Forum: Crisi e organizzazione di classe
a cura di Fabio Sebastiani [1] |
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Il nodo politico dell’unità di classe non è più
rinviabile. Tanto più in una fase in cui il capitalismo mostra i caratteri di
una crisi strutturale e le risposte dei vari schieramenti politici tendono ad
uniformarsi. È questo, in sintesi, quel che esce dal Forum che Proteo ha
organizzato tra Luciano Vasapollo, direttore del centro studi Cestes/Proteo,
Paolo Leonardi, coordinatore nazionale delle Rappresentanze sindacali di
Base/Cub e Fabio Sebastiani, giornalista di Liberazione.
In molti hanno letto in questa lunga fase di cambiamenti
strutturali iniziati con la vicenda del Libro Bianco di Maroni e con l’accordo
separato dei metalmeccanici una vittoria importante del capitalismo sul lavoro.
In realtà occorre usare molta cautela.
Se da una parte è vero che il capitalismo ha stravolto
decenni di conquiste del movimento dei lavoratori andandone ad intaccare lo
status nel suo rapporto strutturale con l’azienda, dall’altra ormai è
evidente che si pone il problema di nuovi modelli di organizzazione di classe.
Ovviamente, come agli inizi del novecento, quando nacquero le prime camere del
lavoro, non c’è nulla che si costruisce ex novo. Molto dipende dalla
capacità di rintracciare nella memoria quegli strumenti utili a dar vita a una
rete di solidarietà e di lotte che sappia nuovamente incidere sulla condizione
del lavoro. C’è poca politica e molto saper fare in questa sfida. Tutto
dipende dalla capacità di costruire piattaforme realmente unificanti.
Va comunque registrato un dato importante: il capitalismo in
questa sua ricerca forsennata, e disperata, di valorizzazione, non segue un
disegno definito ma procede a tentoni. Questo, chiaramente, lo espone a un alto
grado di debolezza. In più, le contraddizioni interne sono altissime. A
dimostrarlo sono le numerose guerre in corso e un quadro internazionale che dal
punto di vista dei flussi di capitale e delle aree di influenza mostra tensioni
senza precedenti. La natura della crisi, infatti, non permette una facile
ricomposizione politica degli interessi e, da un punto di vista strutturale, le
spinte alla valorizzazione, soprattutto quelle di natura finanziaria, appaiono
sempre più senza regole definite. Quello che sta accadendo, per esempio, con la
vicenda dei noli portuali lo dimostra ampiamente. Il forte sviluppo dell’area
della Cina sta imprimendo ai noli delle navi prezzi altissimi. Ciò sta portando
ad un vertiginoso aumento del prezzi di alcune materie prime. Prezzi che si
rifletteranno, come valutano alcuni esperti, sulla ripresa delle deboli economie
occidentali. È il mercato, bellezza!
Fabio Sebastiani: Siamo di fronte a una crisi classica
del capitaslimo, ovvero, perché il capitale continua ad “umiliare” il
salario senza capire che una ripresa dei consumi può aiutare la ripresa? E
ancora, si ripresenterà il modello usato negli anni ’70, con un traino dell’economia
americana rispetto all’economia mondiale, oppure l’Europa è in grado di
giocare un ruolo più autonomo e incisivo?
La lotta di classe la fanno i padroni
Luciano Vasapollo: Il ragionamento va inquadrato nell’ambito
di una crisi di tipo internazionale. Non possiamo, ovviamente, fare un
ragionamento di crisi economiche nazionali perché non si tratta di questo.
