l problema dello sviluppo capitalista: un approccio critico di classe
John Milios
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1. Introduzione
L’Economia Politica postbellica è segnata da ciò che potremmo chiamare
“dibattito sullo sviluppo”. Varie Scuole teoretiche e con differenti
approcci si sono occupate o hanno discusso della possibilità, della
dimensione, dei presupposti e del carattere sociale dello sviluppo economico,
specialmente nei Paesi Meno Sviluppati del Terzo Mondo (LDCs). L’intenzione
di questo mio articolo è di presentare un approccio Marxista al problema
dello sviluppo economico, che a mia opinione, ci permette di avere una visione
interna delle sue condizioni iniziali e delle sue dinamiche, sia nelle regioni
più sviluppate del mondo che in quelle meno sviluppate.
Molto brevemente potremo affermare che i primi approcci al
problema dello sviluppo furono di carattere evoluzionista: fu detto che tutti
i paesi sarebbero passati, più o meno, attraverso gli stessi stadi di
sviluppo economico. Nella seconda metà del XIX secolo, molti autori che sono
ora identificati come esponenti della cosiddetta German Historical School
(Economakis & Milios 2001), come Wilhelm Roscher (1817-94), Karl Knies
(1821-98), Gustav von Schmoller (1838-1917) e Karl Bücher (1847-1926)
indicarono tre maggiori stadi nelle economie in via di sviluppo: L’economia
chiusa, familiare o domestica, l’economia delle regioni urbane,
che ha funzione di centro di una più ampia regione agricola circostante, e l’economia
popolare, che, attraverso relazioni di scambio monetario, unisce
economicamente il territorio di un determinato paese. Alcuni autori
appartenenti alle generazioni più giovani di questa scuola, come Arhtur
Spiethoff (1873-1957) aggiunsero altri due stadi allo schema, definendoli con
i nomi di economia agraria, tra l’economia domestica e quell’urbana,
ed economia mondiale, come ultimo stadio dopo quella popolare. Nel
periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, W.W. Rostov
(1917) presentò un approccio evoluzionista alla questione dello sviluppo,
affermando che le economie passano attraverso questi stessi stadi di sviluppo.
La società e l’economia tradizionali evolvono dal possedere le condizioni
iniziali per un decollo economico allo stadio di decollo vero e
proprio seguito da un primo stadio di maturità economica e da uno
successivo di alto consumo di massa. L’approccio evoluzionista sembra
descrivere con facilità come alcuni paesi si siano veramente sviluppati.
Tuttavia, la loro pretesa di far passare tutti o la maggior parte dei paesi
attraverso simili stadi di sviluppo non è ben fondata sul piano teorico ed è
stata empiricamente respinta dalla constatazione che un gran numero di paesi e
regioni in Africa, in Asia ed in America Latina, rimangono ancora ad un basso
livello di sviluppo economico. Per reazione al fallimento dell’approccio
evoluzionista la tradizione centro-periferica è stata gradualmente
rimodellata, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sulla base di un concetto di capitalismo
mondiale formulato nelle teorie dell’imperialismo durante i primi
decenni del XX secolo.
Secondo l’approccio centro-periferico, sviluppo e
sottosviluppo costituiscono semplicemente due poli opposti di uno stesso
processo: lo sviluppo di alcuni paesi - i paesi imperialisti - è il
presupposto o la causa del mancato sviluppo della maggior parte dei paesi del
mondo, i paesi dipendenti, a loro volta soggetti allo sfruttamento
imperialista. Questo semplice e facilmente intuibile schema, fu dimostrato
essere di difficile utilità nella comprensione dei processi economici e
sociali che hanno portato al rapido sviluppo economico di alcuni paesi,
precedentemente sottosviluppati, che ridussero, o anche colmarono, il divario
nel grado di sviluppo con molti paesi più sviluppati, come accadde per molti
paesi europei durante il XIX ed il XX secolo (fino agli anni ‘70), o come è
accaduto più recentemente con l’emergere dei Nuovi Paesi Industriali (NICs)
del sudest asiatico.
È mia intenzione mettere in risalto come la teoria
Marxista, basata sulla nozione di modalità di produzione, supera le
lacune di entrambe gli approcci summenzionati. Secondo la teoria che
presenterò, per sviluppo s’intende il prevalere di certe relazioni sociali
ed economiche su altre forme sociali ed economiche antagoniste: vale a dire
relazioni di produzione sociale e capitalista in contrasto con altre
precapitaliste.
