1. Riassunto
Il presente lavoro ha come finalità di base quella di
stabilire alcune riflessioni sulle recenti trasformazioni nell’economia latino
americana e le sue radici più generali.
È sottinteso che l’analisi presentata cerca di stabilire un
nesso tra i campi dell’economia e della politica, prendendoli come elementi
integrati di una dinamica contraddittoria di accumulazione. Cioè una
contraddizione rispetto ai differenti interessi in gioco nel processo di
produzione della ricchezza.
Sotto questo aspetto temi come quello della globalizzazione
sono contestualizzati in funzione di alcune premesse: l’esistenza di un sistema
di Stati-nazione gerarchizzati; una distribuzione disuguale della produzione e
delle risorse in circolazione e la posizione strutturale che ogni Stato o
regione occupa nell’economia-mondo.
Infine, la sequenza adottata per la costruzione
dell’argomento è fatta secondo il seguente ordine: il contesto delle
trasformazioni oggetto di analisi, la strategia estera e gli impatti regionali.
2. Il contesto generale
La decade degli anni ‘80 è stata scenario di profonde
trasformazioni politiche ed economiche in America Latina. Allo stesso tempo in
cui si è assistito alla progressiva sconfitta dei regimi autoritari, si è
vista la disintegrazione dei progetti di sviluppo. Malgrado sia un errore
trattare il continente come un tutto omogeneo, non è consigliabile smettere di
osservare che esista una forte tendenza a definire isolatamente lo spazio latino
americano, principalmente a partire dalla seconda metà del decennio passato.
Ampi progetti di regolamentazione, stabilizzazione e
liberalizzazione sono stati portati a termine, con caratteristiche somiglianti.
Le stesse tre maggiori economie della regione (Brasile, Messico e Argentina)
hanno adottato piani di stabilizzazione legati ad un ipotetico cambiamento,
essendo il piano di convertibilità argentino l’esempio più radicale delle
esperienze in corso. Questi piani di stabilizzazione vennero accompagnati da
profondi aggiustamenti strutturali, il cui contenuto di carattere privatistico
è innegabile. Programmi di trasferimento patrimoniale (pubblico o privato),
cambiamenti istituzionali significativi, ossia, trasformazioni sostanziali sono
state effettuate o sono ancora in corso.
Sicuramente mutamenti di questa grandezza devono essere
accompagnati da cause essenziali molto forti, sia endogene quanto esogene,
ammesso che sia possibile, in questo caso, separarle. Sappiamo che le
trasformazioni che hanno investito il continente non rappresentano fatti
isolati; al contrario sono diventati parte di un contesto molto ampio: fine
della guerra fredda, con lo smembramento del blocco sovietico, l’espansione
dei mercati finanziari e la progressiva deregolamentazione sul piano
interstatale, e nuove strategie competitive sotto il marchio delle
trasformazioni microeconomiche avvenute dalla crisi del fordismo. Queste
trasformazioni implicano lotte e giochi di interesse che passano attraverso i
diritti di proprietà, le barriere del commercio, il dislocamento produttivo;
infine vanno considerate un insieme di relazioni che danno una nuova
conformazione allo scenario delle relazioni internazionali.
Questi processi di mutamento si svilupparono in un momento in
cui la crescita di un nuovo “consenso” faceva sì che gli organismi
multilaterali (ad esempio FMI e BIRD) ottenessero un certo risalto insieme a
misure di carattere liberalizzante. Da un punto di vista più generale si
inseriscono nel contesto della “ripresa dell’egemonia americana” (TAVARES,
1997), dopo un periodo, il decennio degli anni ’70, in cui gli USA subirono una
serie di sconfitte sul piano economico e politico [1].