Rispetto alla crisi classica non ci sono elementi di realtà che ci collegano ad
essa. Non è la classica crisi congiunturale, insomma. Lo dimostrano i parametri
macroeconomici e l’andamento di questa crisi. È una crisi che parte da
lontano. Abbiamo detto più volte che ci sono tutti gli elementi per parlare di
una crisi strutturale e non di una crisi congiunturale. Se invece di analizzare
la crisi in un arco di sei-nove mesi, lo guardiamo in termini più lunghi, cioè
a partire dalla crisi petrolifera degli anni ’70, ci accorgiamo che in maniera
costante per circa 30 anni c’è stata una crisi di sovrapproduzione, una crisi
di sottoconsumo e una crisi di accumulazione. Si è tentato di uscire da questa
crisi in vario modo, principalmente con i processi di finanziarizzazione dell’economia,
cioè recuperando in termini di rendita finanziaria quello che non si poteva
ottenere in termini di profitto. Ovviamente le bolle speculative e le bolle
finanziarie prima o poi scoppiano. E ci sono stati in questi anni diversi
momenti di crisi finanziaria, fino all’ultima di due anni fa. Si è visto che
anche la corsa alla finanziarizzazione dell’economia non paga. L’altro
fronte è stato la lotta di classe che i padroni hanno esercitato contro il
lavoro dalla metà degli anni ’70, grazie anche purtroppo alla debolezza del
movimento operaio e alla scelta assolutamente concertativa e consociativa dei
sindacati tradizionali, non solo in Italia. Se guardiamo a livello
internazionale i sindacati hanno assunto una veste di compartecipazione, cioè
non hanno fatto più la lotta di classe. Quando la lotta di classe viene fatta
dal basso la lotta di classe è un fenomeno storico difficile da fermare. È
chiaro che se non la fai dal basso viene fatta dall’alto. I padroni hanno
scatenato un attacco senza precedenti contro il lavoro. Questo ha significato l’attacco
allo Stato sociale. Ha significato l’attacco al salario, indiretto, diretto e
differito. Anche quei modelli di economia che si rifacevano più a un mercato
sociale, a un riformismo più o meno forte, parliamo del modello tedesco, o del
modello giapponese, si sono accorpati verso il modello anglosassone: taglio
completo dello Stato sociale. Si va verso una completa americanizzazione. Gli
altri modelli scimmiottano e imitano il modello anglosassone, per cui non c’è
assolutamente spazio per il lavoro; non c’è assolutamente spazio per le
classi subalterne. O si è ricchi, o si è assolutamente poveri. Vengono a
cadere, insomma, quelli che potremmo chiamare i privilegi di una sorta di classe
intermedia.
Europa e Stati Uniti: due poli imperialisti per l’economia
di guerra
Hai fatto un passaggio importante sul rapporto tra economia
americana e economia europea. Qui bisogna sfatare un mito: l’economia
americana non è più forte dell’economia europea. Se vogliamo ragionare in
termini di economia classica, cioè analizzando i cosiddetti fondamentali.
Questi sono più forti in Europa. Sono molto più forti perché l’Europa non
si basa assolutamente su un deficit di bilancio. Non basa la sua crescita sull’andamento
dei tassi di cambio, sulla dipendenza della domanda dall’esterno e su una
domanda interna che è supportata dal debito. L’economia americana cresce
ancora supportata dal debito interno e dal debito estero. Anche negli anni in
cui gli Usa sono stati la locomotiva dell’economia mondiale, negli anni ’90,
abbiamo assistito a una crescita assolutamente drogata, a una crescita sostenuta
fondamentalmente dai tassi di interesse, dai tassi di cambio, dal sostentamento
della domanda interna con le carte di credito e dal debito esterno.
Adesso si dice, l’economia europea è in difficoltà e gli
Usa sono in ripresa. Basta guardare i dati ufficiali e ci si accorge che la
crescita del 2003 e del 2002 per oltre due terzi è sostenuta dall’economia di
guerra. La crescita che viene data per gli Usa interno al 2,5% medio, deriva per
circa l’1,6%-l’1,7% dall’economia di guerra. Per cui l’ultima strada che
ha scelto il capitalismo internazionale per sostenere la crisi di accumulazione
è ancora quella dell’imperialismo e dell’espansionismo. L’espansionismo
è ancora alla ricerca di risorse energetiche e risorse umane con lavoro non
normato a buona specializzazione e a bassi salari. È l’espansionismo classico
del capitalismo, cioè trovare aree di interesse e aree di espansione. In questa
ottica c’è uno scontro tra potenze, tra Stati Uniti ed Europa. Le posizioni
che assumono gli europei e i francesi, in particolare, non sono casuali. C’è
una torta da spartire, tutta l’area del Caucaso, dell’Europa dell’est,
fino ad arrivare all’Iran e all’Iraq. E tutta l’area del petrolio. Gli
Stati Uniti in quelle zone hanno anche un nuovo problema da risolvere, un nuovo
competitore, rappresentato dall’asse russo-cinese.