2. La Teoria Marxista sul Potere di Classe e lo Sfruttamento
La teoria economica di Marx è solidamente espressa nella
sua teoria della Storia come teoria della lotta di classe, che egli
formulò e sviluppo insieme a Frederick Engels a partire dalla metà degli
anni ‘40 del XIX secolo.
Marx rappresentò concettualmente le società come classi
sociali. La posizione specifica che ogni “individuo” acquisisce nelle
relazioni sociali legate alla produzione, costituisce la condizione iniziale
che determina la loro appartenenza ad una classe. In quest’ordinamento
evidenziò gli elementi che contribuiscono all’antagonismo di classe e ai
conflitti d’interesse tra le principali classi d’ogni società e comprese
l’unione tra le classi sociali in competizione (ad esempio la coerenza
sociale in termini di potere sociale di classe).
Il potere non costituisce più il “diritto di sovranità”,
o il “potere dello Stato” in relazione ai cittadini (uguali e liberi), ma
una forma specifica di dominio di classe. Il potere è sempre inteso
come potere di classe, ossia il potere di una classe (o di una coalizione di
classi) dominante sulle altre, le classi dominate della società. Questo
potere che è reso stabile sulla base di strutture sociali dominanti si
riproduce all’interno dell’antagonismo di classe e della lotta tra classi.
L’unione specifica delle società è quindi inscindibile dall’unione dello
specifico potere di classe assicurato dalla lotta di classe.
Il potere di classe è basato sullo sfruttamento economico
della classe lavoratrice ed implica il suo subordinamento politico ed
ideologico alla classe dominante. Come è stato correttamente precisato dallo
storico inglese Ste. Croix (1984: 100), secondo la teoria marxista la “classe
(...) è l’espressione collettiva sociale dell’esistenza dello
sfruttamento e del modo in cui lo sfruttamento è rappresentato nella struttura
sociale”.
Parallelamente alla formulazione della teoria del potere di
classe all’interno del contesto della lotta di classe, Marx intuisce che
determinate società sono costituite da un mosaico di relazioni sociali e di
classe che non appartengono tutte allo stesso tipo di logica sociale (lo
stesso tipo di potere di classe). Queste piuttosto costituiscono il
particolare risultato storico scaturito dall’evoluzione della società che,
sebbene avrebbe potuto svilupparsi nella società capitalista moderna, ha
permesso la “sopravvivenza” d’elementi radicati nel precedente tipo d’organizzazione
sociale o nei precedenti sistemi storici del potere di classe.
Marx ricerca ed isola in questo modo quegli elementi nelle
relazioni sociali che: 1) comprendono le differenze peculiari della moderna
“economia di mercato”, come il capitalismo, e discernono questa dai
corrispondenti elementi degli altri tipi di dominio di classe (e delle
corrispondenti organizzazioni sociali). 2) Costituiscono il permanente “inalterato”
nucleo del sistema capitalista di dominio di classe indipendentemente dalla
particolare evoluzione di ogni società (capitalista) dettagliatamente
studiata.
Questo significa che ogni particolare tipo di dominio e
sfruttamento economico corrisponde ad un tipo specifico d’organizzazione
del potere politico e al dominio di un tipo specifico di modelli ideologici.
Egli scrisse: “È in ogni caso nel rapporto diretto del padrone delle
condizioni di produzione con i diretti produttori (...) che troviamo il più
intimo segreto, le basi nascoste, dell’intero edificio sociale da cui
inoltre scaturisce il modello politico del rapporto di sovranità e dipendenza”
(Marx 1991: 927). Di conseguenza emerge un nuovo oggetto teorico: il modello
di produzione (capitalista). Sulla base delle analisi teoriche del modello
di produzione, ogni particolare società divisa in classi può di conseguenza
essere studiata a fondo (ogni composizione particolare di classe sociale). Sul
piano economico, ogni modello specifico di produzione implica l’appropriazione
di una forma specifica di surplus dal produttore primario.
3. Il Modello di Produzione Capitalista
La nozione di modello capitalista di produzione si
riferisce al nucleo causale della totalità dei rapporti di
potere capitalista, ossia la basilare interdipendenza sociale e di classe che
definisce un sistema di potere sociale (una società) come sistema
capitalista. È la nozione che decifra le caratteristiche strutturali
dominanti d’ogni società capitalista.