Globalizzazione, flessibilizzazione, apertura... questi sono
i significanti del periodo che coincide con il tentativo degli USA di affermarsi
non come leader del mondo occidentale, ma come l’unico leader possibile di
fronte a tutte le nazioni. Si tratta di egemonia o di costituzione di una forza
imperiale? Questa è una delle domande che Fiori nel 1997 elabora a partire dal
quadro che si rivela nel decennio degli anni ‘80, in forza di un certo
rilancio con cui gli USA riprendono il loro potere politico ed economico. Le “esercitazioni”
di guerra, o “giochi militari” che avranno luogo in Medio Oriente (la
cosiddetta Guerra del Golfo) già all’inizio del decennio degli anni ‘90, o
precisamente due anni dopo la caduta del muro di Berlino, serviranno a ricordare
al mondo che esiste una potenza disposta ad esercitare il suo dominio. Per
quanto tempo potrà farlo è un’altra questione [2].
È di fronte a questo quadro che assistiamo ad un mutamento
importante nelle direttrici dei paesi periferici. Nel caso latino americano,
allo stesso modo che per i paesi industrializzati della regione, potremmo
parlare di una rottura con il modello di sviluppo, allora caratterizzato dalla
sostituzione delle importazioni spinta da uno sforzo regolazionista e
interventista dei rispettivi Stati nazionali. A questo punto c’è da fare
un’osservazione importante. Gli impatti del cosiddetto processo di
globalizzazione, o della ripresa dell’egemonia americana, saranno
differenziati per un insieme di regioni periferiche o semi periferiche. È così
che, durante il decennio degli anni ’80, poiché l’Asia vivrà un boom di
industrializzazione, si porrà il problema dell’egemonia con i nuovi paesi
industrializzati e una nuova suddivisione regionale del lavoro, mentre l’America
Latina, devastata dalla crisi della moneta e fuori dal circuito dei crediti
internazionali, dovrà convivere con impeti iper-inflazionistici ed il calo dei
livelli di crescita [3].
L’America Latina andrà a riprendere il suo posto nel
sistema di credito internazionale soltanto degli anni ’80. Questo processo di
riavvicinamento alle finanze internazionali verrà evidenziato dalla strategia
statunitense per il continente, nella quale si inserisce una rottura nelle
direttrici della politica economica regionale.
3. La strategia degli USA
La decade degli ’80 rappresenta per gli USA il periodo di
uscita dalla crisi della sua politica estera, il cui apice si ebbe con il
governo Carter. Già nel 1979, avvolti da problemi crescenti nei conti esteri e
interni (i così detti deficit gemelli) il governo americano, nella figura di
Mr. Volcker, allora presidente del Federal Reserve, promuove un repentino
innalzamento dei tassi interni degli interessi, provocando così una alterazione
significativa nei prezzi relativi alle differenti monete internazionali [4].
"Nell’incontro mondiale dell’FMI del 1979, Mr. Volcker,
presidente del FED, si ritirò, fu a causa degli USA; da lì aveva dichiarato al
mondo che era contro la proposta dell’FMI e degli altri paesi membri, che
tendevano a mantenere il dollaro svalutato e ad implementare un nuovo modello
monetario internazionale". (TAVARES, Idem: p.33)
Si insediava il regno della “diplomazia del dollaro forte”
che avrebbe marcato la futura gestione del presidente Reagan. Questa politica
metterà il mondo sotto pressione e lascerà ridotte a brandelli le finanze dei
paesi indebitati. Questa politica consiste nell’attrarre le risorse estere per
il finanziamento dei successivi deficit del bilancio americano. Questo sarà
ancora più importante nella misura in cui il governo americano metterà in
pratica la “diplomazia delle armi” che consiste nella strategia militare
della corsa agli armamenti (coronata dal progetto “guerre stellari”) che
porterà allo strangolamento della capacità di rinnovamento continuato delle
armi del blocco oppositore, in questo caso l’URSS.