La politica dei redditi da capitale nella stagflazione
Per concludere, se noi guardiamo l’economia ne suo insieme
osserviamo che l’economia Usa è in ripresa ma grazie all’economia di
guerra; l’economia europea non riprende perché ha il grosso problema della
mancanza della domanda interna. Un’economia che non è sostenuta dalla domanda
interna può crescere sì, ma solo fittiziamente. E perché non è sostenuta
dalla domanda interna? Perché non ci sono redditi adeguati a disposizione delle
classi lavoratrici per il consumo. Nasce un vero e proprio paradigma assurdo: i
consumi sono tagliati da una politica dei redditi che va tutta a favore dei
profitti e delle rendite. La domanda interna non regge perché i salari sono
bassi. Il lavoro non recupera né in termini di produttività, ed in più è
taglieggiato dall’inflazione. L’inflazione è un altro strumento per
decurtare i redditi. Sta accadendo che ci troviamo nel pieno di una fase di
stagflazione. Se noi guardiamo alla produzione industriale notiamo che è
segnalata sempre al ribasso. E quello è il sintomo classico della recessione.
Dall’altra parte, per esempio in Italia, siamo in presenza dell’impossibilità
di recuperare la competitività in termini di svalutazione. E quindi, tutto ciò
che non è possibile avere in termini di manovra sui tassi di cambio viene preso
attraverso un aumento dei prezzi.
L’aumento dei prezzi è anche alla produzione
È inutile fare la caccia alle streghe. L’aumento dei
prezzi è sì al consumo, ma anche aumento dei prezzi alla produzione e aumento
delle tariffe. Quindi, un’economia non sostenuta dalla domanda interna non ce
la fa a ripartire. E poi c’è anche la grande questione del deficit spending
impedito dal patto di stabilità. Il blocco del modello keynesiamo impedisce la
ripartenza di una ipotesi riformista. L’unica ipotesi è solo quella del
conflitto diretto capitale-lavoro, in questo momento a favore del capitale, con
uno scontro frontale che, però, riduce sempre più il potenziale di acquisto da
parte dei salari. Se guardiamo la questione dei contratti e la questione dell’inflazione
la situazione è drammatica. Con il patto concertativo abbiamo perso circa 15-20
punti percentuali in due anni. Ogni punto di inflazione è in termini di
inflazione 15,5 euro. Quindi 3-400 mensili euro si sono persi in termini di
potere d’acquisto.
Fabio Sebastiani: Di fronte al quadro che ha fatto
Vasapollo occorre riflettere sulla necessità di una offensiva sui redditi
portata avanti da tutte le categorie del lavoro e del non-lavoro. Ed è proprio
questo il nodo per il movimento sindacale.
Paolo Leonardi: due questioni centrali. Dal 93 al 2002
abbiamo assistito a una crescita degli occupati, per la gran parte in modo
precario, ed è diminuito il monte salari. Mentre diminuiva il monte salari e il
salario effettivo diminuivano le ore di sciopero. Noi dobbiamo osservare che dal
1992 al 2003 la questione del reddito e dei salari è stata compressa in modo
violento e non ha trovato risposta. Non ha trovato risposta sul fronte del
movimento dei lavoratori.
La Caporetto dei salari
Questa fase coincide con l’avvio della politica dei redditi
e con la concertazione. Una concertazione che diceva salari fermi, o comunque
salari legati all’inflazione programmata decisa dal governo. In poche parole,
salari sotto controllo. C’era addirittura l’impegno del governo a tenere
sotto controllo prezzi e tariffe. In questi dieci anni cosa è accaduto? Il
governo delle tariffe è diventato impossibile. Le esternalizzazioni e le
privatizzazioni o comunque l’affidamento ai privati dei settori importanti,
come l’elettricità, il gas e le telecomunicazioni, hanno impedito un
effettivo utilizzo della seconda parte dell’accordo, quello appunto in cui l’esecutivo
si impegnava sulle tariffe sociali in cambio dei bassi salari. La politica
concertativa ha ridotto i salari a variabile dipendente dagli interessi di
impresa, interessi mascherati da interessi del paese, ma sempre interessi di
impresa. L’accordo del ’93 ha garantito la pace sociale. Dieci anni di
continua perdita dei salari. I salari perdono la loro consistenza e i contratti
non svolgono più la loro funzione. Quando esisteva la scala mobile il contratto
rappresentava il negoziato attraverso il quale il conflitto capitale lavoro
strappava quote di reddito in più per la propria condizione. Oggi i contratti
non hanno più quella funzione. Sono semplicemente atti notarili attraverso cui
si prende nota e atto dell’inflazione programmata dal governo. Su questo
scenario si è innestato l’euro.
