Il privato... è politico! Le privatizzazioni contro il movimento dei lavoratori 
                    Luciano Vasapollo  
                    Rita Martufi  
                      
                    Una lettura statistico-economica delle privatizzazioni italiane 
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La nostra rivista si è interessata al fenomeno delle privatizzazioni 
  già in passato con delle inchieste [1] che analizzavano 
  le circostanze e le motivazioni addotte dai governi per procedere allo “smantellamento 
  della cosa pubblica”.
L’indagine sulle privatizzazioni è partita già con i numeri 
  1/98 e 2/99 di PROTEO e come tutte le indagini che abbiamo fatto, dai dati ufficiali 
  dell’ISTAT, della Banca d’Italia, dell’EUROSTAT, dai dati provenienti dalle 
  fonti interne delle singole aziende e dai dati ABI (Associazione Bancaria Italiana); 
  incrociando questi dati siamo andati a vedere le tanta facce delle privatizzazioni 
  sia a livello macro, quindi un’indagine di carattere statistico-economica legata 
  agli indicatori che devono dimostrare la validità o meno e il relativo peso 
  nei conti economici nazionali dei vari paesi d’Europa, sia a livello micro, 
  portando avanti l’indagine su delle particolari aziende, con un’analisi a caratteristiche 
  più statistico-aziendali. È stato un lavoro molto faticoso e impegnativo che 
  si è protratto per lungo tempo e con questo numero di PROTEO vogliamo riprendere.
L’analisi è partita dal fatto che in Europa e nel resto del 
  mondo, è in atto un conflitto molto pesante fra aree di influenza capitalistiche; 
  un conflitto che apparentemente non è armato ma che forse è più pesante di un 
  conflitto di guerra, perché è una guerra economica-finaziaria quella che si 
  è scatenata fra l’area di influenza dello yen, quella di influenza ex marco 
  tedesco, oggi euro, e quella del dollaro. All’interno di questo conflitto si 
  vanno ridefinendo sia i ruoli e i modelli di capitalismo sia i ruoli e i modelli 
  d’impresa. Vediamo in particolare che in Europa si è realizzata soltanto una 
  apparente unità di carattere finanziario ma non c’è assolutamente un’unità politica, 
  né tantomeno una di tipo economico.
Questa premessa sui modelli di capitalismo per evidenziare 
  il fatto che anche i modelli di privatizzazione che si sono attuati in Europa 
  non sono assolutamente univoci; c’è in effetti una forte tendenza, un accorpamento, 
  un appiattimento verso il capitalismo selvaggio anglosassone, nonostante le 
  vie di privatizzazione inglese, francese, tedesca e italiana siano state completamente 
  differenti. L’analisi inchiesta che abbiamo svolto si è occupata delle privatizzazioni 
  in Europa e in Italia. In Europa siamo andati a vedere il collegamento tra modelli 
  di capitalismo e modelli di impresa; abbiamo analizzato in particolare in Germania, 
  paese in cui l’economia in un prossimo futuro verrà ancor più privatizzata con 
  processi molto più accelerati di quelli stabiliti durante il precedente governo, 
  nonostante l’attuale governo sia di sinistra, al fine di risolvere e addossare 
  al resto d’Europa i costi dell’unificazione della Germania. Parallelamente al 
  modello tedesco, abbiamo analizzato quello francese, che sembrava a prima lettura 
  meno democratico, in quanto si rifaceva alla logica del ‘nocciolo duro’ e non 
  a quella delle pubblic-companies, poi invece, ci siamo accorti che il modello 
  della Golden Share, del nocciolo duro si è apparentemente rivelato più democratico 
  economicamente del modello delle pubblic-companies, anche se poi ha portato 
  gli investitori istituzionali, le banche e i grossi poteri finanziari a controllare 
  le imprese di grandissime dimensioni con un capitale minimo relativamente a 
  quello che era il capitale d’impresa venduto. Si è analizzato il processo di 
  privatizzazione anche in Austria, Svezia, Norvegia e nei paesi dell’ex blocco 
  socialista, dell’Europa dell’est, dove ci siamo accorti che il processo di privatizzazione 
  ha una finalità legata alla corsa competitiva con le economie occidentali più 
  forti. Infine abbiamo analizzato il processo di privatizzazione in Italia; il 
  modello italiano risente della particolarità del capitalismo nel nostro Paese.
Sulla rivista PROTEO, sia sul n. 1 che sul 2 del 1998, si possono 
  trovare tabelle e grafici che spiegano più dettagliatamente la dinamica delle 
  privatizzazioni di cui ho parlato finora. Sono stati analizzati i vari casi 
  studio sulle privatizzazioni avvenute successivamente al Governo Amato, per 
  esempio La Nuova Pignone, le banche (CREDIT e COMIT), l’ENI 1, 2, 3 e 4, l’INI, 
  l’INA, l’ALITALIA, TELECOM, Banca di Roma e l’ENEL; ci si è soffermati sulla 
  privatizzazione e la battaglia sull’ENEL che non è soltanto di carattere economico 
  ma è una battaglia di principi, per ridare un ruolo interventista allo Stato. 
  Si sono inoltre analizzati dei casi locali di privatizzazione, come quello della 
  Centrale del Latte di Roma e dell’ACEA.
Ci sembra opportuno ora riprendere il discorso per analizzare 
  quali sono state le conseguenze sul sistema economico del nostro Paese, dovute 
  alla trasformazione di grandi aziende pubbliche in imprese private, anche se 
  con processi e modalità non sempre evidenti.
Le privatizzazioni delle imprese pubbliche sono state attuate 
  per raggiungere, secondo i vari governi che si sono succeduti negli anni ’90, 
  diversi obiettivi: in primo luogo per cercare di risanare le finanze pubbliche; 
  poi per favorire una migliore efficienza delle imprese e quindi per facilitare 
  la diffusione dell’azionariato popolare in un tentativo di creazione di processi 
  di allargamento di forme di democrazia economica.
Va ricordato che la con l’operazione di privatizzazione si 
  trasferisce in vario modo un’azienda di proprietà pubblica al settore privato; 
  con la privatizzazione formale le imprese pubbliche vengono sottoposte 
  agli istituti del diritto privato e così il controllo dei fattori di produzione 
  passa dal pubblico al privato pur mantenendo lo Stato il controllo del profitto 
  (in quanto mantiene la maggioranza del capitale sociale), mentre con la privatizzazione 
  sostanziale vengono cedute le quote di controllo sul mercato e, quindi, 
  anche il profitto passa in mano ai privati.
 Le forme principali di privatizzazione sono essenzialmente 
  tre: la prima consiste nel vendere a operatori privati la maggioranza delle 
  azioni di imprese a controllo pubblico; la seconda è data dalle vendite a privati 
  di componenti del portafoglio immobiliare pubblico (Stato, enti territoriali 
  locali, altri enti pubblici); la terza infine consiste nel concedere a privati 
  la gestione di servizi svolti in precedenza da operatori pubblici centralmente 
  o localmente in una situazione come quella italiana che era fortemente caratterizzata 
  dall’economia mista.
 
