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La transizione difficile

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José Luis Martín Romero
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Dottore in Scienze Sociologiche. Preside del Dipartimento di studi sul lavoro del Centro di Ricerche Psicologiche e Sociologiche, Istituto cubano appartenente al Ministero di Scienza, Tecnologia ed Ambiente

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Il riaggiustamento economico-produttivo cubano degli anni ’90 e le sue conseguenze sul mondo del lavoro

José Luis Martín Romero

I differenti spazi di azione economica di base per le organizzazioni dei lavoratori

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Introduzione [1]

Qualcosa mi dice che devo scrivere questo articolo pensando a quelli - o quelle, che non hanno mai letto niente sul lavoro a Cuba. Non perché non si sia scritto o pubblicato in altri paesi, ma perché il nome di Cuba e i processi che comprendono i suoi soggetti lavorativi sono stati appena sfiorati nei dibattiti abituali dei centri accademici degli studi sul lavoro.

A questo possono concorrere vari fattori che vado solo ad elencare visto che non è il caso di analizzarli in questa sede. In primo luogo la nostra grandissima colpa di non aver fatto lo sforzo necessario per divulgare le nostre ricerche ed idee; in secondo luogo il relativo isolamento che per lunghi anni abbiamo avuto rispetto al movimento delle idee in questa disciplina, tanto nel continente come in quello che prima chiamavamo il “mondo capitalista” e che oggi non vale la pena distinguere; in terzo luogo il fatto di condividere una certa geografia dell’oblio insieme ad altri paesi del Centro-America e del Caribe e con altri del Sud-America.

Sarebbe presuntuoso cercare di arrestare con questo scritto tutta quella tradizione di ingiusta ma virtuale opacità; ma sicuramente cercherò di smuovere la curiosità e le inquietudini, cioè, di richiamare l’attenzione su quello che sta succedendo da queste parti. Ciò non solo perché vi interesserà (ve lo prometto) ma perché non è giusto che siamo solamente noi cubani a dare una valutazione e a discutere della nostra realtà, di modo che l’esperienza del nostro paese possa essere utile, in qualche maniera, ad un altro contesto e per altre riflessioni.

Tutti sanno come si è ritrovata Cuba dopo la caduta della vecchia area socialista est-europea: senza i suoi mercati fondamentali, la sua fonte di finanziamento essenziale e meno tutelata che mai di fronte al blocco economico e finanziario degli Stati Uniti, un paese che non ha perso tempo nel prendere nuove misure restrittive con la scusa di problemi internazionali.

Questa crisi, tanto inevitabile come repentina, si univa a sviluppi interni che denunciavano la necessità di una rivalutazione del modello economico: la crescita bloccata, la produzione con tendenze al ribasso e, sul piano lavorativo, un sistema di relazioni sociali tacitamente non funzionale, aspetto questo sul quale tornerò più avanti.

Faccio questo breve promemoria perché si possa capire perfettamente qual è il contesto storico concreto che condiziona ed orienta il reimpianto rinnovato cubano degli anni ’90.

Abbiamo chiamato rimpasto, o meglio reimpianto rinnovato, il processo di crisi che interessò tutti gli ordini che seguì la “caduta del Muro di Berlino” [2] e alle misure che sono state prese per fronteggiarla, ossia il reimpianto o riaggiustamento è la crisi più il suo farvi fronte.

Questo rimpasto forse - e la Storia si incaricherà di valutarlo- è la prima fase di un reimpianto e una ri-creazione e rinnovamento totale del socialismo come sistema, come modello di sviluppo. È pertanto di una ricchezza sociologica straordinaria per i singolari e contraddittori processi che sono stati posti in marcia.

Non so quanto si conosca questo fatto; ma tutte le misure prese furono precedute da un processo di costruzione di consensi a livello societario in tutte ed ognuna delle sezioni lavorative del paese (Martín, 1994). Tutti abbiamo potuto dire e in molti abbiamo dato opinioni sul “che fare?”.

Lo facemmo quando mancavano alimenti, corrente elettrica, trasporti, investimenti per la produzione, mercati per vendere, tecnologie per il rinnovamento, quando potevamo contare solo su noi stessi. Lo si fece per salvare il progetto di nazione nel quale siamo impegnati da più di un secolo.