La posizione del governo americano sarà accompagnata da una
forte pressione sugli organismi multilaterali per un allineamento con la
politica estera americana. La Banca Mondiale sarà un esempio chiaro della
strategia di allineamento che il governo americano pretenderà dai suoi alleati.
I programmi di aggiustamento strutturale sorgono esattamente in questo periodo.
Nel caso dell’America Latina le pressioni saranno caratterizzate dalle
condizioni per l’adeguamento della moneta estera, che esplode ed ha il suo
momento cruciale con la moratoria messicana del 1982.
"In the 1980, when the Reagan administration came to
power, it criticized the bank for promoting socialism and undermining capitalist
development, and pressured tha bank to come into line with the US governments
foreign policy aims. The Reagan Budget Director said the Bank, ‘Has not been
vigorous in using the leverage inherent in its large lending programmes to press
recipient to redirect economies towards a market orientation’”. (WILLIAMS
& YOUNG, 1994: p.89).
Tutto è finalizzato a rappresentare un quadro delle zone di
influenza della politica estera americana. Fino al 1985 il dollaro andrà
valorizzandosi di fronte alle monete degli altri paesi e metterà un pesante
fardello sulle spalle dei paesi indebitati, di modo che il governo americano
promuoverà una politica interna espansionista finanziata dalle risorse estere.
Sul piano dell’economia internazionale dette pressioni prenderanno due
direzioni: l’apertura dei mercati esteri e la deregolamentazione competitiva dei
mercati finanziari.
Al contempo, con l’aumento dei tassi di interesse il governo
americano promuove una progressiva flessibilizzazione delle regole di cambio. Di
fatto questo processo è precedente e viene ad essere progressivamente reso
effettivo dalla crisi del Bretton Woods all’inizio degli anni ’70; ma
effettivamente il peso delle misure di deregolamentazione inizierà a farsi
sentire dal decennio degli anni ’80, quando, timorosi di essere emarginati dal
mercato di credito internazionale, una serie di paesi promuoverà ciò che per
convenzione chiamiamo la “deregolamentazione competitiva” dei mercati
finanziari [5].
La deregolamentazione dei mercati di capitali sarà
catalizzata dalla nascita di nuovi strumenti finanziari (derivati) e dalle nuove
tecnologie di informazione. Anche il profilo degli investitori verrà alterato,
con la partecipazione degli investitori istituzionali, principalmente nei fondi
pensione e delle compagnie di assicurazione.
La strategia commerciale americana si farà sentire nelle
successive negoziazioni del GATT, dove i nuovi temi come il diritto di
proprietà intellettuale, concessioni su organismi vivi e altri sono segnati
sull’agenda; tutto questo badando bene di usare una forte coerenza con le
strategie competitive delle imprese multinazionali dei paesi centrali [6]. Ancora sul piano commerciale, gli USA passano alla difesa di una
politica libero-scambista, e sul piano finanziario si ha l’affermazione del
ruolo centrale della loro moneta. Internamente la nuova valutazione della moneta
americana farà vedere il risultato in un aumento dell’esposizione dell’economia
americana e prodotti stranieri, ma permetterà anche un aggiustamento
macroeconomico e porrà un freno all’inflazione.
È in questa prospettiva che il consenso liberista va
prendendo forza. Tanto Reagan (USA) come la Thatcher (Inghilterra) saranno
un’espressione del neo liberalismo nel decennio degli anni ’80; nel primo caso
il discorso è più per effetto della politica estera americana che di una
politica interna di carattere marcatamente liberale. Il termine
"globalizzazione" appare chiaramente come un’espressione di questa
strategia estera. Sotto questa espressione si giustifica la necessità dell’apertura
commerciale, della liberalizzazione finanziaria e della flessibilizzazione
(precarietà) delle relazioni di lavoro. Questo discorso presuppone che il
mondo, o sistema di Stati-nazione, attraversi un periodo di “aggiustamento
simmetrico” mediante l’aumento degli scambi e dei flussi di capitali. Sotto
questo aspetto, temi come quello degli scambi disuguali, delle relazioni
asimmetriche di potere o di dipendenza non vengono considerati [7].