 
2. La via all’economia mista: ... pubbliche virtù
 L’intervento dello Stato nell’economia è derivato, 
  in un paese come il nostro che si era strutturato su assetti di economia mista, 
  dalle esigenze contingenti di compensare, integrare, ed in alcuni casi sostituire 
  la gestione privata in settori in difficoltà con lo scopo di tutelare l’interesse 
  collettivo.
Ma occorre ricordare che l’intervento dello Stato nell’economia 
  è avvenuto per compensare i fallimenti e le insufficienze dei privati; senza 
  l’intervento pubblico infatti il capitalismo italiano non sarebbe stato in grado 
  di sopravvivere e rafforzarsi a livello internazionale.
È possibile datare i primi interventi statali a sostegno dell’economia 
  già dal 1929 a seguito della crisi economica che ha coinvolto l’economia mondiale.
Più precisamente l’origine del sistema delle partecipazioni 
  statali risale al 1933, anno in cui è stata costituito provvisoriamente l’IRI 
  (divenuto nel 1936 un ente permanente) con l’obiettivo di acquisire parte delle 
  tre banche miste italiane in evidente difficoltà e garantire quindi i depositi 
  e il risparmio dei cittadini.
Nel secondo dopoguerra poi il ruolo dello Stato come imprenditore 
  si è consolidato: “È stato così che a partire dagli anni ’50, e fino in pratica 
  all’inizio degli anni ’90, alle holding pubbliche sono stati demandati in modo 
  improprio, implicitamente o esplicitamente, compiti strategici di politica industriale, 
  come garantire la separazione fra proprietà e controllo delle imprese, non assicurata 
  da un efficiente sistema finanziario, guidare l’allocazione delle risorse e 
  fornire gli indirizzi strategici ultimi dello sviluppo economico” [2].
In quegli anni era ritenuta fondamentale la presenza dello 
  Stato in settori strategici come quelli delle fonti di energia, della chimica, 
  dell’industria siderurgica; la nascita delle cosiddette economie miste, ossia 
  con la presenza di imprese pubbliche e private insieme (le prime per garantire 
  uno sviluppo generale e le seconde con regole di profitto), aveva come scopo 
  proprio quello di garantire delle economie di scala condizioni di parità e soprattutto 
  di impedire la nascita di monopoli.
Fino all’inizio degli anni ’90 il nostro Paese aveva partecipazioni 
  statali che interessavano una vasta gamma di servizi infrastrutturali (ferrovie, 
  gas, elettricità, comunicazioni, trasporti, ecc.). Il controllo pubblico era 
  esercitato attraverso le holding pubbliche, gli enti pubblici oppure attraverso 
  le aziende autonome o le aziende speciali. Il Ministero delle Partecipazioni 
  Statali controllava direttamente i tre grandi enti di diritto pubblico - l’IRI, 
  l’ENI e l’Efim.
Negli anni ’80 e nella prima metà degli anni ’90, sulla base 
  dei dati ISTAT relativi ai conti dei settori istituzionali, il settore pubblico 
  aveva raggiunto un peso superiore al 20% in termini di valore aggiunto prodotto, 
  contribuendo per il 38% alla formazione del capitale fisso e per oltre il 20% 
  dell’occupazione complessiva (cfr. Tab. 1).

