse più simile al 1914
che al 1939”.
(Intervista di A. Polito a T. Padoa Schioppa,
la Repubblica, 10 novembre 2001).
1. La "soluzione Warfare" nella storia recente degli Stati
Uniti [2]
C’è una costante nella storia economica degli Stati Uniti da
più di un secolo a questa parte. Ed è la stretta correlazione tra interventi
militari e ripresa dell’economia. Questa correlazione è così stretta che chi
legga la tabella dettagliata dei cicli economici americani che si trova sul sito
di un istituto governativo come il National Bureau of Economic Research si
imbatte in questa avvertenza: "i dati in grassetto si riferiscono
all’espansione economica dei periodi di guerra [wartime expansions], alle
contrazioni economiche postbelliche e all’intero ciclo che include le espansioni
dei periodi bellici". [3] In altri termini: dalla guerra civile americana in poi,
il nesso tra guerra ed espansione economica è indiscutibilmente accertato e
assolutamente ricorrente. Ma vediamo più da vicino la questione, prendendo in
esame le principali avventure belliche americane dagli anni Quaranta del secolo
scorso ai nostri giorni. [4]
a) La Seconda Guerra Mondiale
Fu soltanto grazie all’ingresso nella Seconda Guerra Mondiale
e alla messa in opera della macchina bellica relativa, e non grazie agli
investimenti di Roosevelt in opere pubbliche, che gli USA riuscirono a
risollevarsi dalla Grande Crisi degli anni Trenta. Lo ha ribadito non più tardi
di qualche settimana fa il premio Nobel per l’economia Peter North, replicando
ad un incauto giornalista che faceva presenti i meriti del keynesismo per
l’uscita dalla crisi degli anni Trenta: “Non siamo usciti dalla depressione
grazie alla teoria economica, ne siamo venuti fuori grazie alla Seconda guerra
mondiale”. [5]
Le cifre, del resto, parlano da sole. [6] Durante il New Deal rooseveltiano la spesa pubblica civile era
cresciuta dai 10,2 miliardi di dollari del 1929 ai 17,5 del 1939. Ciò però non
aveva potuto impedire che, nello stesso periodo, il PIL calasse da 104,4 a 91,1
miliardi di dollari, e che la disoccupazione invece salisse dal 3,2% al 17,2%
della forza lavoro complessiva. Dal 1939 lo scenario cambia. Il sistema
economico è dapprima tonificato dalla vendita di armi agli Inglesi ed ai
Francesi (ma - come oggi sappiamo - le grandi imprese americane, dalla Ford alla
IBM, non disdegnarono di fare contemporaneamente affari anche con i nazisti), e
poi definitivamente rimesso in carreggiata con l’ingresso diretto degli USA in
guerra (dicembre 1941): il PIL riprende a crescere, la disoccupazione viene
praticamente azzerata. [7]
b) La guerra di Corea
Finita la guerra torna la crisi economica, pur mitigata dalla
domanda differita di beni di consumo accumulatasi durante il conflitto, e
dall’avvio del Piano Marshall in Europa. Nel 1949, comunque, gli USA sono
nuovamente in recessione. Provvidenziale, nell’estate del 1950, scoppia la
guerra di Corea. Il risultato è una fortissima spinta al riarmo. I Paesi della
NATO triplicano in soli 3 anni le loro spese militari, che passano infatti dai
38 miliardi di dollari del 1949 ai 108 miliardi del 1952. Ma la parte del leone
la fanno gli Stati Uniti, le cui spese militari nel 1952-3 giungono al 15% del
PIL. Non a caso la guerra di Corea è tuttora considerata "un caso
paradigmatico" di "forte incremento esogeno della spesa
pubblica". [8] Un incremento che durerà a lungo: anche dopo la fine della guerra,
infatti, le spese militari - pur diminuendo - resteranno a lungo attestate su
percentuali del PIL più che doppie rispetto agli anni precedenti la guerra di
Corea. [9] Ma, ciò che più conta,
all’enorme incremento delle spese per gli armamenti corrisponde una nuova fase
di espansione economica: definita, per l’appunto, il "boom coreano".
c) La guerra del Vietnam
Nel 1961, quando John F. Kennedy raggiunge la presidenza, gli
USA sono da tempo in piena crisi economica. La risposta - secondo un luogo
comune storiografico - sarebbe quella del "Welfare" e
dell’aumento della spesa pubblica. Quello che di solito si dimentica di
aggiungere è che l’82% di questo aumento è ascrivibile alle spese militari.