La crisi non è terminata e neanche il nostro farvi fronte. Vi parlo di qualcosa che sta accadendo e a giudicare da un freddo, ma al fine eloquente indicatore come è la crescita economica in termini di PIL, Cuba ha raggiunto, per lo meno, un indiscutibile rafforzamento economico che ha invertito gli effetti più traumatici della crisi.

Chiaramente questo non è che voglia dire chissà cosa, ma l’obiettivo oltre che resistere è fare progressi, e progredire per i cubani e le cubane di oggi è poter contare su ciò che occorre per vivere cioè costruire il futuro soddisfacendo il più importante fabbisogno per continuare ad andare avanti e perché valga la pena vivere. Questo significa alto sviluppo economico e sociale, elevata ricchezza spirituale nell’equità sociale, ed infine, crescita umana. E ciò è impossibile se il lavoro, oltre ad essere efficiente ed efficace è anche alienante.

Per questo per quanto possa valere la nostra tenacia, o forse ostinazione nazionale, si deve misurare, in primissimo luogo, con la qualità delle relazioni sociali nel lavoro, con che tipo di società costruiamo noi uomini e donne cubane quando lavoriamo.

Quella fu l’osservazione essenziale della ricerca che fa da supporto a questo articolo.

I. Il Riaggiustamento o Reimpianto socialista. Situazione di partenza e contenuto concreto.

A) LA SITUAZIONE DI PARTENZA

Nel 1989 il nostro gruppo di lavoro [3] portò a termine una ricerca di taglio quantitativo su un’indagine nazionale intitolata Rasgos y Contradicciones de la Esfera Laboral del Modo de la Vida Socialista en Cuba [4] (Tratti e Contraddizioni della Sfera Lavorativa dello Stile di Vita Socialista a Cuba). Non immaginavamo che quell’anno avrebbe significato la fine di un’epoca che può essere presa come riferimento dei traguardi, già allora importanti, della Rivoluzione Cubana, ma anche delle contraddizioni di un modello di sviluppo sociale sospinto da trasformazioni essenziali o, nella sua imperfezione, destinato a scomparire.

Allora concludevamo, con un forte sostegno statistico, che il Sistema delle Relazioni Sociali nel Lavoro (vedi nota finale).

- Non chiariva né individualmente né collettivamente chi fosse il proprietario dei mezzi di produzione, cosicché la proprietà di tutti funzionava come la proprietà di nessuno.

- Non definiva il processo di cooperazione che tutto il lavoro è come lo spazio del confronto cooperativo delle capacità umane, ossia non incentivava la competenza a causa di un sempre maggiore disimpegno.

- Non controllava efficacemente la condotta lavorativa perché non distingueva a sufficienza l’esercizio dei lavoratori con un regime di gratificazioni né sanzioni adeguate alla motivazione lavorativa.

- Non disponeva dei suoi elementi basilari: forza lavoro e mezzi di produzione in una relazione tale che fossero potenziate le possibilità di entrambi.

Queste tesi (qui succintamente ricordate) erano sostenute in numerosi studi molto uniformi tra di loro e coincidenti anche con altre ricerche del periodo (Espina ed altri, 1989 e Casañas e altri, 1989). Ciò che era fondamentale, secondo il mio giudizio, era la dimostrazione matematica che mancava l’implicazione economica.

Ciò vuol dire che ricevere maggiori o minori guadagni non dipendeva dal fatto che si lavorasse di più o di meno o meglio o peggio. Questa mancanza di spiegazioni non dava una definizione al compromesso politico, posto che si sarebbe potuto rispondere solo, in termini politici, a convocazioni generali ai collettivi operai e non a quelle che si sarebbero potuto inoltre generare per il singolo, e ciò a partire dalle conseguenze economiche del loro disimpegno sociale e nel lavoro.

Questa modalità condizionava un altro fatto che avevamo captato (il cui vincolo avevamo misurato con l’argomento precedente) e che è essenziale per il socialismo: la partecipazione degli operai nelle decisioni era un atto formale, privo di contenuto, che in pratica non verificava il principio di realizzazione della proprietà sociale sui mezzi di produzione.

