Il movimento dei lavoratori tra la speranza per il futuro e la gestione del presente: la sinistra brasiliana e l’impraticabile sogno della collaborazione capitale-lavoro del governo Lula
Alvaro Bianchi
Ruy Braga
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1. La forza elettorale di Lula come espressione del cambiamento dei
rapporti di forza in America Latina
All’inizio del suo lavoro di narratore, il bandito
prezzolato Riobaldo, personaggio centrale del Grande Sertão Veredas di João
Guimarães Rosa, riflette sul suo stesso parlare: “Vivere è molto pericoloso”
e, forzando un po’ il suo portoghese, continua “raccontare è molto
difficile. Non tanto per gli anni che sono già passati, ma per l’astuzia di
certe cose passate”. Chi ha corso i pericoli del fare politica attiva nell’ultimo
decennio sa esattamente di cosa sta parlando Riobaldo. “Guerra e rivoluzione”
hanno modificato la percezione del nostro presente e quella di un possibile
futuro. Come si può spiegare la storia spericolata di quella vita, quando il
pericolo è ancora parte della vita che stiamo conducendo? Il racconto pro forma
della riflessione politica di allora, diventa difficile nella maniera in cui lo
sono le tempeste storiche e le astuzie del passato.
Una riflessione critica sul significato della recente
vittoria elettorale di Luís Inácio Lula da Silva e del Partido dos
Trabalhadores (PT), alle ultime elezioni brasiliane, non è soltanto difficile
ma anche rischioso. L’analisi che intendiamo fare, scrivendo a pochi mesi dall’evento,
appena Lula sta prendendo i primi provvedimenti governativi, potrà essere, in
alcuni punti, imprecisa e vaga. Ma si tratta però di un esercizio necessario. L’urgenza
di un dibattito e la pericolosità di quanto sta avvenendo lo richiedono.
L’elezione di Lula riflette un profondo desiderio di
mutamento della società brasiliana, esautorata da più di un decennio d’esperienza
neoliberale. Questo desiderio di trasformazione si esprime con tale forza da
diventare un luogo comune anche tra gli analisti politici. Però non si tratta
soltanto del desiderio di un mutamento economico, come sostengono invece molti
analisti, ma anche, secondo la nostra analisi, del bisogno di una trasformazione
sociale e politica. L’elezione di Lula significa, per milioni di persone, la
possibilità di trasformare la politica in qualcosa che si possa esprimere con
la prima persona plurale - noi - invece dell’esclusiva terza persona plurale -
loro - e dove la speranza di un miglioramento non sia più un’utopia.
Il valore simbolico di questa candidatura vincente è
estremamente forte. Lula è un emigrante del nordest fuggito, insieme alla madre
e ai suoi sette fratelli, alla fame che devastava la sua città natale Garanhus,
all’interno dello stato del Pernanbuco; è un tornitore meccanico che ha
dovuto smettere di studiare quando era ancora piccolo; è un sindacalista che ha
scritto il suo nome nella storia del Brasile verso la fine degli anni ‘70.
Votarlo è stato per molti l’espressione del desiderio di ricreare un’identità
sociale e di generare una coscienza politica; è significato la possibilità di
ottenere finalmente quello che da tempo gli era nascosto o negato; è stata la
rivalsa dei vinti, degli umiliati e dei disprezzati.
L’atto stesso di ricostruzione dell’identità delle
classi minori è stato però possibile nella misura in cui la forza elettorale
di Lula è diventata espressione di cambiamento nei rapporti tra forze su scala
latino-americana e, allo stesso tempo, momento costitutivo di questo
cambiamento. Si è resa così simile ad una serie d’eventi che sono
intervenuti con forza e molteplicità di significati nella politica
latino-americana dell’anno 2002: il fallimento del golpe dei militari e delle
classi imprenditoriali in Venezuela, la rivolta sociale in Argentina, l’adempimento
elettorale del leader dei contadini boliviani, Evo Morales, e la vittoria dell’ex
colonnello Lúcio Gutiérrez in Equador. Eventi questi che hanno indicato in
maniera differente, da un lato, l’indebolimento politico dei movimenti
neoliberali nel nostro continente, dovuto, in parte ma non soltanto, al loro
fallimento economico, e dall’altro lato, alla nuova attività dei movimenti
sociali dopo il riflusso degli anni ‘90.