Viene inoltre potenziata la vendita delle armi ad altri Paesi (prima cedute per
i nove decimi gratuitamente). I risultati non si fanno attendere: il valore
delle armi vendute dagli USA aumenta in 6 anni di ben 6 volte. Ma sarà in
particolare la guerra del Vietnam - e le relative spese militari, tornate a
superare il 10% del PIL - a ridare slancio all’economia americana. Che infatti,
a partire dal 1964, conoscerà una delle più lunghe fasi espansive della sua
storia (sfuggendo alle recessioni che in quegli stessi anni attanagliano
l’Europa). Anche in questo caso, il nesso tra impegno bellico ed espansione
dell’economia è chiaro come il sole. Tanto chiaro da essere entrato nel senso
comune di chi si occupa di economia. Tant’è vero che qualche tempo fa un
editorialista del Sole 24 ore si è potuto lasciar sfuggire, come se
niente fosse, un’affermazione come questa: "La pur magra crescita del
quarto trimestre del 2000 ha conferito a Bill Clinton l’alloro di essere stato
l’unico presidente dai tempi di Lyndon Johnson - ma quelli di Johnson erano
tempi di guerra (del Vietnam) - a non aver conosciuto neanche un trimestre
di regressione del PIL". [10]
d) Lo "scudo stellare" di Reagan
Già sotto la presidenza Carter le spese militari
ricominciano ad accelerare il passo. L’occasione è offerta dall’invasione
sovietica dell’Afghanistan (24 dicembre del 1979): già nel numero di "Business
Week" del 21 gennaio 1980 si parla esplicitamente di "New Cold
War Economy" e si ipotizza una sensibile crescita della spesa per
armamenti. Cosa che avviene puntualmente.
Ma l’accelerazione diviene frenetica con l’arrivo di Reagan
alla presidenza degli Stati Uniti, e con il lancio della sua creatura
prediletta, lo "scudo stellare". Le spese per la difesa aumentano dal
1981 al 1985 del 7% all’anno, mentre la quota delle spese militari all’interno
del bilancio federale cresce dal 23% al 27%. Ancora una volta, le spese per gli
armamenti vengono giocate in chiave recessiva. Dando luogo a un curioso
paradosso: mentre con una mano Reagan agita la bandiera del "meno
Stato", con l’altra dà vita ad uno dei più giganteschi programmi di spesa
pubblica. Con il particolare non trascurabile che questa spesa pubblica non
viene impiegata per servizi sociali e di assistenza, ma adoperata per produrre e
comprare armi.
e) La guerra del Golfo
Con il crollo del Muro di Berlino e l’agonia dell’Unione
Sovietica l’America si ritrova, di colpo, senza il "Nemico" per
eccellenza: il "regno del Male" (secondo la cortese definizione di
Reagan, riecheggiata nelle settimane scorse nelle parole di Bush contro bin
Laden) sta uscendo ingloriosamente di scena. Per fortuna c’è Saddam Hussein, ex
grande alleato dell’Occidente (nella guerra contro l’Iran), che nell’agosto del
1990 decide di invadere il Kuwait. La risposta è una guerra, condotta con un
enorme dispiegamento di mezzi, dapprima attraverso bombardamenti, poi con un
intervento terrestre diretto dell’esercito americano (16 gennaio-28 febbraio
1991).
Dal punto di vista strategico si tratta di una vittoria
importante per gli Stati Uniti, che consolidano la presa sulle risorse
petrolifere del Golfo Persico. Il politologo americano Samuel Huntington ha
così sintetizzato la posta in gioco e i risultati della guerra: "la Guerra
del Golfo è stata la prima guerra tra civiltà dell’epoca post-Guerra fredda.
La posta in gioco era stabilire se il grosso delle maggiori riserve petrolifere
del mondo sarebbe stato controllato dai governi saudita e degli emirati - la cui
sicurezza era affidata alla potenza militare occidentale - oppure da regimi
indipendenti antioccidentali in grado e forse decisi a utilizzare l’arma del
petrolio contro l’Occidente. Il quale non riuscì a spodestare Saddam Hussein,
ma riportò una vittoria in quanto ribadì la dipendenza della sicurezza degli
Stati del Golfo dall’Occidente e si assicurò un’imponente presenza militare nel
Golfo anche in tempo di pace. Prima della guerra, Iran, Iraq, il Consiglio per
la cooperazione nel Golfo e gli Stati Uniti competevano per l’acquisizione di
influenza nel Golfo. Al termine del conflitto, il Golfo Persico era diventato un
lago americano." [11]
Ad eccezione delle bestialità sulla "guerra tra
civiltà", si tratta di un quadro corretto. Al quale si può fare un solo
appunto: quello di essere incompleto. Infatti, anche in questo caso, come nei
precedenti, l’impegno bellico recò anche importanti benefici economici
immediati agli Stati Uniti. Basta guardare alle date: la guerra terminò il 28
febbraio; il mese successivo si concluse l’ultima recessione precedente
l’attuale. Non solo: nello stesso anno gli Stati Uniti (cronicamente
indebitati nei confronti del resto del mondo) hanno, per l’ultima volta, potuto
vantare un avanzo delle partite correnti.
Tale circostanza è stata di recente nostalgicamente
rievocata, nel singolare report della Morgan Stanley riprodotto in apertura di
questo articolo. Si tratta di un documento notevole, per più di un motivo.
Intanto, per i suoi contenuti: come si vede, il cinismo degli analisti
finanziari non si ferma di fronte a nulla, e giunge, senza tanti giri di parole,
ad augurarsi la guerra come via d’uscita per un’economia in difficoltà. Ma
questo report è notevole anche per un altro motivo: la data in cui è
stato scritto. Esso è infatti stato caricato sul sito di Morgan Stanley
martedì 11 settembre tra le 7.30 e le 8 del mattino, ora locale di New York.