La strategia americana porterà effetti sostanziali sul
regime di accumulazione su scala mondiale. Sul piano militare la diplomazia
delle armi sarà accompagnata dallo smantellamento del blocco sovietico e
dall’affermazione degli USA come unica potenza armata con forza sufficiente a
prendere decisioni di carattere unilaterale, senza che gli vengano imposte
rappresaglie. La diplomazia del dollaro forte sarà sufficiente per la
realizzazione della strategia militare, nella misura in cui renderà possibile
il finanziamento delle crescenti spese militari. La strategia commerciale, con
l’aggressiva difesa del libero-scambio, verrà rafforzata dalla svalutazione
della moneta americana a partire dagli anni ’80 [8];
contemporaneamente veniva incitata l’apertura di operazioni internazionali di
capitale imprimendo nuova velocità al processo di “globalizzazione
finanziaria”. Gli effetti di queste politiche si faranno sentire su scala
mondiale globale. Questi effetti non danno conferma alle promesse di un sistema
internazionale più armonico. Al contrario, si inseriscono nelle strategie
competitive delle grandi imprese multinazionali e dei loro Stati-sede [9], riaffermando la gerarchia tra i paesi centrali e
quelli periferici.
4. Gli impatti della strategia americana in America Latina
Come già abbiamo evidenziato, considerare l’America Latina
come un tutto porta verso alcuni importanti inconvenienti. In questo caso, per
l’eterogeneità strutturale che denota la regione, o per il diverso grado di
sviluppo dei paesi latinoamericani. Perciò alcune questioni devono essere
tenute in conto. Il peso relativo dei paesi più industrializzati come Messico,
Argentina e Brasile tendono ad influenzare significativamente l’insieme degli
indicatori macroeconomici della regione, e sotto questo aspetto queste tre
economie prenderanno direzioni simili a partire dalla seconda metà del decennio
degli anni ’80.
L’insieme delle misure che verranno adottate hanno come
base una profonda crisi nei conti esteri della regione, provocata in larga parte
dalla politica monetaria degli USA, come descritto nei paragrafi precedenti. Il
restringimento estero lascerà l’America Latina fuori dal circuito di credito
internazionale durante tutto il decennio degli anni ’80. La conseguenza
immediata di questa interruzione di flussi finanziari sarà l’indebolimento
della capacità degli Stati di gestire una politica di investimento efficace,
nella misura in cui gli sforzi saranno indirizzati nel tentativo di promozione
di aggiustamenti difensivi per far fronte ai compromessi esteri. La regione
cercherà di rompere i limiti esterni attraverso la creazione di saldi positivi
nei conti del commercio, ma ciò non sarà sempre possibile. Il decennio sarà
marcato dalla crisi fiscale, da impeti inflazionistici e dalla diminuzione
sostanziale dei tassi di crescita. Secondo i dati del CEPAL (1997a) il tasso
medio di crescita del PIL regionale non ha superato l’1% nel periodo del
1981-90, mentre la media per il decennio precedente è stata del 5,2%. I dati
per le tre principali economie della regione sono eloquenti: Brasile 1,3%,
Messico 1,8% e Argentina -0,7%.
I bassi tassi di crescita porranno sotto scacco il modello di
sostituzione delle importazioni e daranno impeto sia a critiche radicali sia al
ruolo dello Stato come elemento centrale di sviluppo. In maniera diversa nel
tempo, ma neanche tanto in intensità, i principali paesi industrializzati della
regione saranno investiti da venti liberalizzanti. L’antica discussione della
Pianificazione versus Mercato verrà ripresa, ora sotto il chiaro vantaggio dei
difensori del market orientation. Contribuiranno a questo anche le successive
sconfitte dei tentativi eterodossi di combattere l’inflazione, dei quali il “Piano
Australe” (Argentina) e “Centrale” (Brasile) saranno gli esempi più
clamorosi. La visione neoliberista sposta l’asse delle cause del basso tasso
di crescita regionale e dell’inflazione ad un piano interno. I condizionamenti
esterni sono visti come aspetti secondari di fronte al vero problema della
regione latino-americana.