Il Brasile non è andato incontro a questa trasformazione nel
rapporto tra forze, a livello continentale. Al contrario della sua stessa
dinamica storica, i suoi ritmi sono stati più lenti. È stato l’ultimo paese
ad imbarcarsi nell’avventura neoliberale e contestualmente l’ultimo a
volerne uscire. Infatti, la radicalizzazione sociale in Argentina, in Equador,
in Bolivia e in Venezuela aveva anticipato gli avvenimenti brasiliani e assunto
la forma di un’azione diretta dei movimenti sociali. Allo stesso modo, quando
questa radicalizzazione si è espressa tramite vittorie elettorali, è stata
preceduta da un’importante agitazione sociale che ha aperto la strada alla
nascita di leadership politiche che s’identificavano direttamente o
indirettamente con questi movimenti. Questo non è stato il caso del Brasile.
Paradossalmente, l’elezione di un candidato, la cui ascesa
personale si sarebbe dovuta identificare in maniera profonda con quella dei
movimenti sindacali e politici della classe lavoratrice brasiliana, è capitata
in un contesto in cui la rinascita di questi non era ancora avvenuta. Pertanto,
è stato l’espressione d’atti di dissociazione politica più lenti che si
stavano attuando man mano nei substrati della società: una profonda ripugnanza
per il modello neoliberale; una perdita di confidenza nella classe politica
tradizionale; una sorda rivolta contro le classi dominanti che prosperavano tra
la miseria delle altre e l’ineguaglianza sociale.
Ma, come già detto, la vittoria elettorale è stata anche il
momento in cui si è creato l’attuale rapporto tra forze. Questa ha portato ad
un’accelerazione e ad una diffusione in politica di questi movimenti, che fino
ad ora si svolgevano quasi segretamente, e ha reso possibile la trasformazione
del forte potenziale dei movimenti in forza motrice del cambiamento. L’identità
collettiva creatasi intorno alla figura del presidente appena eletto ha riposto
ogni speranza nel movimento, trasformandosi in una lotta alimentata dai profondi
risentimenti sociali delle classi minori, dal desiderio di mutamento e dalla
percezione del cambiamento nel rapporto tra forze sociali.
I movimenti sociali hanno certamente interpretato la vittoria
elettorale come l’inizio di un periodo di mutamenti e hanno cominciato subito
a metterli in atto. Nella recente Carta ao povo brasileiro e ao presidente
Lula il Coordenação Nacional do Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem
Terra (MST) afferma che:
“In questo momento abbiamo l’opportunità di realizzare
lo storico compito di implementare una vera riforma agraria che renderà
aperto a tutti l’accesso alla terra, eliminando così la fame, la
disoccupazione e le disparità sociali. Invitiamo tutti i lavoratori, le
lavoratrici e la società brasiliana in generale, ad organizzarsi, a
mobilitarsi aiutandoci ad attuare la riforma agraria. Un Brasile più giusto e
uguale è possibile. Questo è il momento!” (MST, 2002)
Questa però non è stata l’unica voce a farsi sentire. La
direzione nazionale della Central Única dos Trabalhadores (CUT), non aveva
fatto nessun richiamo all’azione e alla mobilitazione. La sua risoluzione più
importante era stata la creazione di “sei gruppi di lavoro della CUT (la
riforma tributaria e fiscale, la riforma sindacale e del lavoro, la riforma
della previdenza sociale, la riforma agraria ed agricola, l’occupazione e il
reddito e infine lo Stato e la pubblica amministrazione)” che avevano come
obiettivo quello di presentare alcune proposte al governo e di partecipare ad
ogni “forum della negoziazione”
La distanza che segna entrambe le risoluzioni è sintomatica
delle tensioni che attraversavano i movimenti sociali. Agire o aspettare?