Questo è stabilito inizialmente nel rapporto del capitale
a livello di produzione; nella separazione del lavoratore dai mezzi della
produzione (chi è in questo modo trasformato in un operaio salariato, in
possesso della sua sola forza lavoro) e nel pieno possesso dei mezzi della
produzione da parte del capitalista: il capitalista ha sia il potere di
attivare i mezzi della produzione (cosa che non avveniva nel modello
precapitalista di produzione) sia quello di acquistare il prodotto finale in
eccedenza.
Per fare in modo che l’operaio si trasformi in uno
stipendiato, “chi governa” deve dare il via ad un moderno Stato
costituzionale e il suo “soggetto” deve essere trasformato a livello
politico e giuridico in un libero cittadino: “Questo lavoratore deve
essere doppiamente libero sia come individuo, potendo disporre della sua forza
lavoro come propria merce sia, non avendo in definitiva altra merce da
vendere, da ogni oggetto necessario allo svolgimento della sua forza lavoro”
(Marx 1990: 272-73).
Nel modello precapitalista di produzione, al contrario, la
proprietà dei mezzi di produzione delle classi dirigenti non era mai
completa. Mentre la classe dirigente ebbe sotto la sua proprietà i
mezzi di produzione (ad esempio acquisiva il prodotto in eccedenza), le classi
lavoratrici continuavano a mantenere la “proprietà reale” dei mezzi della
produzione (il potere di metterli in opera). Questo fatto può essere anche
ricollegato a caratteristiche significative e corrispondenti alla struttura
dei livelli politici ed ideologici. Lo sfruttamento economico che consiste
nella sottrazione ai lavoratori del prodotto in eccedenza, aveva come proprio
elemento complementare la diretta coercizione politica: i rapporti di
dipendenza politica tra dominanti e dominati e le loro articolazioni
ideologiche (come religiosa regola).
Il modello di produzione (capitalista), in ogni caso, non
costituisce esclusivamente un rapporto economico ma si riferisce a tutti i
livelli sociali (le istanze). In questo è anche contenuto il nocciolo dei
rapporti di potere politico ed ideologico (capitalista). In ciò è quindi
articolata la particolare struttura dello Stato capitalista. Di conseguenza,
è chiaro che la classe capitalista possiede non solo il potere economico ma
anche quello politico; non perché i capitalisti forniscono uomini alle
più alte cariche politiche dello Stato, ma perché la struttura dell’elemento
politico nelle società capitaliste e specialmente dello Stato capitalista (la
sua scala gerarchica - l’organizzazione burocratica, il suo dovere “al di
fuori della ripartizione in classi” sulla base delle norme della Legge ecc.)
comporta e assicura la conservazione e la perpetuazione del completo dominio
della classe capitalista. Nella stessa maniera è evidente che la struttura
dell’ideologia borghese dominante (l’ideologia dei diritti
individuali e gli stessi diritti di unità nazionale e di comune interesse
ecc.) corrisponde alla perpetuazione e alla riproduzione dell’ordine sociale
capitalista e agli interessi di lungo temine della classe capitalista. “Certi
rapporti di produzione presuppongono l’esistenza di una superstruttura
legale politica ed ideologica come condizione della loro peculiare esistenza
(...) questa superstruttura è necessariamente specifica (poiché è
funzione di specifici rapporti di produzione richiesti)” (Althusser/Balibar
1997, p. 177).
Ci rendiamo quindi conto che il capitalismo non può
riguardare soltanto l’economia (mondiale), ignorando completamente lo Stato
o le sue implicazioni politiche ed ideologiche con il potere. Lo Stato ha una
notevole influenza nel modo in cui le economie sono organizzate, nel normale
corso dello sviluppo capitalista, e ci sono importanti forze economiche che
danno impulso al riprodursi di Stati nazione. Il potere capitalista sulle
classi lavoratrici è allo stesso tempo economico, politico ideologico ed è
“condensato” dallo stato capitalista in ogni formazione sociale nazionale.
