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Tendenze della competizione globale

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Guglielmo Carchedi
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Professore Università di Amsterdam

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Il sindacato e il lavoro in Europa

Guglielmo Carchedi

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1. Globalizzazione o Internazionalizzazione?

Le mutate condizioni internazionali entro cui si muove il sindacato oggigiorno sono spesso riassunte in una parola: globalizzazione. [1] In genere si pone l’accento su alcuni aspetti che caratterizzerebbero la globalizzazione: il ruolo dominante delle multinazionali, la grande mobilità di immense quantità di capitale sui mercati finanziari, il crollo dell’Unione Sovietica, la costante introduzione delle nuove tecnologie, specialmente l’informatica. Tutti questi sono elementi di una nuova realtà. Tuttavia la nozione che li colloca in un unico quadro teorico, la globalizzazione, è altamente ideologica. Infatti essa percepisce tutti questi elementi come aspetti di un sistema che, avendo sconfitto il nemico mortale, il comunismo, mette fine alla storia e apre le porte ad una generalizzata abbondanza e alla democrazia globale. In breve il termine globalizzazione celebra la vittoria del bene contro il male, del capitalismo e della libertà contro il comunismo e la schiavitù. È vero, si ammette con un po’ di imbarazzo che, a più di un decennio dalla scomparsa dell’impero del male, la disoccupazione, la povertà, le guerre, i disastri ecologici, ecc. non sono scomparsi, ma tutto ciò è visto come un residuo del passato che sarà eliminato dalla marcia trionfale del capitalismo globale. In breve se il capitale fosse una persona, questo sarebbe il suo sogno più roseo. Però esso sarebbe solo un sogno, ben distante dalla realtà.

Prima di tutto si pone l’accento sulla grande mobilità del capitale finanziario. Ogni giorno non meno di 1.500 miliardi di dollari si muovono per i mercati finanziari alla ricerca continua di profitti, generalmente da speculazione. Ciò è visto come un’espressione dell’efficienza del sistema capitalistico, anche se ormai da tempo si levano voci che vorrebbero limitare queste onde di trasferimenti di capitale. Infatti questa quantità gigantesca causa la volatilità dei tassi di cambio, è un catalizzatore (anche se non ne è la causa) di crisi finanziarie, e influenza, e talvolta detta, le politiche nazionali specialmente del terzo mondo. Di fronte a questi effetti dirompenti, il movimento per la Tobin Tax sembra diventare sempre più vasto.

Ora, l’origine di queste immense quantità di capitale e il loro scorrazzare per i mercati finanziari internazionali alla ricerca di profitti non hanno nulla a che vedere con la caduta del blocco sovietico e con maggiori possibilità di investimenti finanziari e speculativi in quell’area (una delle tesi della globalizzazione). L’origine di queste enormi masse di capitale finanziario risiede nel fatto che quel capitale non riesce a trovare uno sbocco vantaggioso nella sfera della produzione e che quindi tenta la sua fortuna in operazioni finanziarie e speculative. Da questo punto di vista, la grandezza dei capitali finanziari in cerca di profitti, lungi dall’essere un’espressione della maggiore libertà del capitale di esprimere la sua razionalità in territori precedentemente “condannati alla irrazionalità economica”, è un indicatore della gravità della crisi economica attuale.

Il secondo pilastro su cui si basa l’ideologia della globalizzazione è che, con la fine dell’Unione Sovietica, il capitale può penetrare in tutti e quattro gli angoli del mondo portando con sé la democrazia. Naturalmente ci si riferisce ad una forma specifica di democrazia, quella rappresentativa e più in generale quella funzionale alla riproduzione del capitalismo. Ora, è ormai chiaro a tutti che l’asserzione secondo cui la democrazia si è estesa anche alle cosiddette economie emergenti è ovviamente falsa. Questi paesi sono sprofondati in una crisi economica senza precedenti allo stesso tempo sostituendo il loro precedente apparato burocratico con una nuova classe politica fortemente capitalista e basata apertamente sulla corruzione.