L’euro, ulteriore penalizzazione
Che in Italia ha avuto caratteristiche devastanti proprio
perché da noi esisteva la politica dei redditi. Dove la dinamica conflittuale e
contrattuale manteneva aperta una strada, l’euro non ha avuto questo ruolo
devastante. In Italia l’euro è intervenuto a motore fermo rispetto a lavoro.
C’è la necessità di mantenere aperta la memoria per capire cosa sta
accadendo, altrimenti si dà a Berlusconi più capacità di quella che
effettivamente ha. Il problema è riportare il reddito e i salari al centro. Non
possiamo più tardare nell’offensiva che intende restituire al reddito e ai
salari la loro funzione effettiva e principale. Ciò non riguarda solo gli
occupati. Di fronte alla frammentazione delle nuove normative sul lavoro,
occorre un sindacato che abbia come obiettivo la capacità di interpretare e
difendere le nuove forme della composizione di classe. La questione del reddito
e del salario deve partire proprio da qui.
La centralità del reddito sociale, dell’indicizzazione dei
salari e del salario europeo
La questione del reddito garantito e del reddito sociale è
il primo punto dell’offensiva che il sindacalismo di base deve porre al
centro, perché questo significa collocare e trovare un punto di unità tra il
mondo del lavoro classico, sempre più minoranza, e chi oggi è straziato dalla
disoccupazione e dalle forme del lavoro precario. L’altro punto è l’indicizzazione
dei salari. Non tanto perché consentirebbe ai redditi di tenere un salario
medio, che comunque arriva alla terza settimana del mese a coprire le spese, ma
anche perché questo consentirebbe a far ritrovare ai contratti la loro funzione
vera, che è quella di strappare pezzi di ricchezza redistribuendo il reddito a
favore del lavoro e non a favore dell’impresa. La terza questione è quella
del salario europeo. Stanno chiudendo numerosi contratti, che mediamente
arrivano a cento euro, e dopo mesi di blocco totale della contrattazione. A due
tre mesi di distanza quei cento euro sono considerati dai lavoratori una cosa
inutile e insufficiente, addirittura uno schiaffo rispetto alle lotte che sono
state fatte per conquistarli. Quando vediamo che ci sono mille euro di
differenza tra un metalmeccanico tedesco e uno italiano, e 800-900 nel settore
del pubblico impiego, capiamo perché l’euro in Italia ha prodotto quella
devastazione. L’offensiva sul salario è quindi un’offensiva importante. Il
problema vero è non farne una offensiva all’interno delle compatibilità.
Alcune categorie hanno sviluppato una battaglia forte e importante. E comunque
hanno contribuito a ricollocare la questione del reddito al centro del dibattito
del movimento dei lavoratori ma c’è il rischio che queste battaglie rimangano
all’interno di una logica per cui il problema, per esempio, è l’inflazione
reale e non quella programmata. Noi dobbiamo andare oltre. L’inflazione reale
è quella che ci propina l’Istat, in mano al governo Berlusconi. Ovvio, ne
difendiamo la natura pubblica, ma vorremmo avere garanzia che questa natura
pubblica fosse pure trasparente e obiettiva. Il salario va rilanciato come
variabile indipendente. Altrimenti faremmo molta più fatica a rilanciare un
movimento forte e alto che rimetta al centro la questione del salario.
Fabio Sebastiani: salario come terreno di una
possibilità di unità di classe. Questo propone problemi enormi al sindacalismo
confederale...qualcuno dovrà dire come si organizzano i lavoratori invece di
perdersi in astratti schemi politici. È chiaro che anche per voi si pone un
bivio. e capire che modello si può cominciare ad utilizzare...
Paolo Leonardi: noi siamo dentro questo dibattito. L’organizzazione
sta discutendo su come attrezzarsi proprio per cogliere sul piano sindacale la
nuova composizione di classe. Sarà il tema dei prossimi mesi. È ovvio che è
un passaggio ineludibile. Siamo di fronte a una trasformazione così profonda,
che allo stato non è possibile rimettere in discussione, tanto più che in
questi giorni si sono aperte i confronti tra le parti sociali sulla legge 30.