Rivendicare o collaborare? Le voci concordi con il nuovo governo invocano l’attesa
e la collaborazione. Lo stesso Lula aveva detto ai rappresentanti del movimento
sindacale che non era l’ora di rivendicare. Ci si chiede: fino a quando sarà
possibile aspettare con una società nella quale 49 milioni di persone
guadagnano meno della metà del salario minimo (approssimativamente 27 Euro al
mese)? Quando credono che “questo è il momento”? Come agirà il nuovo
governo di fronte a questa richiesta di mutamento?
2. Dalla logica della differenza alla logica statale
La vittoria elettorale di Luís Inácio Lula da Silva e del
PT alle elezioni presidenziali, riassume più di due decenni di trasformazioni
politiche e sociali in Brasile. È un periodo di grandi cambiamenti. Due decenni
nei quali i tempi della storia sono accelerati, frammentati e caratterizzati da
convulsioni e momenti di rottura. Si dà vita ad un nuovo paese che
difficilmente si riconoscerebbe in quello dei decenni precedenti, nonostante le
sue peculiarità sociali siano marcate da una secolare continuità. Questa
accelerazione temporale non è vissuta, come sarebbe più naturale, soltanto
dalle grandi metropoli, ma anche dagli ambienti rurali, dove la lentezza dei
cicli naturali, con le sue stagioni, i suoi giorni e le sue notti, è scossa dal
ritmo tipico della politica.
Paradossalmente i tempi storici sono stimolati e acquisitano
velocità proprio quando viene presa l’insolita decisione di fermarli. Il 12
maggio del 1978 gli operai della fabbrica di camion Saab-Scania, nell’ABC
paulista, decidono di fermare le macchine e di incrociare le braccia.
Rivendicando un aumento salariale del 20% circa, i duemila operai metalmeccanici
di quell’impresa danno il via ad uno sciopero che segnerà quest’epoca.
Interrompono così il ritmo cadenzato del cronometro e arrestano i tempi di
produzione, adattandosi ai tempi della politica.
Il blocco dei lavoratori della Saab-Scania è la scintilla
che ha fatto esplodere l’intenso movimento di rivendicazione, diffusosi in
tutta la regione ed oltre. Durante tutto l’anno, scioperano circa mezzo
milione di lavoratori e nell’anno seguente il numero raggiunge 3.241.500
scioperanti. Ciò contribuisce a dare luogo ad un lungo ciclo di lotte
sindacali, con nuove organizzazioni della classe operaia, che si prolunga, in
pratica senza interruzione, fino al 1989.
I movimenti dell’ABC paulista alla fine degli anni ‘70
inaugurano un’ampia stagione di lotte contro lo sfruttamento del lavoro e la
legislazione repressiva, che legava il movimento sindacale allo Stato e
restringeva ogni forma di rappresentanza dei lavoratori (Antunes, 2002).
Caratterizzati dalla spontaneità e dall’efficacia, questi scioperi avviano
una nuova pratica sindacale e politica. Rifiutando la collaborazione, il patto
sociale e l’immobilismo che avevano caratterizzato buona parte della politica
della sinistra brasiliana fino allora, gli scioperi dell’ABC generano un
movimento fondato sul confronto sociale e sulla libertà di classe.
La nascita del PT è legata in maniera indissolubile a questo periodo di
scioperi. Infatti, verso la metà del 1978, il giornale Versus comincia a
divulgare la proposta di creare un partito di lavoratori senza padroni, che
sfidasse la dittatura militare in corso. Questa proposta è espressa nella
relazione che il Sindacato dos Metallúrgicos de Santo André aveva presentato
al 9° Congresso dos Trabalhadores Metallúrgicos do estado de São Paulo, che
ebbe luogo nella città di Lins nel Gennaio del 1979 (PT, 1998, p. 47-48).