Il modello di produzione quindi descrive le differenze
specifiche di un sistema di dominazione di classe e di sfruttamento di
classe. In una determinata società ci potrebbero essere più modelli (o
forme) di produzione e di conseguenza una più complessa configurazione di
classi. L’articolazione di differenti modelli di produzione è
contraddittoria ed è sempre compiuta sotto il dominio di un particolare
modello di produzione. (I processi produttivi che non conducono a rapporti di
sfruttamento - produzione e distacco del surplus prodotto - come nel caso del
produttore autonomo, [semplice produzione di merce] non costituiscono un
modello di produzione ma una forma di produzione). Il dominio di un
modello di produzione (e particolarmente il modello capitalista di produzione)
è collegato alla tendenza al dissolversi di tutti gli altri modelli di
produzione concorrenti. In ogni caso, ci sono sempre tendenze che si
contrappongono a questa prospettiva: La forza (politica, economica ed
ideologica) delle oligarchie precapitaliste potrebbe prevenire il dissolversi
dei modelli di produzione precapitalisti e bloccare lo sviluppo capitalista.
4. Presupposti allo Sviluppo Capitalista
Dal nostro discorso sul concetto marxista del modello
capitalista di produzione possiamo concludere che, lo sviluppo economico
presuppone il prevalere del modello di produzione e la sua estesa
proliferazione. Di conseguenza la questione sullo sviluppo è la seguente: a
quali condizioni le strutture sociali precapitaliste sono rimpiazzate dal
modello capitalista della produzione o fino a che punto potrebbero costituire
un impedimento per lo sviluppo capitalista.
La questione implica una conclusione preliminare
metodologica che deriva dall’analisi effettuata in precedenza: il rigetto
di tutte le “prognosi” prima del completamento di una concreta analisi.
In altre parole si dovrebbe evitare il dogmatismo sia nella sua variante
positiva (“tutti i paesi saranno inevitabilmente soggetti agli stessi stadi
storici”) sia in quella negativa (“i LDCs o i paesi ‘periferici’
rimarranno sempre nella loro condizione di sottosviluppo”).
Quindi comprendiamo come l’analisi marxista riconosce
principalmente la possibilità di un capitalismo (e di uno sviluppo
capitalista) che emerge come conseguenza della lotta di classe e
traccia i prerequisiti di un tale sviluppo storico. Il dominio finale o la
deformazione di questa tendenza non sono dati a priori, per esempio, dalla
derivazione di una qualche, sempre presente, propensione astorica al progresso
tecnologico; il suo risultato è sempre determinato da preesistenti relazioni
sociali di potere.
In una lettera del 1881 alla socialista russa Vera
Zasulitch Marx scrisse: “Ho mostrato nel Capitale che la
trasformazione di un tipo di produzione feudale in uno capitalista ha come
punto di partenza l’espoliazione dei produttori, il che significa
principalmente che l’espogliazione dei contadini è alla base di quest’intero
processo. (...) Sicuramente se la produzione capitalista espanderà il suo
dominio in Russia, allora la grande maggioranza dei contadini si dovrà
trasformare in salariati. Ma i precedenti dell’Ovest qui si riveleranno
assolutamente inutili” (MEW, Vol. 19: 396-400).
Solo nel caso in cui il modello capitalista diventi,
attraverso la lotta di classe, pienamente dominante nella composizione
sociale, lo sviluppo capitalista diventerebbe tendenza intrinseca all’evoluzione
sociale: favorita dall’assenza della struttura sociale precapitalista, l’accumulazione
capitalista (a condizione che il capitale abbia raggiunto l’intenso
sfruttamento del lavoro salariato), potrebbe condurre ad un alto tasso di
crescita dell’economia, (temporaneamente interrotto da crisi cicliche). “Ma
questa tendenza intrinseca alla produzione capitalista non si realizzerà
adeguatamente - non diventa indispensabile, e ciò significa anche
tecnologicamente indispensabile - fino a quando il modello specifico di
produzione capitalista e quindi l’effettiva inclusione dei lavoratori sotto
il capitale, sarà divenuta realtà” (Marx 1990: 1037).
Il problema dello sviluppo capitalista ha quindi a che fare
non con le intrinseche dinamiche del modello di produzione capitalista, ma con
la possibilità e la diffusione del suo dominio in una specifica forma sociale
(la società); può quindi essere affermato solo a livello di forma (capitalista)
sociale. Su questo piano, l’esistenza di modelli di produzione
antagonisti (non capitalisti), ma anche il complesso di “decisioni
esterne” (a proposito delle leggi sull’accumulazione riferite al modo
di produzione capitalista (MPC)) determinano le possibilità o i limiti
della dimensione, del grado e della direzione dello sviluppo capitalista.