I dubbi sul sindacato delle categorie
La Cub non vi partecipa in quanto ritiene che la legge 30 va
cancellata. Quale sarà la forma sindacale capace di ricondurre a sintesi e
ricollocare all’interno del movimento dei lavoratori le nuove forme del
lavoro? Questo problema ce l’abbiamo tutti. Sicuramente non è applicabile il
sindacato delle categorie. Il livello su cui dovremmo misurarci è il livello
territoriale. Anche se all’interno delle categorie ci saranno forti
interessamenti, è lì che il sindacalismo di base dovrà misurarsi per dotare
di strumenti di lotta e di lavoro, di sostegno e di servizi quel pezzo di classe
che non solo viene espulso dal luogo di lavoro ma anche dalla filiera sindacale
classica. A questo punto il sindacato è anche sindacato sociale. E non solo
sindacato del luogo di lavoro. La velocizzazione ci coglie impreparati. A noi
come a tutti. Che la tendenza fosse quella era chiaro. Che la velocizzazione
nell’applicazione di queste nuove forme fosse così impetuosa, ci ha preso
tutti di sprovvista.
Gli scioperi d’autunno
Uno degli elementi al centro dello sciopero del sette
novembre non è solo la questione delle pensioni ma i grandi temi del reddito e
della precarietà, dei diritti dei lavoratori e del mondo del lavoro. A partire
dalla riuscita dello sciopero noi cominciamo una fase nuova di indagine e di
trasformazione dell’organizzazione in questo senso.
Fabio Sebastiani: il capitalismo è così miope che di
fronte alla possibilità di far ripartire il ciclo attraverso il consumo sceglie
piuttosto l’attacco frontale ai salari. Cosa è cambiato rispetto agli anni
’70?
Luciano Vasapollo: il keynesismo economico è una strada
del capitalismo. È inutile ammantarlo di ipotesi di sinistra, come fanno alcuni
economisti. Il keynesismo è una strada del capitalismo che serve a realizzare
due condizioni: primo, rilanciare l’economia capitalista in crisi sostenendo
la domanda; secondo, come momento di mediazione del conflitto sociale. È
indubbio che durante gli anni di crescita, e durante gli anni in cui il
movimento operaio ha conquistato fette di potere economico e di potere di classe
l’ha conquistato in una fase keynesiana. Però il keynesismo, e lo stato
sociale, conquista anche della forza del movimento dei lavoratori, è stato
utilizzato per uscire dalla crisi ed è stato utilizzato come momento di
regolazione del conflitto. È chiaro che la condizione ottimale del capitalismo
dovrebbe essere questa che dici tu. Ma appunto si parla di crisi di
accumulazione. Trovandosi in una crisi di accumulazione, di sottoconsumo e di
sovrapproduzione, non hai nemmeno più i termini di sostentamento della crescita
attraverso il keynesismo.
Crisi del keynesismo: rimane il keynesismo militare
Non è che il keynesismo non lo si vuole. Oggi non è dato dalle condizioni
economiche generali. Tanto è vero che regge soltanto il keynesismo militare,
cioè il sostentamento della domanda di guerra. Se non ci sono queste condizioni
economiche, a livello politico non ci sono le condizioni per una ipotesi
riformista. Questo vuol dire che ci troviamo davanti a un periodo
rivoluzionario? No, non significa questo. Questo significa che ci troviamo di
fronte a un capitalismo che sferra i suoi colpi sia da destra che da sinistra.
Non ci dimentichiamo che gli anni ’90 sono stati gestiti dai governi di
centrosnistra. Sulle politiche economiche le due risposte, da destra e da
sinistra, sono uguali: il problema è ridurre la forza dei lavoratori e il
potere di acquisto salariale. Dal 93 al 2003 il potere d’acquisto dei salari
in Italia è dimezzato. Come? È presto detto: l’incremento di produttività
non è mai ritornata al salario; una inflazione subita che non è esagerato
valutare intorno al 10%; il taglio del salario sociale. Non mi sembra assurdo
sostenere che in dieci anni si siano persi mille euro di salario; in termini di
potere d’acquisto il salario medio si è più che dimezzato.