Il 1° Maggio 1979 viene diffusa una Carta de Princípios
do Partidos dos Trabalhadores, nella quale si afferma che: “Ripudiando
tutte le forme di sfruttamento politico delle masse, incluso soprattutto quello
effettuato dal regime prima del 64, il PT si rifiuta di accettare al suo interno
rappresentanti delle classi sfruttatrici. Vale a dire, che il Partido dos
Trabalhadores è un partito senza padroni!” (Idem, p. 53).
Le definizioni strategiche del progetto politico del PT, non
mancano di mostrare nel suo primo anno un livello d’estrema generalizzazione e
ambiguità. Il Programa do Partido, approvato nella Reuniã Nacional de
Fundaçã nell’Ottobre del 1980, propone di costruire, nella lotta contro il
regime repressivo, “una alternativa al potere economico e politico,
smantellando la macchina repressiva e garantendo la massima libertà ai
lavoratori e agli oppressi che sostenevano la mobilitazione e l’organizzazione
del movimento popolare e che fosse l’espressione del legittimo diritto e della
legittima volontà di decidere il destino del paese.” Il Programa
definisce questo potere alternativo come costitutivo di una società senza
oppressi né oppressori e sostiene che la sua costruzione debba avvenire a
discapito degli interessi del grande capitale nazionale ed internazionale, ma
non spiega come perseguirlo. (idem, p. 68-69).
Ciò che rende forte il partito nei suoi primi anni non è
tanto il suo progetto strategico quanto la sua forza sociale. Quello che attrae
i militanti del movimento sindacale e la gioventù, è la possibilità d’agire
effettivamente attraverso la partecipazione politica in un partito, che non
porta con sé il marchio pesante dell’immobilismo e del burocratismo che aveva
devastato la sinistra brasiliana prima del golpe militare del 1964. In questo
senso, il PT riassume il processo di riconfigurazione sociale e politica della
classe lavoratrice brasiliana, elaborato già negli anni ‘70 attraverso una
molteplicità di movimenti sociali, che contestavano le antiche forme
istituzionalizzazione della politica delle classi minori. [1] Ciò che rende il nuovo partito promettente è la sua logica
della differenza (Keck, 1997).
La costruzione del partito dei lavoratori, e di conseguenza
la fondazione di un classismo allo stato pratico, rappresenta la svolta
politico-organizzativa di quel movimento spontaneo di scioperi che, alla fine
degli anni ‘70, aveva scosso la dittatura militare, alterando profondamente le
modalità d’esercizio della politica in Brasile (Bianchi, 2001). Gli elementi
di distinzione di questo classismo pratico, sono il rigetto quasi istintivo
della politica della collaborazione, della concertazione e dell’alleanza con
la borghesia, l’affermazione alla sua origine di una vocazione anticapitalista
e la fiducia nel potere taumaturgico della “base del partito”. Questa
dimensione pratica e spontanea, è ciò che ha dato al Partido dos Trabalhadores
il vigore e la spinta necessari per rinnovare le modalità di fare politica
della classe lavoratrice e, di conseguenza, delle stesse classi dominanti. È l’affermazione
politica di una forza fino allora inimmaginabile ed insperata.
Le pratiche spontanee di questo classismo si trasformano
presto in uno spontaneismo teorico. L’assenza di definizioni strategiche più
precise è garantita dalla plasticità del movimento stesso e rappresentata come
una gran virtù del partito. Da ciò l’insistenza affinché il PT non nasca
“bello e pronto” ma che il suo programma sia il frutto “ della pratica
politica delle sue basi sociali” e venga pensato in dettaglio “per l’attività
politica dei lavoratori” (PT, 1998, p. 70-71).
Nel discorso di Lula alla 1° Convenção National do Partido
nel 1981, questa negazione della teoria è resa esplicita. Rivolgendosi a coloro
che vogliono conoscere l’ideologia e la concezione del socialismo del PT, Lula
risponde che “queste questioni servono soltanto ad esprimere la diffidenza, in
relazione alla capacità politica dei lavoratori brasiliani nel definire il loro
stesso cammino”. E più avanti, nello stesso discorso presenta un suo proprio
concetto:
“Il socialismo che noi vogliamo si definirà per tutto il
popolo, com’esigenza concreta scaturita dalle lotte popolari, come risposta
politica ed economica globale a tutte le aspirazioni concrete che il PT sia in
grado di affrontare. Sarebbe molto facile, seduti comodamente qui all’interno
del Senato della Repubblica, decidere per una definizione o per un’altra.