Ossia un’ora prima che "l’atto di guerra" si verificasse veramente.
Purtroppo per gli estensori, negli uffici della Morgan Stanley, situati nelle
Twin Towers.
2. La guerra fa bene all’economia anche oggi
Il testo della Morgan Stanley non rappresenta un caso
isolato. O meglio, esprime un fatto incontestabile: che la guerra, già prima
dell’attentato alle Twin Towers, era per così dire nell’aria.
Lo era innanzitutto nella forma del suo più ovvio
presupposto: l’aumento delle spese militari. Già nel gennaio del 2001 un
report del Foreign Policy in Focus avvertiva che le spese militari
americane erano risalite, dagli "appena" 291 miliardi di dollari del
1998 ai 310 miliardi di dollari previsti per il bilancio 2001. Tale ammontare
equivaleva al 90% circa della spesa media sostenuta dagli Stati Uniti negli anni
della guerra fredda, ed era pari al 16% del totale delle spese previste dal
bilancio americano (e al 50% di quelle discrezionali). Non solo: la cifra spesa
dagli USA per gli armamenti era maggiore di quanto spendevano per tale voce
tutti gli alleati e tutti i possibili nemici degli USA messi assieme (ad es., la
seconda potenza militare del mondo, la Russia, spendeva 55 miliardi di dollari,
la Cina 38). In tal modo, considerandola in termini relativi, la spesa militare
degli Stati Uniti dal 1985 al 2000 era cresciuta dal 30% al 36% del totale delle
spese militari su scala mondiale. E adesso, sosteneva il rapporto, "le
spese militari americane hanno ricominciato ancora una volta a crescere",
citando come probabile un aumento di 30 miliardi di dollari l’anno per gli anni
successivi. Rispetto a questo stato di cose, continuava il rapporto, "molti
Americani si interrogano sull’utilità di dare ulteriore risorse a questo
settore, in assenza di minacce credibili alla sicurezza degli Stati Uniti ed
alla relativa pace che prevale nel mondo". [12]
[1] Cit. in
Borsa & Finanza, 15/9/2001, editoriale di O. De Paolini.
[2] Questo articolo (una sintesi del quale è stata pubblicata su l’Ernesto
5/2001) è il primo di una serie di due articoli. Il prossimo sarà dedicato ad
un’analisi di dettaglio delle motivazioni della guerra in Afghanistan sotto il
profilo degli scenari geo-politici e del controllo delle materie prime.
[3] Vedi National Bureau of Economic Research, "US
Business Cycle Expansions and Contractions", all’indirizzo:
www.nber.org/cycles/.
[4] Non ci occuperemo, quindi, di tutti i casi di guerra
guerreggiata da parte degli Stati Uniti, ma soltanto dei principali. Per
completezza, citiamo comunque l’elenco di tutti i Paesi con i quali gli USA sono
stati in guerra (e/o che hanno ricevuto la sgradita visita di bombardieri
americani) a partire dalla fine della seconda guerra mondiale: Cina (1945-6,
1950-3), Corea (1950-3), Guatemala (1954, 1967-9), Indonesia (1958), Cuba
(1959-60), Congo belga (1964), Perù (1965), Laos (1964-73), Vietnam (1961-73),
Cambogia (1969-70), Grenada (1983), Libia (1986), El Salvador (anni ’80),
Nicaragua (anni ’80), Panama (1989), Iraq (1991-99), Bosnia (1995), Sudan
(1998), Yugoslavia (1999). Fonte: A. Roy, War is Peace, 18 ottobre 2001
(www.zmag.org/roywarpeace.htm).
[5] “North: ‘una nuova economia di guerra’” [!!], intervista
pubblicata sul Sole 24 ore del 10 ottobre.
[6] I dati che seguono
sono tratti da F. Battistelli, Armi: nuovo modello di sviluppo?, Torino,
Einaudi, 1980, pp. 68-77, e da V.A. Ramey, M.D. Shapiro, "Costly Capital
Reallocation and the Effects of Government Spending", NBER Working Paper,
1999.
[7] Nel 1944 il tasso di disoccupazione era sceso all’1,2%
dal 17,2% di appena 5 anni prima!
[8] V.A. Ramey, M.D. Shapiro, "Costly Capital...", cit.,
p. 22.
[9] Nel 1956 erano ancora dell’11% del PIL, a fronte del 6,5% della prima
metà del 1950. Cfr. Ramey, cit., p. 41. Soltanto nel 1973 si tornerà al 6%
rispetto al PIL: v. Battistelli, cit., p. 73.
[10] Editoriale di F. Garimberti su Il Sole 24 Ore del
1° febbraio 2001.
[11] Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il
nuovo ordine mondiale, 1996; tr. it. Milano, Garzanti, 1997, pp. 373-4.
[12] R. Kaufman, "The Military
Budget Under Bush: Early Warning Signs" in Foreign Policy in Focus, gennaio
2001.