Raccogliemmo anche elementi allora positivi: un’alta potenzialità di partecipazione da parte della gioventù di entrambi i sessi, l’esistenza di un’avanguardia con un alto grado di esigenza di lavorare (innovare, superarsi, competere, potenziare la qualità, partecipare alla dirigenza, etc...). Questa avanguardia si identificava in quei giovani più qualificati.

Abbiamo colto anche un alto grado di compromesso politico degli operai e delle operaie con la Rivoluzione che, sebbene allora avrebbe potuto scambiarsi col sospetto di servilismo, la vita ci ha dimostrato che era vero; quindi ha resistito alla prova del tempo di questo doloroso Periodo Speciale, come si è cominciata a chiamare la tappa che abbiamo vissuto dagli anni ’90 fino ad ora.

Tuttavia, il nostro spirito critico allora non riuscì ad apprezzare i vantaggi che, malgrado quello che si è detto, erano visibili anche allora ed erano tanto il risultato di quel carente modello economico quanto dell’enorme programma sociale della Rivoluzione che cominciava a dare frutti tangibili.

Riuscimmo a vedere il rischio di instabilità, ma non la ragione dell’instabilità. Il tempo ce l’avrebbe insegnata:

- Godevamo di una convertibilità quasi assoluta della moneta nazionale sul mercato all’interno delle nostre frontiere e questo veniva completato da una correlazione funzionale apprezzabile tra i guadagni della popolazione e le loro spese, nelle aspettative di consumo di allora. Cioè, si godeva di una libertà economica indiscutibile, sebbene modesta, simultaneamente si contava su un’ampia copertura dei bisogni primari, delle necessità di prim’ordine attraverso i fondi sociali del consumo. Eravamo al terzo posto per reddito pro-capite dell’America Latina, con la distribuzione più equa dell’emisfero.

- Vivevamo in un’epoca di virtuale piena occupazione, anche se ci furono delle tensioni congiunturali. L’accesso al lavoro era garantito dalla pianificazione.

- Predominava il lavoro formale-statale e quella condizione altamente e favorevolmente regolata da tutte le leggi e dalla cultura di direzione che le è annessa, caratterizzava il legame dei cubani con il lavoro. Esistevano sia l’impiego cooperativo che quello che si realizzava per conto proprio, ma non appartenevano a differenti spazi economici né per la loro estensione né perché le loro attività fossero contrapposte alla pianificazione e al mercato, come avvenne successivamente.

Non è che non avessimo piena coscienza di questi tratti di equilibrio, è che li ritenevamo “naturali” e ci concentravamo sul desiderio di progresso.

B) IL REIMPIANTO: CONTENUTO CONCRETO

Gli anni ’90 significarono il più severo cambiamento come nazione all’interno, però, dello stesso progetto politico.

Ho già dato i tratti generali della crisi, ai quali dovrei aggiungere la contrazione dell’impiego, la quasi totale paralisi della produzione industriale, l’aumento del debito estero e un’inenarrabile serie di concreti disagi della vita quotidiana. E ciò senza che se ne potesse intravedere l’uscita. Il Prodotto Interno Lordo scese del 35% nei 5 anni seguenti e ancora non ha recuperato il livello del 1989.

In realtà il riaggiustamento o reimpianto complessivo socialista, anche per il suo significato linguistico, si distingue essenzialmente per l’insieme delle misure sul terreno economico, politico e giuridico con il quale il paese reagì alla minaccia che si trovava ad affrontare. Le misure sono state numerose (suggerisco di visionare nella bibliografia corrispondente, Martín, J.L. 2000), qui cercherò di sintetizzare ciò che è andato cambiando dalla prospettiva di coloro che come me studiano il lavoro:

a) La diversificazione delle forme di proprietà mediante l’apertura al capitale straniero; la creazione delle Unità di Base di Produzione Cooperativa (UBPC), con la concessione in usufrutto della terra amministrata dallo Stato e anche mediante l’ampliamento del lavoro per conto proprio.

b) La concentrazione dello sforzo di investimento nel settore emergente o nelle assicurazioni essenziali, cioè l’impiego delle limitate risorse finanziarie nelle attività a rapido recupero del capitale al fine di garantire provvigioni essenziali all’economia o al consumo popolare (energia, acqua, produzione di alimenti, etc...).