Ci troviamo davanti a quel capitalismo definito padronale, 
  familiare, dove quattro o cinque famiglie controllano l’economia del Paese nonostante 
  la piccola media impresa abbia forti capacità di esportazione, ma il controllo 
  reale, quello politico ed economico, è in mano direttamente o indirettamente 
  alle grandi, potenti famiglie. Questo modello padronale è stato temperato dalla 
  via italiana all’economia mista, cioè dal ruolo delle partecipazioni statali. 
  Il ruolo dell’impresa pubblica è stato nel nostro Paese, almeno fino ad un certo 
  periodo, estremamente rilevante per il fatto che ha permesso di bloccare l’impostazione 
  monopolistica, di temperare almeno gli eccessi del capitalismo monopolista e 
  inoltre di permettere alcune fasi di sviluppo nel Mezzogiorno. Con questo non 
  si vuole salvare per intero il ruolo e le dinamiche dell’impresa pubblica, in 
  quanto ognuno di noi ha potuto notare l’intreccio perverso fra l’impresa pubblica 
  e il mondo politico e partitocratico. Tangentopoli è stata soltanto una rappresentazione 
  di un sistema di cui da anni tutti conoscevano l’esistenza. Il “fattore K” è 
  stato un fattore determinante per lo sviluppo dell’economia, cioè il blocco 
  democristiano ha portato avanti l’economia pubblica proprio in funzione del 
  controllo dell’eventuale ascesa dei comunisti all’interno del Paese. Dall’altra 
  parte, spesso, i sindacati confederali e lo stesso Partito Comunista hanno accettato 
  tali ricadute del “fattore K” perché, attraverso la mediazione con la politica 
  all’interno di un modello consociativo hanno ottenuto le briciole del sottogoverno 
  contraccambiando con la compressione delle iniziative di lotta del movimento 
  operaio italiano.
Se tali scelte politico-economiche hanno permesso, anche se 
  in maniera altalenante e con seri problemi redistributivi, una significativa 
  crescita senza i forti eccessi monopolistici, in un paese come il nostro caratterizzato 
  da un tipico capitalismo familiare allora è giusto chiedersi: cosa è cambiato 
  oggi e in questi ultimi dieci anni? La globalizzazione, l’internazionalizzazione 
  dei mercati i nuovi meccanismi di comunicazione hanno realmente imposto la totale 
  e sfrenata privatizzazione dei settori pubblici strategici? E con quali risultati?
È importante sottolineare infatti che:
“Le privatizzazioni presentano, tuttavia, alcuni gravi rischi:
 
  a) produrre condizioni di minore concorrenza in alcuni settori, 
    come conseguenza della riduzione del numero delle imprese concorrenti;
  
b) sostituire a monopoli pubblici monopoli privati;
  
c) favorire l’ingresso di gruppi a capitale straniero in 
    settori strategici per lo sviluppo del paese, con l’impossibilità di impedire 
    il degrado o il trasferimento delle strutture direzionali e di ricerca in 
    altri paesi, quando le convenienze del gruppo di comando lo richiederanno, 
    con il conseguente depauperamento culturale e professionale dell’area nazionale.
Fino ad oggi il sistema delle partecipazioni statali, pur con 
  i suoi limiti e sprechi, ha consentito al nostro Paese di mantenere una presenza 
  qualificata in settori produttivi di grande importanza per lo sviluppo... ha consentito 
  di presidiare settori strategici per il Paese (difesa, telecomunicazioni, energia)...” 
 [3].
 
