Club privé. A cosa sono servite le privatizzazioni delle banche italiane
Leonardo Valle
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In Italia, provare a tracciare un bilancio critico delle privatizzazioni
è un po’ come provare a mettere in dubbio l’autenticità della Sacra Sindone.
In effetti, se ci volgiamo indietro a guardare i magici anni Novanta, possiamo
osservare che su pochi temi si è registrato un consenso più totale che sulla
necessità economica, politica e financo morale delle privatizzazioni. Nella
Trinità della religione liberistica il feticcio delle “Privatizzazioni”
occupa senz’altro un ruolo più importante delle “Liberalizzazioni”, un
ruolo comparabile soltanto a quello della “Flessibilità”. Criticarlo
è tabù. Ma i tabù, come è noto, nascondono sempre qualcosa di poco chiaro...
1. Il “che cosa” e il “chi” delle privatizzazioni
Cosa è stato privatizzato. Cominciamo con qualche dato.
L’inizio vero e proprio delle privatizzazioni italiane si può fare risalire
al 1992. Da allora, in circa 10 anni, sono state privatizzate aziende statali
per un valore di oltre 220.000 miliardi di lire. Di fatto, è stato liquidato
l’IRI, e sono state vendute grandi società pubbliche quali Telecom, ENEL, ENI
(quest’ultime 2 solo in parte), e praticamente tutte le banche precedentemente
controllate dallo Stato. Su queste ultime concentreremo la nostra analisi. Per
avere un’idea della dimensione del fenomeno basterà dire che, se nel 1991, le
banche pubbliche rappresentavano il 73% del totale delle banche italiane, oggi
allo Stato restano soltanto piccole quote di minoranza in banche di importanza
marginale.
Chi ha privatizzato. Qui cominciano le prime sorprese.
In effetti, sappiamo che in Italia (come del resto in altri Paesi europei, a
cominciare dalla Francia) il consenso parlamentare alle privatizzazioni è stato
schiacciante: con la sola eccezione, peraltro neppure troppo convinta e lineare,
di PRC e PdCI; per il resto le privatizzazioni - e l’ortodossia liberalistica
sottostante - hanno raccolto il consenso entusiastico di tutti i gruppi
parlamentari. Questo però non significa che le privatizzazioni le abbia
fatte il Parlamento. E qui qualcuno potrebbe pensare che la materia sia stata
espropriata al Parlamento, magari a suon di decreti legge, dal Governo. Ma non
è vero nemmeno questo: le privatizzazioni non le hanno fatte neppure i governi
che si sono succeduti dall’inizio degli anni Novanta in poi.
O meglio: Governo e Parlamento hanno deciso di privatizzare,
ma il come e il quando lo ha deciso qualcun altro. Chi? Il Ministro
del Tesoro? Neppure lui. Tutto questo è stato deciso da un “tecnico”: il Direttore
Generale del Tesoro, il prof. Mario Draghi. È stata la struttura da lui
diretta in prima persona a pilotare la maggior parte delle privatizzazioni italiane,
lasciando ai ministri il meno oneroso compito di apporre la loro firma sui singoli
decreti di privatizzazione. In anni ormai lontani si straparlava, a sinistra,
di “autonomia del politico”. Si può tranquillamente affermare che la Direzione
Generale del Tesoro diretta da Draghi (“sotto” non meno di 6 diversi ministri)
sia stata un caso emblematico di “autonomia dal politico”. Tale struttura
“tecnica” ha in realtà costituito, per tutti gli anni Novanta, uno dei pochi
veri poteri forti di questo Paese. Un potere di fatto privo di ogni legittimazione
democratica e di un vero controllo sul merito e sul metodo delle scelte assunte.
E per giunta arrogante. Basti pensare alla risposta data da Draghi a chi, durante
un convegno, gli chiedeva timidamente se non sarebbe stato il caso, prima di
privatizzare, di aspettare un quadro legislativo che consentisse le liberalizzazioni
(magari per evitare di avere monopoli privati e non più pubblici, come poi è
di fatto accaduto...): “qual era la capacità di produrre leggi che aveva quello
Stato, nel ’92-’93? Avremmo aspettato all’infinito! [1]”.