Sarebbe molto facile e molto sbagliato. Il socialismo che noi vogliamo non
nascerà da un decreto né nostro né di nessun altro. Il socialismo che noi
vogliamo si andrà definendo nelle lotte, giorno dopo giorno, nello stesso
modo in cui abbiamo costruito il PT.” (PT, 1998, p. 114.)
La costituzione di un nuovo progetto sociale è ridotta così
al movimento spontaneo. Nel conflitto di razionalità che esiste nella lotta di
classe in atto, quello che il PT deve fornire è soltanto il suo sostegno alla
lotta. Questa tendenza assenteista nel conflitto di razionalità non fa altro
che creare una subalternità passiva del partito sul piano ideologico,
alimentando un eclettismo teorico sempre più forte. Senza costruire una
concezione del mondo alternativa, incatena queste energie ad un orizzonte
economico-corporativo, molto lontano dal progetto sociale di affermare un nuovo
ordine. L’identità politica che era stata costruita dal partito ne esce
limitata. Questa, non è stata tradotta in un’identità teorica che renda
conto della maniera innovatrice e radicale dei problemi posti dalla complessa
realtà brasiliana e latino-americana. Si limita ad alcune espressioni vaghe e
alla riproduzione di un senso teorico comune. Non produce nuove consapevolezze,
ma riproduce vecchie verità.
Lo spontaneismo teorico trae la sua forza dall’energia
sociale del ciclo di scioperi iniziati nel 1978 e si limita a questo. Ma il
classismo pratico che alimenta e rende dinamica la riorganizzazione del
movimento politico e sindacale delle classi minori ha vita breve. Non sopporta
il peso delle vittorie elettorali del Partido dos Trabalhadores. Il partito, che
aveva ottenuto l’elezione di appena due sindaci alla sua prima partecipazione
nel 1982, vede eletti nelle elezioni del 2000, 2.485 consiglieri comunali e 187
sindaci, di cui sei in alcune capitali di Stato, inclusa la città di San Paolo,
la più grande ed importante del paese. La crescita nelle elezioni nazionali è
veramente impressionante: otto deputati federali nel 1982, 16 nel 1986, 35 nel
1990, 49 nel 1994, 58 nel 1998 e 91 nel 2001.
L’ascesa all’interno dell’apparato statale è
accompagnata dal rinforzarsi di una burocrazia settaria sempre più lontana
dalla base del partito. Già a metà degli anni ‘80, il nucleo che doveva
organizzare i militanti della base aveva dato chiari segni d’atrofizzazione.
All’inizio degli anni ‘80 questi non esistono praticamente più, sono stati
sostituiti da comitati elettorali di candidati che generano così la
personalizzazione della politica brasiliana, dettata dal voto nominale e non dei
partiti.
Questa trasformazione del partito è chiaramente illustrata
dalla crescente presenza di funzionari politici e dalla consistente diminuzione
del numero di sindacalisti nelle riunioni del PT. Nell’11° Encontro Nacional
avvenuto nel 1997, il 60% dei delegati sono politici di professione tra cui il
18% sono parlamentari, il 13% assessori, il 9% militanti salariati dei movimenti
sociali, l’8% occupa incarichi di fiducia nei governi degli Stati e dei
municipi, il 6% sono dirigenti salariati del PT, il 2% sono salariati delle
correnti interne del partito, l’1% sono funzionari/assessori di quel partito,
l’1% sono prefetti o governatori, e soltanto il 13% non sono politici di
professione (Garcia, 2001, p. 99).