Il terzo fattore che caratterizza il contenuto ideologico del concetto di globalizzazione è che essa si basa su, e rafforza ulteriormente, la dottrina neoliberista. Anche su questo punto ci sarebbe molto da dire. Le politiche neoliberiste non esprimono una razionalità economica astratta, esprimono e teorizzano gli interessi del grande capitale come se essi fossero l’espressione di una non meglio identificata razionalità insita negli essere umani. La dottrina neoliberista si basa su grossolani errori teorici ma, né gli accademici né i politici, sembrano volersene accorgere data la funzionalità di tale dottrina per le politiche neoliberiste, cioè per il perseguimento degli interessi del grande capitale. È in questa luce che le privatizzazioni, i tagli di bilancio, gli attacchi padronali al salario e al lavoro, eccetera, dovrebbero essere visti.

Infine vi è un quarto punto, le nuove tecnologie, specialmente l’informatica. Nel lungo periodo, queste tecnologie dovrebbero mettere fine al lavoro umano (e quindi alla classe lavoratrice) dando finalmente l’opportunità agli uomini e alle donne di diventare arbitri del loro destino. Nel corto periodo queste tecnologie dovrebbero aumentare i livelli di occupazione, diminuire il tempo di lavoro, alleggerirne il carico, renderlo più soddisfacente e meglio remunerato. Il resto di quest’articolo effettuerà una critica dettagliata di queste asserzioni e più in generale una valutazione degli effetti sul lavoro non solo dell’introduzione di tali tecnologie ma degli aspetti discussi brevemente qui sopra. La dimensione sarà quella europea, cioè dell’Unione Europea dei quindici, a meno che non si indichi diversamente.

2. I mutamenti nell’organizzazione lavoro

Le conseguenze dei cambiamenti sopracitati per il lavoro possono essere raggruppate sotto diverse voci. Esaminiamone alcune. [2]

(A) Intensità del lavoro. Questo è un elemento di grande interesse perché è, forse, l’indice più importante dei rapporti di forza tra i lavoratori e i capitalisti all’interno del posto di lavoro. La ragione è semplice, è qui che si gioca principalmente la partita sull’estrazione di plusvalore. Per quanto riguarda l’intensità del lavoro, si possono usare vari indicatori. I primi due sono riportati nella tabella 1 e sono le percentuali (a) di coloro che lavorano a ritmo elevato [3] e (b) di coloro che devono rispettare scadenze strette.

Già nel 1990 circa la metà degli intervistati dovevano lavorare a queste condizioni ma le percentuali sono aumentate costantemente tra il 1990 e il 2000 e sono ora attorno al 60%. Dati ulteriori indicano che, se si confrontano le varie professioni, per quanto riguarda il ritmo di lavoro, sono i tecnici che subiscono l’aumento più rilevante (8% in più per coloro che lavorano a ritmo elevato per almeno un quarto del loro tempo e 3% in più per coloro che lavorano a ritmo elevato per tutto il tempo); per quanto riguarda il dover lavorare rispettando scadenze strette, sono di nuovo i tecnici a subire un aumento con approssimativamente le stesse percentuali. Vi è invece una diminuzione di coloro che lavorano a ritmo elevato e a scadenze strette per la categoria dei managers e altre figure simili.

La tabella 2 si basa su altri quattro indicatori: le percentuali di coloro che devono lavorare a ritmo elevato continuamente, coloro che devono fare movimenti ripetitivi continuamente, e coloro che non hanno controllo sul loro ritmo di lavoro e coloro che non hanno avuto una formazione professionale. Così si può vedere in che misura una maggiore proporzione dei lavoratori con contratto interinale debbono lavorare continuamente ad alta velocità, devono fare continuamente movimenti ripetitivi e non hanno nessun controllo sul ritmo del lavoro più dei lavoratori con contratto a termine fisso e ancor più dei lavoratori con contratto a termine indefinito. Allo stesso tempo, la proporzione dei lavoratori interinali che riceve una formazione professionale è minore di quella delle altre due categorie di lavoratori.

Anche queste percentuali sono alte. Per di più, per quanto riguarda i primi tre indici, esse crescono nella misura in cui si passa da lavoratori con contratto indefinito, a lavoratori con contratto a tempo determinato, e a lavoratori con contratto interinale. Esse diminuiscono per il quarto (le percentuali di coloro che non hanno una formazione professionale). Qui si può aggiungere un’ulteriore informazione per nazione su coloro che devono lavorare costantemente ad alte velocità. La percentuale maggiore si trova nella Danimarca (58%) quella minore nella Spagna, (30%), la media è del 45%, mentre l’Italia è attorno alla media col 43%.