2. “Saldi di fine stagione” per comprare il biglietto per l’Europa (e non
solo)
E veniamo ai motivi delle privatizzazioni. Il primo motivo,
com’è noto, era rappresentato dalla necessità per lo Stato di “fare cassa”,
per poter abbattere il debito pubblico ed entrare nel club della moneta unica
europea. Si tratta di un motivo oggettivo e reale - beninteso, una volta
accettate le premesse, ossia che si dovesse partecipare alla moneta unica e
che i parametri dovessere essere quelli fissati a Maastricht [2]. Va però sottolineato come tale motivo sia stato in realtà utilizzato,
strumentalmente, come una leva per ridimensionare drasticamente il ruolo dello
Stato nell’economia. In un recente articolo sulle privatizzazioni, scritto da
uno dei componenti della tecnostruttura di Draghi, la cosa è ammessa con estrema
franchezza: “Si è sfruttata l’occasione offerta dalla necessità ed urgenza
di rispettare gli stringenti vincoli esterni, imposti dalla partecipazione all’Unione
Monetaria Europea, per avviare iniziative volte alla ridefinizione del ruolo
dello Stato ed alla riforma, in senso maggiormente concorrenziale, dei mercati [3]. Cosa sarebbe successo senza la
pressione di questi vincoli comunitari è difficile a dirsi. Si può, tuttavia,
affermare che sarebbe venuto meno uno degli stimoli più incisivi a procedere
con decisione nel processo di risanamento della finanza pubblica e di riqualificazione
del rapporto tra Stato e mercato” [4].
E veniamo alle cifre incassate. Ad oggi, il Tesoro ha effettuato
direttamente operazioni di privatizzazione per un controvalore di circa 66,6
miliardi di euro. A questa cifra vanno però aggiunte le privatizzazioni gestite
dall’IRI (sempre sotto il coordinamento del Tesoro), per un controvalore di
circa 56,4 miliardi di euro, le dismissioni realizzate dall’ENI (5,4 miliardi
di euro) e la liquidazione dell’EFIM (440 milioni di euro). Si tratta di cifre
molto consistenti, da cui è facile intuire il valore e l’importanza degli assets
venduti. Sono anche cifre adeguate? In altri termini, il Tesoro ha venduto le
società pubbliche al loro giusto prezzo oppure no? Per quanto strano possa sembrare,
questo tema non è stato praticamente mai affrontato seriamente. Eppure il metodo
ci sarebbe: basterebbe prendere il prezzo di vendita delle società e confrontarlo
con le attuali quotazioni di borsa delle stesse società. La cosa è complicata
dal fatto che pressoché tutte le banche sono state coinvolte da processi di
concentrazione e fusione con altre banche dopo la privatizzazione, ma si può
comunque arrivare a valutazioni attendibili. Vediamo quindi, innanzitutto, i
valori incassati all’atto della privatizzazione.
E ora qualche cenno ai valori di borsa attuali. Oggi Unicredito
Italiano capitalizza 26.593 milioni di euro, IMI-Sampaolo 16.941 milioni, Intesa-BCI
(che comprende Comit) 20.760 milioni, Banca di Roma 4.087 milioni, BNL 4. 922
milioni [5]. Un caso a parte, che ha dell’incredibile, è poi rappresentato
dal Banco Napoli: quel 60% che lo Stato vendette alla BNL per 32 milioni
di euro (dopo ripulito il Banconapoli delle perdite e dei crediti inesigibili
con 6.200 milioni di euro di danaro pubblico), è stato rivenduto dalla BNL,
a distanza di pochi anni, per 1.000 milioni di euro. Alla luce di queste
cifre appaiono decisamente curiose le dichiarazioni dell’allora Ministro del
Tesoro Ciampi: “il Tesoro vuole valorizzare prima di vendere: è un suo dovere
nei confronti del cittadino che, dopo le risorse profuse per finanziare le perdite
delle imprese pubbliche negli anni passati non tollererebbe ‘regali’ al momento
della loro vendita” [6].
Ma non è tutto: va infatti considerato che le cifre riportate
nella tabella con i prezzi di vendita sono lorde. Da esse vanno infatti
sottratti i costi delle operazioni di privatizzazione, che includono:
le commissioni per i collocatori in borsa (banche che compongono il sindacato
di collocamento e altri consulenti), così come le spese di registration e
listing sui mercati azionari (spese per adempimenti CONSOB, SEC e altri
adempimenti normativi). Questi costi sono andati scendendo nel corso degli anni,
ma si collocano comunque tra il 2% e il 3% sull’ammontare totale del ricavato [i].