3. Liberalizzare è bello... privatizzare è meglio!
La fase di trasformazione rapporto tra Stato ed economia segue 
  principalmente tre obiettivi: liberalizzazione dei capitali, deregolamentazione 
  del mercato e privatizzazione [4].
In sostanza il processo di privatizzazione che ha caratterizzato 
  l’Italia negli anni ’80 ha privilegiato gli interessi di parte, di alcune istituzioni 
  e grandi famiglie del padronato italiano, invece di conseguire finalità pubbliche, 
  o di allargamento della base azionaria in funzione di ventilati progetti di 
  democrazia economica basati sull’azionariato dei lavoratori e l’azionariato 
  popolare.
Molti politici e studiosi, anche all’interno della sinistra, 
  quando cominciò il processo di privatizzazione in Italia, quando si parlava 
  di pubblic-company, di democrazia economica, erano sicuri che questo processo 
  avrebbe potuto dare un ruolo principale ai lavoratori attraverso l’azionariato 
  diffuso, per cui si poteva allargare la base azionaria e quindi il potere decisionale. 
  Su questo erano stati, però, molto attenti i sindacati extra confederali perché, 
  vivendo la situazione all’interno delle imprese e mantenendo un approccio conflittuale 
  e non consociativo, si rendevano conto che il cosiddetto azionariato da lavoro 
  poteva portare sicuramente alla distruzione di quella unità di lotta che i lavoratori 
  avevano espresso nel nostro Paese negli anni ’60-’70 [5].
L’intento è stato piuttosto quello di favorire grandi gruppi 
  industriali privati con il risultato di condizionare l’economia del Paese, sottoponendola 
  ancor più al dominio delle famiglie-guida del capitalismo nostrano, con scelte 
  solo inizialmente di deregolamentazione e liberalizzazione, per approdare ad 
  uno dei processi di vera e propria privatizzazione fra i più intensi del mondo.
Di fatto molti sono stati gli effetti negativi delle privatizzazioni 
  che stanno portando ad un indebolimento e non ad un rafforzamento del sistema 
  produttivo del nostro Paese, anche in considerazione del fatto che le nostre 
  grandi imprese sono già di numero inferiore a quelle presenti negli altri paesi 
  europei. A ciò vanno aggiunte le ricadute sui lavoratori dei processi di privatizzazione; 
  è infatti chiaro che le garanzie derivanti dall’essere dipendente pubblico, 
  accettando al contempo miseri stipendi vengono a mancare nel momento in cui 
  lo Stato dismette le proprie aziende. Senza parlare dei processi di flessibilità 
  e precarizzazione del lavoro, di esternalizzazione e delle funzioni di subfornitura, 
  allo smantellamento dei diritti sindacali, all’abbassamento degli standards 
  della qualità e di protezione dei rischi per i lavoratori e le conseguenti ricadute 
  sulla qualità del servizio, il mantenimento di salari appena di sopravvivenza; 
  tutto questo è stato “il bello del privato” nel nostro Paese.
			
            
              
[1] Vedi PROTEO 1 e 2/98
[2] Cfr. G. 
  Foresti, M. Malgarini, “Privatizzazioni e liberalizzazioni dei mercati: un 
  confronto tra l’esperienza italiana e quella dei principali paesi europei” 
  in Quaderni Agens, Roma, Maggio 2001 pag. 11.
[3] Affinito M., De Cecco M., Dringoli A., “Le privatizzazioni nell’industria 
  manifatturiera italiana”, Donzelli editore, Roma, 2000, pag.3.
[4] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia 
  1992-2000”, Edindustria, Roma novembre 2001.
[5] Le public companies 
  sono molto presenti nell’economia statunitense sotto forma di SpA quotate in 
  Borsa a proprietà diffusa, quindi ad azionariato diffuso senza uno specifico 
  gruppo di controllo. Spesso il controllo è esercitato dai managers e gli investimenti 
  sono tutelati da una presenza istituzionale che detenendo azioni di privilegio, 
  pilota le strategie di sviluppo. In tal modo si può indirizzare il pubblico 
  risparmio verso forme di azionariato popolare e favorire l’azionariato 
  da lavoro attraverso l’assegnazione gratuita e l’acquisto di azioni da parte 
  dei dipendenti. Si può così promuovere la realizzazione di una certa forma di 
  democrazia economica nel nostro Paese, contribuendo alla realizzazione 
  delle Public Companies che potrebbe essere legata al “processo di privatizzazione” 
  in atto. Vedi PROTEO 1 e 2/98.