c) Il libero possesso e la circolazione della valuta, misura che ha provocato la parallela circolazione del dollaro nord-americano e del peso nazionale nelle transazioni private ed imprenditoriali con un danno inevitabile per la moneta nazionale a favore di una ricezione di divise monetarie nuove più forti. Ciò ha provocato la segmentazione del mercato in due grandi aree; quella del peso e quella del dollaro.

d) L’inizio della lenta trasformazione dell’impresa socialista, che ha guadagnato sotto il profilo dell’autonomia di gestione, ha sostituito i bilanci materiali con quelli finanziari ed ha iniziato a muoversi verso un modello di gestione denominato perfezionamento imprenditoriale che corre parallelamente alla riduzione del sussidio statale.

Come si può vedere ci sono delle trasformazioni che gravano sulla struttura socio-classista e fanno strada a soggetti lavorativi di recente comparsa. Potremmo dire che nell’economia cubana sono apparsi nuovi modi di accumulazione che obbligano necessariamente a nuovi modi di regolamentazione. Tuttavia, il predominio -che è programmatico- della proprietà statale denota un segno di continuità che relativizza quella trasformazione.

Ciò che viene chiamato, in termini non molto esatti, la dollarizzazione dell’economia ha fatto modificare tutte le strategie di vita della popolazione economicamente attiva, così come hanno fatto le imprese. In tal modo, la divisione del mercato ha imposto ai soggetti economici una sorta di “volto di Giano” che da una parte guardano alla pianificazione e con l’altra al mercato.

La struttura economica come risultato delle nuove strategie di sviluppo ha riportato un cambiamento sensibile. La condizione bicentenaria che vedeva “la nostra principale industria” monopolizzata dallo zucchero, in soli cinque anni è cambiata in favore del turismo. Tutta l’economia ha camminato insieme al mondo, verso la terziarizzazione.

Particolare importanza ha l’ancora lento processo di modernizzazione gestionale che vive l’impresa cubana sotto il nome di Perfezionamento Imprenditoriale. Talora questo processo viene visto come un’evoluzione naturale della cultura direzionale nel paese: ma la verità è che la necessità di ricollocare l’economia cubana nel competitivo insieme del mercato mondiale ha reso urgente il passaggio dalla tradizionale e sconveniente cultura direzionale predominante fino agli anni ’90 verso un’altra che promuoveva la reale identità dell’impresa socialista.

Il riaggiustamento e reimpianto socialista degli anni ’90 ci ha consegnato un nuovo paese all’inizio del XXI secolo, ha condensato vecchie e anche nuove (al tempo stesso urgenti) necessità di cambiamento, sebbene non le abbia esaurite, ma ha significato, in generale, e per il lavoro, non solo una nuova articolazione dell’occupazione [5] e della forza lavoro, ma anche una frammentazione inedita delle condizioni e relazioni lavorative potenzialmente generatrici di nuove identità nel mondo del lavoro allo stesso modo in cui ha prefigurato molti nuovi elementi occupazionali.

L’economia cubana è passata dal monospazio virtuale, in più di tre decadi, al multispazio e questo è il contenuto essenziale del rimpasto, del reimpianto economico-produttivo.


[1] Ns. Traduzione dall’originale spagnolo

[2] Riprendo questa immagine eufemistica che è divenuta tanto popolare, non perché creda che descriva ciò che realmente cadde, che fu un sogno propriamente falso, ma perché era l’unica cosa che meritava di essere distrutta. Ebbi l’opportunità di vederlo e fu ciò che sentii. L’altra parte meritava, e un giorno l’avrà, una ricostruzione su nuove basi.

[3] Allora composto, oltre che dall’autore, da José Luis Nicolau Cruz, Adriana Fernández Graza e Manuel Santos Sánchez.

[4] Era un vero programma di ricerca nel quale la nostra equipe era inserita; si riferiva alla Struttura Sociale e allo Stile di Vita Socialista a Cuba. In ogni modo, occasionalmente, abbiamo sempre detto che quella tappa era quella dei “titoli sovietici”.

[5] L’estensione prevista per questo articolo mi ha imposto di scegliere e ho deciso che la problematica dell’occupazione riceva un trattamento particolare, per cui non esaminerò qui le nostre scoperte in quel senso.