Un altro indice riguarda la possibilità di fare pause durante il tempo di lavoro. Questa possibilità diminuisce tra il 1995 (63%) e il 2000 (61%). Si noti che questo significa che quasi il 40% degli intervistati non ha assolutamente nessuna possibilità di decidere quando fare una pausa. Siccome gli intervistati appartengono sia ai lavoratori che agli imprenditori che ad altre classi, la percentuale dei lavoratori che non hanno questa possibilità è in effetti ben più alta. Vi sono anche grandi differenze tra lavoratori autonomi (86%) e alle dipendenze (56%). Per quanto riguarda le occupazioni, la situazione si deteriora nel campo dei servizi.

Un ulteriore indice è la possibilità di scegliere le ore di lavoro. Nella media, il 56% degli intervistati non ha questa libertà. Anche qui vi sono grandi differenze tra i lavoratori autonomi (16%) e i lavoratori dipendenti (64%); tra uomini (53%) e donne (59%); e tra lavoratori con contratti permanenti (62%), con contratto a termine (71%), e interinale (77%).

L’ultimo indicatore riguarda il tempo per fare il proprio lavoro. Dei lavoratori dipendenti, il 24% dichiarano che il tempo loro destinato non è sufficiente. Anche qui vi sono differenze tra i lavoratori con tipi diversi di contratto. Per coloro che hanno un contratto permanente la percentuale è del 30%, mentre è del 23% per i contratti a termine fisso e del 29% per i contratti interinali.

Quali sono i fattori che influenzano il ritmo e l’intensità del lavoro? La European Foundation (2001b) menziona i seguenti fattori. Prima di tutto vi è stato un notevole aumento del ritmo e intensità indotti dai colleghi di lavoro. Questo è un dato comune a tutti i paesi e a tutte le occupazioni (con l’eccezione dell’agricoltura e delle occupazioni elementari). Questo dato, ovviamente, deve essere interpretato. Il fatto che un lavoratore si senta spronato a lavorare più intensamente dal collega, e che lo stesso valga per il collega, si può spiegare solo in un modo e cioè che è l’organizzazione stessa del lavoro (e quindi coloro che l’hanno disegnata in quel modo) che fa in modo che i lavoratori si spronino a vicenda. È ovvio che ci debba essere qualcuno, gli imprenditori, che trae vantaggio da tale situazione. Una seconda ragione sembra essere il ritmo indotto dalle domande dei clienti, passeggeri, allievi, pazienti, ecc. Anche qui vi è un aumento dal 67% nel 1995 al 69% nel 2000. Anche qui, a questa domanda esterna può essere permesso di (o é facilitato) porre maggiormente sotto pressione i lavoratori solo per il modo in cui il lavoro è organizzato. Le stesse considerazioni valgono anche per gli aumenti indotti dal ritmo delle macchine (una diminuzione dal 22% nel 1995 al 20% nel 2000) e ancor più chiaramente dal ritmo indotto dal controllo gerarchico diretto (con una caduta dal 34% al 32%).

(B) Flessibilità. Contrariamente alla visione apologetica sulla flessibilità, secondo cui la flessibilità renderebbe il mercato del lavoro più fluido aumentando quindi la disponibilità degli imprenditori a assumere lavoratori, uno studio recente raggiunge risultati opposti (European Foundation, 2001a). Questi risultati si basano su uno studio di 5.800 imprese in dieci paesi membri della UE. [4] Essi supportano scientificamente per una buona fetta dell’UE ciò che molti lavoratori già sanno anche se solo intuitivamente: e cioè che la flessibilità fa bene ai profitti ma non all’occupazione. Vediamo perché.

Si possono distinguere diversi tipi di flessibilità. Vi è la cosidetta flessibilità funzionale, che è la forzata mobilità del lavoratore da una mansione all’altra. Essa in genere comporta un abbassamento delle qualifiche e quindi un peggioramento salariale. Vi è anche la cosidetta flessibilità numerica, che null’altro è che la riduzione del personale, o licenziamenti. Un primo punto di grande importanza è che, a livello europeo, questi due tipi di flessibilità non si escludono a vicenda. Anzi, la maggior parte delle imprese ricorre ad entrambe le opzioni. La flessibilità funzionale serve al massimo a ridurre il numero di coloro che perdono il loro lavoro, non a creare nuovi posti di lavoro. A livello di impresa, l’aumento dell’occupazione è legato alle innovazioni tecnologiche e non alla flessibilità funzionale. [5] Secondo, dei nuovi posti di lavoro creati, la maggior parte sono lavori part-time e a contratti temporanei. Questa è chiamata flessibilità di contratto. In terzo luogo, sempre a livello di impresa, vi sono più probabilità di crescita per quelle imprese che praticano la flessibilità di contratto e allo stesso tempo riducono moderatamente la loro forza lavoro (flessibilità numerica).