Secondo questa visione il problema centrale del processo
sostitutivo delle importazioni sarebbe l’inefficiente distribuzione dei
fattori, provocati dall’eccessiva presenza degli Stati nella conduzione
dell’economia. Gli Stati posseggono una “natura” dispendiosa, cioè spendono
più di ciò che guadagnano e spendono male. Corruzione, distorsione nella
determinazione di prezzi relativi, informazioni privilegiate, corporativismo,
privilegi... Questi sono fattori che in ultima istanza starebbero alla radice
dei problemi regionali. Per combatterli, vengono proposti un insieme di
aggiustamenti strutturali: riforma patrimoniale (privatizzazioni), apertura
commerciale (esposizione delle imprese nazionali alla concorrenza esterna),
apertura di conti di capitale (ripresa del credito estero come supplemento
all’insufficienza della risparmio interno), infine un insieme di trasformazioni
istituzionali di portata considerevole.
L’obiettivo di questo lavoro non è analizzare ognuna di
queste misure, ma semplicemente stabilire il nesso esistente tra il movimento
generale del regime di accumulazione e il suo impatto regionale. Come presentato
nei paragrafi precedenti, il movimento di liberalizzazione risponde
principalmente agli interessi della strategia americana di ripresa dell’egemonia.
Da un punto di vista più ampio (storico) questa ripresa corrisponde a ciò che
Arrighi (1996) descriverà come la fase finanziaria del ciclo sistematico di
accumulazione, dove l’espansione materiale (DM) cede spazio all’espansione
finanziaria (DM’). Questo passaggio può essere misurato dall’incredibile
espansione dei flussi finanziari e dei loro spostamenti parziali del processo
reale di accumulazione. All’espansione finanziaria corrisponde un eccesso di
liquidità sistemica in cerca di nuovi spazi di valorizzazione. In questo senso
il processo di apertura dei conti di capitale che ci sarà in questo periodo
darà la possibilità a questi capitali, in forma liquida, di dirigersi verso le
diverse regioni producendo un altro fenomeno caratteristico del periodo:
l’inflazione degli attivi. In funzione del carattere speculativo che assumono
questi capitali, le possibilità di crisi sistemica tornano ad essere più
frequenti [10].
[1] “In quegli anni gli
americani apparivano in su tutti i piani e su tutti gli scenari mondiali. Nel
sud est asiatico, la sconfitta del Vietnam fu seguita, nel campo dei domini,
dalla vittoria dei comunisti in tutta l’Indocina, conclusasi nel 1974 e 1975.
Nel sud dell’Asia, gli americani persero il controllo dei conflitti tra
l’India ed il Pakistan, e l’Unione Sovietica si permise di invadere
l’Afghanistan nel 1979. In Medio Oriente gli Stati Uniti persero il suo
principale alleato nel 1979, con la vittoria della rivoluzione fondamentalista
dell’Iran e furono di nuovo obbligati a sopportare l’umiliante episodio del
sequestro dei suoi diplomatici successo nello stesso momento in cui l’OPEC
indiceva un nuovo “scontro energetico” nell’economia capitalista. In Africa
l’insuccesso delle esperienze di sviluppo dei primi governi indipendenti dettero
luogo a regimi che si autoproclamavano socialisti mentre si espandeva
l’influenza militare sovietica in Etiopia, Somalia, Angola, Mozambico, Guinea
Bissau, Daomé, Madagascar, Zimbabwe e Zaire. E perfino in America centrale si
moltiplicarono le guerre civili, in El Salvador e Guatemala, culminando con la
vittoria sandinista in Nicaragua”. (FIORI, 1997: p.114)
[2] Tutto va verso un solo
significato, dopo gli attacchi dell’11 settembre, e la tentazione verso l’unilateralismo
degli USA è molto maggiore, rendendo il sistema di Stati molto vicino a quello
di un Sistema Imperiale.