Il grande spazio occupato da questo corpo di funzionari
politici e statali all’interno dell’apparato partitocratico, paga il suo
prezzo. A poco a poco, il classismo pratico diluisce il suo riferimento sociale
e moderato e la sua dimensione pragmatica. [2] L’orizzonte
economico-corporativo modifica il suo contenuto sociale. La logica della
differenza che aveva orientato i primi anni della tormentata vita del partito,
cede gradualmente il passo alla logica dello Stato, supportata dal gran numero
di parlamentari, prefetti, e governatori con il loro seguito d’assessori.
Questa logica si basa sulla concezione di uno Stato ambivalente, volutamente
estraneo alla determinazione di classe, portatore di un’elevata capacità d’adattamento
ai nuovi contenuti incorporati nei suoi dirigenti. [3]
Senza incontrare barriere ideologiche e teoriche, il crudo
pragmatismo della realpolitik inonda l’esistenza del partito, ispirando
le risoluzioni degli incontri nei congressi e in particolare della pratica
politica dei suoi dirigenti. Ma l’adesione alla logica di Stato non è
tuttavia un processo semplice e meccanico. Grandi conflitti si svolgono all’interno
del partito, determinando l’espulsione di almeno un’importante corrente,
quella che, attraverso il giornale Versus, aveva proposto la creazione
del PT, l’istituzionalizzazione dei meccanismi statuari che riducono l’espressione
pubblica delle divergenze, e la censura alle correnti della cosiddetta sinistra
petista. Ma nel giro di pochi anni la logica statale torna ampiamente
preponderante.
Quando nel 1991 il Partido dos Trabalhadores annuncia l’inizio
di una discussione strategica, al suo 1° Congresso, questa non può più essere
la traslazione del classismo pratico. La sconfitta di Lula alle elezioni del
1989, l’insuccesso degli scioperi degli impiegati pubblici nel 1990, e i primi
tentativi dell’implementazione del modello neoliberale, dissipa le energie dei
movimenti sociali e prepara la strada al consolidamento, all’interno del
partito, di una logica statale della gestione della politica.
Fin dall’inizio, nei dibattiti preparatori al 1°
Congresso, il consolidamento di questa logica si afferma con una forza ed una
chiarezza non usuale per la tradizione petista. Il segretario delle Relações
Internacionais del PT, Marco Aurélio Garcia, rileva la sua importanza in
maniera cristallina: “La democrazia non può essere solo un mezzo per
raggiungere la democrazia sociale o una posizione migliore per lottare per
questa. La democrazia è fine a se stessa. È un valore strategico e permanente.
Se questa tesi è social-democratica, pazienza! saremo socialdemocratici.”
(Garcia, 1990)
La risoluzione finale del Congresso, intitolata Socialismo,
non è segnata da un numero d’emendamenti scaturiti dalle tendenze della
sinistra, ma non per questo perde il suo carattere fondamentale: una democrazia sansa
phrase definita come valore universale. Il socialismo è concepito come una
combinazione tra “la pianificazione statale e un mercato orientato socialmente”,
e finalmente il potere taumaturgico smette d’essere prerogativa delle “basi”
e passa ad uno “Stato [che] esercita un’azione regolatrice sull’economia,
attraverso le sue stesse imprese, attraverso meccanismi di controllo del sistema
finanziario, della politica tributaria, dei prezzi, del credito, e attraverso
una legislazione antimonopolistica e di protezione dei consumatori, dei
salariati e dei piccoli proprietari” (PT, 1998, p. 502).
Questo tema è ripreso recentemente in occasione di una serie
di dibattiti sul socialismo, realizzati dal Partido dos Trabalhadores. In un
intervento che riassume grosso modo la visione maggioritaria del partito, l’economista
Paul Singer sviluppa la proposta di un socialismo di mercato:
“La funzione del mercato socialista è quella di rendere
possibile la libertà d’iniziativa di persone o di gruppi di persone, con
idee nuove o con nuovi progetti. Questi dovrebbero essere incoraggiati ad
offrire i loro prodotti senza imbarazzo e senza dover ottenere il permesso da
nessun’istanza pianificatrice. (...) La competizione in questo caso dovrebbe
durare fino a quando i consumatori abbiano deciso se adottare prodotti nuovi o
rimanere con quelli vecchi” (Singer et alli, 2000, p. 47).