Consideriamo ora alcuni aspetti più specifici delle tre forme di flessibilità. Incominciamo dalla flessibilità funzionale. Circa il 6% delle imprese pratica molto questo tipo di flessibilità e il 36% in misura più moderata. Nelle altre non si ricorre ad essa. Ciò vuol dire che in quattro imprese su dieci nei paesi studiati si pratica in qualche forma la dequalificazione delle mansioni. Per quanto riguarda la flessibilità numerica, il 30% delle imprese la pratica, cioè riduce il proprio personale. Infine la flessibilità di contratto. Il 7% delle imprese usa alti livelli di flessibilità di contratto (ma non dimentichiamoci che la maggior parte dei nuovi posti di lavoro sono soggetti a questo tipo di flessibilità) mentre essa è applicata in qualche misura dal 18%.

Se l’impatto della ‘globalizzazione’ sul lavoro è negativo, non sarebbe questo il prezzo che si deve pagare per stimolare le imprese ad impiegare il capitale risparmiato sui salari per investirlo in innovazioni, come vorrebbe farci credere la ‘scienza’ economica ufficiale? La risposta è che solo una percentuale minima, il 3% delle imprese, introduce in maniera intensiva innovazioni e che in ben il 66% non vi sono innovazioni o, se vi sono, sono minime.

Da questo studio emerge un’importante tipologia in termini dei tipi d’imprese in cui l’occupazione diminuisce, è stabile, o cresce.


[1] Questa prima sezione è basata su Carchedi, 1998.

[2] Questa sezione si basa su alcune parti delle pubblicazioni della European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions citate nel testo. I commenti e le conclusioni sono ovviamente di responsabilità dell’autore.
I dati che più interessano sono sulle classi e cioè su come le mutate condizioni del lavoro, compresa l’organizzazione del lavoro, influiscono sulle diverse classi. Questi, purtroppo, non sono i dati forniti dalle pubblicazioni consultate in quest’articolo. Le diverse occupazioni non corrispondono alle diverse classi ma, in mancanza di meglio, potrebbero servire come un’indicazione, anche se molto vaga e imprecisa. Tuttavia i dati non sono neanche per occupazione ma per tipo di contratto di lavoro. Quindi gli intervistati appartengono sia ai lavoratori che agli imprenditori che ad altre classi. Per esempio, “employees” equivale a lavoratori dipendenti, che quindi comprendono anche managers, supervisori, ecc. Ciononostante, questi dati evidenziano importanti elementi di analisi e di riflessione.
I dati nelle indagini della European Foundation sono basati su interviste condotte in tutti i paesi della UE. Quelli della Terza Survey (2001b) sono basati su 21.703 interviste che dovrebbero essere un campione rappresentativo della popolazione attiva, cioè di coloro che, quando furono intervistati, erano sia lavoratori autonomi o dipendenti e che, nella settimana di riferimento, avevano lavorato per salari/stipendi o per profitti. Coloro che erano temporaneamente assenti dalla loro attività economica erano inclusi mentre i pensionati, i disoccupati, le casalinghe e gli studenti erano esclusi.

[3] I dati nella tabella seguente si riferiscono a coloro che devono lavorare a ritmo elevato per almeno un quarto dei loro tempo. La percentuale per coloro che devono lavorare a ritmo elevato sempre o quasi sempre è per il 2000 del 24%.

[4] Essi sono: Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Inghilterra.

[5] In genere le innovazioni tecnologiche rimpiazzano operai e impiegati con mezzi di produzione, come macchine ecc. Quindi l’impresa innovatrice riduce l’occupazione per unitá di capitale investito. Peró, se la domanda cresce sufficentemente, piú capitale é investito e l’occupazione totale cresce per quelle imprese innovatrici.