[3] Per una analisi comparativa dell’inserimento internazionale
tra l’America Latina e l’Asia nel decennio degli anni ’80 si veda: MEDEIROS,
1997.
[4] L’innalzamento
unilaterale dei tassi di interesse americani riguardano l’insieme dei prezzi
relativi a causa di due fattori baltici: I) per il ruolo centrale che occupa la
moneta americana sullo scenario internazionale e II) dalla relazione esistente
tra il prezzo della moneta e il prezzo in generale. Un aumento significativo
implica la correlativa diminuzione della liquidità internazionale e un costo
addizionale per quelli che detengono passività all’estero denominati in
dollari. C’è pertanto una forte trasmissione degli effetti contrattivi per il
mondo reale, ossia "il tasso di interesse e il prezzo centrale in un
economia capitalista, nella misura in cui le aspettative sulla variazione
determinano un certo stato di preferenza tra il possesso di attivi più o meno
liquidi e, conseguentemente, definiscono il flusso degli investimenti monetari
che determina l’impiego, la rendita e i salari del mondo ‘reale’. (BELLUZO,
1997: p.160-1)
[5] Secondo HELLEINER (1994) le deregolamentazioni rispondono al
seguente ordine: 1974 (USA), 1979 (Inghilterra), 1984-85(Australia e Nuova
Zelanda), 1988 (tutti paesi della CEE concordano nell’abolire entro due o tre
anni i controlli dei flussi di capitali) e anche in Asia e America Latina nella
seconda metà del decennio degli anni ’80.
[6] Per un’analisi
sulle negoziazioni nell’ambito del GATT si veda NICOLAIDES (1994); secondo
l’autore due sono le novità che sorgono dall’Uruguay Round e entrano
nell’agenda delle negoziazioni essendo di un certo interesse per i paesi
centrali: 1) Trade-related intellectual property rights e 2) Trade-related
investment measures. Sulle nuove strategie delle multinazionali si veda GILPIN
(1987).
[7] Per informazioni
più dettagliate sulle diverse teorie della globalizzazione si veda IANNI
(1997).
[8] Nel 1985 (Accordi di Plaza) e
nel 1987 (Louvre) avvengono le svalutazioni forzate del dollaro sotto il
coordinamento del G7. Queste svalutazioni saranno decise per il dislocamento
degli investimenti giapponesi verso l’acquisto sul mercato americano, cercando
di approfittare dei prezzi d’occasione così come per fuggire alle restrizioni
imposte ai prodotti giapponesi. Anche in questo senso ci saranno una serie di
spostamenti produttivi in Asia, riarticolando la divisione regionale del lavoro.
Questi dislocamenti produttivi saranno fondamentali per l’avanzamento delle
cosiddette "tigri asiatiche". (MEDEIROS: op. cit.)
[9] Per la
questione sulle argomentazioni della globalizzazione si veda HIRST e THOMPSON,
1998. Il seguente passaggio è esplicativo delle tesi difese dagli autori:
"Il pericolo della retorica della globalizzazione è che tende ad ignorare
alcune distribuzioni (distribuzioni disuguali della ricchezza e della
produzione): tratta il mondo come un semplice mercato competitivo aperto e la
situazione dell’attività economica come dettata solamente da considerazioni
commerciali" (p.90).
[10] Un’analisi dettagliata sull’argomento può si può trovare in
CHESNAIS (1996). Alle pagine 254 e 255 l’autore presenta un quadro riassuntivo
degli scontri finanziari internazionali dal 1970.