Il nodo dell’unità di classe
Oggi l’unità di classe passa sul riconoscimento della
nuova composizione di classe e su una politica non assolutamente radicale. Basta
rilanciare una politica di riformismo e già si arriva a uno sconvolgimento
dello stato di cose: una battaglia seria per il ritorno al sistema pensionistico
retributivo, una battaglia di solidarietà intergenerazionale, e una battaglia
per il reddito garantito. Non è possibile, infatti, che non ci sia un
ammortizzatore sociale che in caso di disoccupazione o di lavoro precario dia
una garanzia di reddito sempre e comunque per garantire almeno una dignitosa
sopravvivenza. A questo proposito vorrei ricordare che il 22 novembre ci sarà
una manifestazione a Roma con il sindacalismo di base e molte associazioni di
base. Non mi sembra un proclama rivoluzionario. È un semplice ritornare alle
politiche delle riforme.
Fabio Sebastiani: il sindacalismo confederale pensa di
gestire questa fase attraverso un ottica tutta politica. Il sindacalismo di base
ha la possibilità di un contatto più diretto con la classe e con tutti quei
soggetti che la compongono in modo molto articolato. Questo però non gli
impedisce di rimanere un po’ fermo dal punto di vista dell’azione politica
unitaria di classe. Come vedi tu i prossimi sviluppi...
Paolo Leonardi: la rinnovata unità di Cgil, Cisl e Uil
credo sia dovuta soprattutto alla manifesta volontà di Berlusconi di fare a
meno dei corpi intermedi. E con l’intervista a reti unificate il presidente
del Consiglio ha posto un problema di relazioni sociali nel paese. È una
unità, però, che rimane scoperta, per esempio, sulla questione dei
metalmeccanici. La Fiom è in seria difficoltà rispetto alla difesa della
propria identità di classe. Dentro questa vicenda, il problema dell’unità
del sindacalismo di base, un nuovo sindacalismo di classe, anche sociale e del
territorio per intercettare i nuovi bisogni del lavoro e del lavoro negato . Noi
abbiamo sempre ritenuto che l’unità del sindacalismo di base fornisse valore
aggiunto. E lo hanno dimostrato la riuscita degli scioperi e delle iniziative
degli anni passati. Oggi credo che ci troviamo in una fase nuova. E non per
volontà delle Rdb e della Cub. Abbiamo fatto un passaggio fondamentale che è
stato poco colto, quello di fare della Cub la confederazione del sindacalismo di
base, conflittuale e antagonista. Questo fatto ha sparigliato le carte nel
sindacalismo di base. Altre formazioni hanno scelto la soggettività
poiltico-sindacale. Questo non elimina la possibilità di fare pezzi di percorso
assieme su questioni che unitariamente è possibile affrontare. Ma sicuramente
separa i destini. Forse in una prima fase può sembrare indebolire la funzione
del sindacalismo di base, però credo che sia un elemento di grande novità e di
grande sviluppo. Mentre lo sciopero del 24 ottobre rappresenta lo sciopero della
difesa della concertazione e della difesa della riforma Dini e della difesa
della politica dei redditi, lo sciopero del 7 novembre, invece è lo sciopero
della ricostruzione di un tessuto di classe che parte dalla questione più
generale della contrapposizione a questo modello di società e a questo
liberismo che porta al suo interno le istanze sia del centrodestra che del
centrosinistra.
Fabio Sebastiani: la legge 30 potrebbe incontrare
parecchi problemi di applicazione. Come intendete regolarvi?
Stiamo attrezzando le strutture perché ci sia guerra totale
alla legge 30 in qualsiasi categoria, in qualsiasi territorio. Il problema vero
è che non crediamo che la legge 30 sia migliorabile. Non abbiamo partecipato
agli incontri al ministero della Funzione Pubblica. Ci rifiutiamo di immaginare
un percorso in cui in qualche modo ci veda coinvolti a livello contrattuale
nella legge 30. È chiaro che sarà un momento di battaglia sindacale per l’autunno.
Ho il terrore che il centrosinistra, che sulla legge 30 ha detto poco o niente,
una volta che dovesse entrare al governo possa pensare di cancellare uno o due
articoli di quella legge o mitigare una o due figure per far finta di aver
eliminato la precarietà. La legge 30 è figlia del pacchetto Treu, così come
la riforma Maroni è figlia della Dini.
[1] Giornalista di Liberazione