Esistono sia forme sociali (capitaliste) sviluppate e
sottosviluppate, sia forme sociali che si sviluppano in maniera capitalista
differente come risultato dei complessivi rapporti di forza di classe
consolidati principalmente al loro interno.
Il complesso di decisioni esterne al MPC, che sono
principalmente i rapporti di potere e di forza nella lotta di classe,
determinano sia la possibilità sia il grado di sviluppo capitalista. Dopo
aver sostenuto questa tesi, che è fondamentale per le mie argomentazioni, è
ora necessario svilupparla più a fondo.
È innanzitutto ovvio che tra i più importanti rapporti
“esterni” - al MPC - che determinano lo sviluppo capitalista, si devono
considerare i legami internazionali di una forma sociale all’interno dell’ordinamento
del “sistema globale”. Questi legami sono, naturalmente, sia di natura
economica (il mercato mondiale, l’internazionalizzazione della produzione, i
movimenti internazionali di capitali) sia di natura politico-militare. L’effetto
complessivo delle relazioni internazionali potrebbe agire sia per accelerare
sia per ritardare lo sviluppo capitalista a seconda del tipo di articolazione
della forma sociale data all’interno del contesto dell’ordinamento
imperialista mondiale. Questo tipo di articolazione è quindi determinato
dalla struttura economica e sociale della forma sociale data. In altre parole
il fattore decisivo è ancora il rapporto economico interno e di classe. I
rapporti imperialisti non costituiscono la “Causa Generale” della
creazione del rapporto di potere nei paesi sottosviluppati. Al contrario sono
le caratteristiche strutturali di questi rapporti di potere che impongono l’aspetto
specifico o la posizione di una forma sociale all’interno dell’ordinamento
imperialista. Se nella congiuntura prodotta dalla lotta di classe, le forze
sociali del capitalismo in un LDC hanno successo nello stabilire un’egemonia
economica, politica e sociale sia sulla classe lavoratrice sia sulla classe
appartenete al modello di produzione non-capitalista, cosicché viene dato
inizio ad un processo rapido di sviluppo capitalista, il ruolo internazionale
di un dato paese non può più rimanere quello di un “appendice agricola”
o di un “fornitore di materie prime”. Questo è oggigiorno esattamente il
caso dei NICs (Menzel 1985). Quest’esempio quindi è anche pertinente all’esperienza
passata di alcuni dei paesi tradizionalmente industrializzati dove lo sviluppo
capitalista ebbe inizio più tardi rispetto al decollo industriale della Gran
Bretagna (ad esempio i paesi Scandinavi, Senghaas 1982).
I modelli variabili di sviluppo capitalista possono essere
considerati come il risultato della lotta di classe. Forme particolari di
lotte di classe determinano la storica abilità del capitale, e quindi della
borghesia, all’interno di un’esistente forma sociale, di stabilire il suo
potere e l’egemonia su tutti i piani sociali (economico, politico ed
ideologico).
La decisiva caratteristica socio-economica dei paesi
sottosviluppati è al contrario un rapporto tra forze, ossia un complesso di
decisioni “esterne”, che ostacola l’esteso riprodursi dei rapporti di
potere capitalista “relegati” quindi sia a livello sociale sia a livello
di spazio, nelle cosiddette “chiusure capitaliste” (Hurtienne 1981)
L’abilità della borghesia nei paesi sottosviluppati di
espandere il suo potere sui modelli di produzione antagonisti (precapitalisti)
e di causare la disintegrazione di questi ultimi è, quindi, la più
importante presunzione dello sviluppo capitalista. Questo processo prende
storicamente l’aspetto di riforma agraria, perché la proprietà
agricola costituisce la base del modello precapitalista di produzione
(Senghaas 1982). Nella maggior parte dei casi la riforma agraria non tende a
stabilire rapporti di produzione capitalista nel settore agricolo dell’economia,
ma principalmente serve a sviluppare rapporti di semplice produzione di merce
basati sulla proprietà terriera dei produttori. Questa forma di produzione
non costituisce un sistema economico antagonista in relazione al capitalismo
industriale, ma al contrario è un eccellente esempio delle accelerate
condizioni iniziali di sviluppo di quest’ultimo. L’assoggettamento dei
contadini alle politiche economiche statali (regolazione dei prezzi dei
prodotti agricoli) e al sistema di credito (acquisto dei mezzi della
produzione attraverso prestiti bancari) garantisce prezzi bassi per i prodotti
agricoli ed un abbassamento dei costi di rigenerazione della forza lavoro.