Una fetta consistente di questo denaro (circa l’1% sull’ammontare
totale) è andato alle maggiori investment banks anglosassoni (JP Morgan,
Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse First Boston, Merrill Lynch, ecc.),
per la loro attività di consulenza. Il tutto senza ovviamente rischiare in proprio
neanche un dollaro. E, meno ovviamente, senza dover neppure sostenere una gara
pubblica per l’affidamento dell’incarico. Ci sembra che guadagnare 2.200 miliardi
di lire a queste condizioni sia una cosa decisamente simpatica. Come stupirsi,
quindi, del fatto che il prof. Mario Draghi, lasciato l’incarico di Direttore
Generale del Tesoro, abbia trovato rapidamente collocazione come direttore generale
e vice presidente di Goldman Sachs International? E che il “vicedirettore generale
del Tesoro con delega alle privatizzazioni”, il professor Vittorio Grilli, sia
stato ancor più rapidamente assunto dal Credit Suisse?
Al di là di questi aspetti - diciamo così - di dettaglio, ci
sembra che i dati di confronto tra i valori di vendita e gli attuali valori
borsistici delle società vendute lascino poco spazio ad interpretazioni: le
privatizzazioni italiane nel loro complesso (non soltanto quelle bancarie) sono
state dei veri e propri “saldi di fine stagione”. La “stagione” che finiva
era quella della cosiddetta “economia mista”, dell’intervento dello Stato nell’economia.
Quella che iniziava, almeno stando ai suoi apologeti, quella del moderno “capitalismo
dei mercati finanziari”, e - cosa ancora più allettante - della “democrazia
economica dei piccoli investitori”. Vediamo di cosa si tratta.
[1] Qui “Stato” sta, ovviamente,
per “Parlamento” (che è detto “potere legislativo” appunto perché fa le leggi,
anche se il prof. Draghi non lo sa). Questo simpatico esempio di disprezzo dell’istituzione
parlamentare è stato pubblicato, senza mai ricevere una smentita, dal Corriere
della Sera il 30 marzo 2001.
[2] Come è noto, sull’opportunità
di alcuni dei parametri, ad es. la soglia di inflazione al 3%, sussistono fondati
dubbi. In ogni caso, in linea generale, va sottolineato il carattere di scelta
politica dell’assunzione di questi parametri e non di altri. È importante
insistere su questo perché di fatto tali criteri sono generalmente considerati,
dalla pubblicistica corrente, come le “tavole della legge” di Mosè o addirittura
come “leggi naturali”. Non è così: non esiste una politica monetaria oggettivamente
necessaria, così come non esiste una politica monetaria neutrale rispetto
alle classi.
[3] Come
si vedrà più avanti, è assai dubbio che questo secondo obiettivo sia stato conseguito.
Del resto, anche in questa sede è citato come riempitivo d’obbligo: infatti
nella frase successiva questo obiettivo sparisce e rimane quello, prioritario,
di ridimensionare il ruolo dello Stato.
[4] D. Scannapieco, “Le privatizzazioni
in Italia: una riflessione a dieci anni dal rapporto presentato al Ministro
del Tesoro Guido Carli”, in Guido Carli e le privatizzazioni dieci anni
dopo, a cura di F. A. Grassini, Roma, Luiss Edizioni, 2001, p. 156, corsivi
miei.
[5] Nota: la quota ceduta dal Tesoro è pari al 3% del capitale ord, per
286 mld. Il valore finale si riferisce alla somma derivante da vendita diretta
di azioni e dalla successiva conversione di obbligazioni emesse dall’IRI; includendo
solo il ricavo della vendita diretta di azioni tale valore scenderebbe a poco
meno di 670 mld. Fonte: Banche e Assicurazioni, Convegno nazionale FISAC
CGIL, aprile 2001.
[6] Il calcolo è fatto sul totale di gruppi
bancari, nei quali comunque la ex-banca privatizzata di norma è la componente
più di peso. La sproporzione tra le cifre di partenza e quelle di arrivo è comunque
clamorosa, ad eccezione dei casi di Banca di Roma e BNL (per Medio Credito il
confronto non è possibile perché non è una società quotata).
[i] Il
Sole 24 Ore, 7 agosto 1998.