Il miglioramento della posizione nella competizione
internazionale di alcuni paesi in via di sviluppo, specialmente dei NICs del
sudest asiatico, è il risultato principale del consolidamento dei rapporti di
capitale di questi paesi, della formazione di lavoratori esperti e sottomessi
e di un incremento nel grado di sfruttamento del valore in eccedenza.
Solamente nel caso di tali trasformazioni, i bassi salari dei NICs, possono
essere un fattore vitale per l’arrivo d’investimenti stranieri diretti.
Nelle forme sociali definite come “paesi capitalisti
sviluppati”, al contrario, esiste soltanto un modello di produzione: il MPC.
I rapporti capitalisti sono espressi soltanto in semplice forma di produzione
di merce sia nei settori agricoli che in quelli non agricoli dell’economia.
La dimensione della semplice forma di produzione di merce, la sua
conservazione nei diversi settori della società capitalista, o al contrario,
il suo grado di dissolvimento o la dimensione del suo mantenimento, dipendono
principalmente dall’aumento della produttività dei lavoratori nei settori
(capitalisti) dominanti della società.
5. Forme arcaiche di capitale (preindustriale) e di sottosviluppo
In un LDC non solo i modelli precapitalisti di produzione
giocano un’importante ruolo ma anche le forme preindustriali del capitale.
Nei suoi primi stadi di sviluppo, il capitalismo sarebbe potuto diventare
dominante in uno specifico tessuto sociale anche se la proporzione del totale
della popolazione lavoratrice con salario fosse rimasta relativamente piccola.
In questi casi lo sfruttamento capitalista prende anche altre forme, oltre a
quelle dei capitalismi più sviluppati. Dietro questa facciata di rapporti
legati al prodotto, si potrebbe scoprire il dominio capitalista, nonostante
sia il lavoro salariato sia l’impresa capitalista, nelle loro forme più
avanzate, rimangano marginali o quantomeno fenomeni relativamente limitati.
Questa conclusione è asserita al di sopra d’ogni cosa
nella ricerca di quella produzione di merce che, sotto certe circostanze,
diventa sinonimo di subordinazione indiretta del lavoro al capitale. Quando in
seguito la classe dominante non-capitalista si disintegra, con l’eliminazione
della suddivisione feudale delle classi sociali e con uno Stato operante nell’interesse
del capitale, artigiani e agricoltori si trasformano in produttori di mercato
e manifatturieri di prodotti.
Fino a quando l’artigiano o l’agricoltore fossero stati
in grado di vendere i loro prodotti a mercanti differenti avrebbero mantenuto
lo status economico di produttori indipendenti. In ogni caso la
diversificazione della domanda e, di conseguenza, della produzione, insieme
alla necessità di produrre non tanto per il mercato locale quanto per vari
mercati più distanti, (tendenze create entrambe dal crescente aumento della
divisione del lavoro e del significato delle relazioni di mercato) resero il
produttore sempre più dipendente dal mercante che lo avrebbe rifornito di
materie prime e che sarebbe diventato quindi il buyer-up [1]
della merce del produttore. Poiché il buyer-up diventa così l’agente
commerciale che piazza la merce nei differenti mercati, egli decide il tipo e
la quantità di merce che deve essere prodotta da ogni artigiano o agricoltore
che lavora per lui. Egli piazza ordini in anticipo per le mercanzie di cui ha
bisogno ed in molti casi, inizia a fornire il produttore diretto di materie
prime.
In questo modo il buyer-up ottiene a tutti gli effetti il
controllo sul processo di produzione di ogni produttore e quindi sui suoi
mezzi di produzione. È lui che, asseconda dei criteri di produzione da lui
stesso stabiliti e con il variare della domanda, decide sia l’entità della
produzione e il suo grado di diversificazione, sia la suddivisione del lavoro
tra i vari produttori sotto il suo controllo. Il buyer-up può quindi ridurre
i prezzi delle merci che acquista dai produttori diretti, a tal punto che il
reddito generato dai produttori non è molto più alto dello stipendio di un
lavoratore. Da ciò emerge quello che Rubin (1989) chiama “ il sistema
cottage o domestico o decentralizzato dell’industria di larga scala”, che
“pavimenta la strada alla completa riorganizzazione dell’industria su una
base capitalista” (155).
Dovrebbe essere noto che Lenin, nei suoi scritti del
1890-1900 sullo Sviluppo del Capitalismo in Russia, comprese pienamente
e mise in evidenza in primo luogo il carattere capitalista di un’economia
basata sui buyer-up ed in secondo luogo il fatto che la perpetuazione di forme
politiche e legali precapitaliste avrebbero potuto ritardare la transizione di
quest’arcaica economia capitalista (preindustriale) verso un capitalismo
industriale più sviluppato.
6. Per un’analisi di classe
Lenin descrive la produzione per i principali acquirenti
come una forma di capitalismo manifatturiero. Egli scrisse:
“Nulla potrebbe essere più assurdo dell’opinione che
lavorare per i buyer-up è semplicemente il risultato di qualche abuso, di
qualche incidente o di qualche ‘capitalizzazione del processo di scambio’
e non di produzione. È vero il contrario: lavorare per un buyer-up è una forma
speciale di produzione, un’organizzazione di rapporti economici di
produzione. (...). Nella classificazione scientifica delle varie forme d’industria
attraverso il loro successivo sviluppo, il lavoro per un buyer-up appartiene
in una certa estensione al capitalismo manifatturiero, poiché 1) è basato
sulla produzione manuale e sull’esistenza di molte piccole fabbriche; 2)
introduce la suddivisione del lavoro tra queste piccole fabbriche e lo
sviluppa inoltre all’interno del laboratorio; 3) pone i mercanti in testa
alla produzione, come accade sempre nel caso delle manifatture che presumono
una produzione su vasta scala, l’acquisto all’ingrosso delle materie prime
e la vendita nei mercati del prodotto; 4) riduce i lavoratori allo stato di
salariati occupati o nelle officine di un padrone o nelle loro stesse case.
(...). Questa forma d’industria implica già un profondo stato d’avanzamento
nelle regole del capitalismo, che è il diretto precursore della sua ultima e
più elevata forma - l’industria con macchinari per la produzione su larga
scala. Il lavoro per il buyer-up è di conseguenza una forma a ritroso del
capitalismo, e nella società contemporanea questo tornare indietro ha l’effetto
di peggiorare seriamente le condizioni dei lavoratori che sono così sfruttati
dagli intermediatori (il sistema di sfruttamento) e divisi, costretti ad
accontentarsi di bassi salari e a lavorare per lunghe ore in tremende
condizioni sanitarie, e - cosa più importante - in condizioni che fanno
diventare il controllo pubblico della produzione estremamente difficile”
(LCW Vol. 2, pp. 434-35, enfasi aggiunta).
Un’analisi simile riguardo il subordinamento formale del
lavoratore al capitale mercantile e agli intermediari si può trovare nel
terzo volume del Capitale, capitolo 20, esp. pp.452-455 (ma anche nel
primo volume del Capitale, capitolo 13 e 14). Marx considera i
produttori diretti che sono soggetti al volere dei mercanti come una forma
ibrida di lavoro stipendiato che prepara la strada al tipico rapporto di
produzione capitalista: “La transizione dal modello di produzione feudale ha
luogo in due modi differenti. Il produttore potrebbe diventare mercante e
capitalista (...) In alternativa però il mercante potrebbe assumere lui
stesso il controllo diretto della produzione (...) Questo metodo (...) senza
rivoluzionare il modello della produzione, semplicemente peggiora le
condizioni del produttore diretto, lo trasforma in vero salariato e
proletario (...) appropriandosi del lavoro in eccedenza sulla base del
vecchio modello di produzione (...) Il mercante è il vero capitalista e
intasca la parte più grande del valore in eccedenza” (Marx 1991,
ppp.452-53, enfasi aggiunta).
Lenin affronta la società Russa dal punto di partenza
delle categorie di Marx e arriva alla conclusione che la transizione dalla
forma storica di sottosviluppo del mercante capitalista al capitalismo
industriale è il risultato dello sviluppo della lotta di classe. La crescita
dell’industria su larga scala perciò ha luogo solo in conseguenza della
crescita delle contraddizioni nelle e tra le differenti forme embrionali del
capitalismo. (LCW Vol. 3 PP.541-2)
La transizione dal capitalismo manifatturiero a quello
industriale su larga scala significa, allo stesso momento, un cambiamento nel
rapporto di forze tra mercanti e capitale industriale. Quella manifatturiera
(soprattutto nella sua forma primordiale di produzione commercializzata
individualmente dal buyer-up per l’artigiano) è una produzione capitalista
subordinata al bisogno di capitale mercantile, poiché quest’ultimo rende
sicura la centralizzazione capitalista del processo produttivo e il suo
orientamento sulla domanda di mercato. Per contrasto la stessa industria di
larga scala rappresenta la tipica centralizzazione e procedura di processo
produttivo (divisione del lavoro nelle imprese, creazione di una gerarchia
produttiva e della meccanizzazione, disciplina dispotica in fabbrica) abolendo
l’intervento di mediatore del capitale mercantile che caratterizza la sua
fase precedente.
Ciò che differenzia la tesi di Lenin da quelle adottate
nella maggior parte dei dibattiti contemporanei sulla transizione da un
modello di produzione precapitalista al capitalismo, sta nel fatto che Lenin
considera i rapporti sociali, creati quando il mercante assume il controllo
della produzione dell’artigiano, già rapporti di produzione; ad esempio una
forma preliminare di lavoro salariato o una sottrazione del valore in
eccedenza. Secondo quest’approccio, prendendo il controllo del processo di
produzione degli artigiani, il capitale mercantile assume, benché in maniera
indiretta o informale, anche il controllo sui loro mezzi di produzione. Di
conseguenza Lenin concepisce l’industrializzazione come una transizione da
una forma capitalista (non ancora sviluppata) ad un’altra (sviluppata). Al
contrario la maggior parte degli approcci contemporanei concepiscono lo stadio
iniziale dell’industrializzazione come una forma di transizione dal
precapitalismo al capitalismo; ad esempio concepiscono il mercante o il
buyer-up che controlla la produzione artigianale, come una forma sociale
transitoria che consente il passaggio dal precapitalismo al capitalismo.
Facendo ciò, sono incapaci di comprendere la forma di lavoro in eccedenza di
cui si appropria il buyer-up.
Quindi seguendo il pensiero stesso di Lenin possiamo
asserire che la transizione da forme di capitalismo preindustriale,
caratterizzate dall’indiretta subordinazione del lavoro al capitale
mercantile, al capitalismo industriale, completando la diretta subordinazione
del lavoro al capitale, non emerge da alcun ineluttabile imperativo
tecnologico o dalla crescita lineare delle “forze produttive”, ma
(esattamente come nel caso del dissolvimento dei modelli di produzione
precapitalisti) è una conseguenza del capovolgimento dei tradizionali
rapporti sociali e politici in favore del capitale industriale.
L’Economia Politica dello sviluppo avrebbe molto di più
da guadagnare se prendesse seriamente in considerazione questa interpretazione
teorica dei rapporti di classe. Se si focalizzasse sulla “produzione e sulla
distribuzione del lavoro in eccedenza”, allora l’enorme diffusione delle
industrie cottage e dei rapporti di subappalto nella maggior parte dei LDCs
(ma anche la crescita nel façon-production [2] e
nel subappalto nei paesi capitalisti sviluppati, infatti mentre da un lato
cresce la “flessibilità nel lavoro”, dall’altro un crescente numero d’imprese
impiegano principalmente merce prodotta per loro da subappaltatori) potrebbero
essere correttamente compresi come forme concomitanti (ai rapporti di lavoro
salariato) allo sfruttamento capitalista.
7. Conclusioni
Abbiamo affrontato il problema dello sviluppo capitalista
dal punto di vista della teoria marxista dei modelli di produzione e abbiamo
dimostrato che il processo in questione non deve essere compreso né come
risultato dell’interesse della “divisione capitalista del lavoro a livello
mondiale” né come “destino” di tutti i paesi. È il prodotto del potere
e del dominio sociale capitalista. Il rafforzamento e l’estesa riproduzione
degli ultimi in una forma sociale è deciso dalla lotta di classe. È in altre
parole un prodotto contingente che varia in accordo con le specifiche
circostanze storiche di ciascuna forma sociale.
[1] Principale
acquirente o accaparratore di buona parte della produzione, ndt.
[2] Modo di produrre, ndt.