Nella sua proposta, Singer non chiarisce perché la
competizione dovrebbe fermarsi, né perché questa non generi relazioni di
sfruttamento. Analizzando il ragionamento di Singer, Lula, intervenuto nel
dibattito, scopre una contraddizione:
“L’essere umano è particolarmente competitivo. Nella
dimensione in cui si blocchi la capacità competitiva dell’essere umano e si
consenta a tutti di ottenere la stessa cosa all’interno di una fabbrica, si
riducono le possibilità di successo della fabbrica stessa. Le persone così
sono spinte verso il basso e non verso l’alto. Il socialismo non potrà
risolvere questo problema” (Idem, p. 72).
Evidentemente non esiste un programma possibile in assenza di
un soggetto in grado di realizzarlo. Per questa ragione, nel cuore del progetto
petista, accanto al mercato, incontriamo lo Stato. La soluzione al problema,
presentata da Lula, riprende così il tema del protagonismo statale:
“Il mercato funziona soltanto con uno Stato molto forte
che lo regoli e lo obblighi a seguire alcune regole sociali. Il mercato
lasciato a se stesso non è la soluzione. Rendere compatibili il mercato con
uno Stato regolatore, capace di garantire i bisogni delle persone, sarebbe l’ideale.
Come arrivare a questo è compito del PT” (Idem, p. 73).
Questi argomenti, così come la soluzione presentata, non
mancano di ricordare Proudhon. La competizione, e pertanto il mercato, è
rappresentata come il meccanismo capace di proporzionare l’eguaglianza e il
coinvolgimento sociale. Tuttavia, ha nel lato negativo della concorrenza, il suo
risultato più probabile quello, ossia, di rivoltarsi contro coloro che ne sono
parte. La soluzione di Proudhon è analoga a quella petista. Direbbe il filosofo
Francese: “Qui non centra la questione di distruggere la concorrenza, cosa
tanto impossibile quanto distruggere la libertà; qui si tratta di trovare un
equilibrio - io direi di buon grado: la polizia” (citazione da Marx,
1982, p. 136).
Un mercato naturale e una caratteristica umana (la
competizione) inamovibile corrispondono alla situazione sulla quale dovrebbe
essere costruito il socialismo. Questa non sarebbe altro che l’esorcizzazione
del male del mercato attraverso lo Stato, salvando ciò che avrebbe di
potenzialmente positivo, ossia la possibilità di consentire scelte basate su
opinioni. Il mercato è il luogo della libertà. Lo Stato
poliziesco-proudhoniano è il suo guardiano.
Definito in tal maniera, il socialismo petista si trasforma
in una base solida per un programma di governo capitalista, che abbia per
obiettivo quello di superare la crisi del modello neoliberale. Non si tratta di
costruire il futuro, ma di gestire il presente eliminando ciò che è cattivo o
indesiderabile. Un governo del PT renderebbe possibile quest’esorcizzazione
del male e valorizzerebbe ciò che il mercato comporta di buono, rendendolo più
umano. Guido Mantega, il nuovo ministro della Pianificazione e uno dei
principali sostenitori di Lula durante la campagna elettorale, riassume così
quest’obiettivo quando gli viene chiesto cosa ci si può aspettare dal governo
Lula:
“Io affermerei che il PT è un partito della sinistra
moderna, simile al Partito Socialista francese, al Partito Laburista inglese e
alla sinistra italiana. Io lo collocherei in questo ruolo di partiti che
rivendicano e desiderano ardentemente una società capitalista - poiché il
socialismo oggi è qualcosa totalmente indefinito e non esiste più. Noi
cerchiamo un capitalismo più efficiente ma più umano.” (Mantega, 2002.)
Così come in Proudhon, la dialettica è qui mutilata. La
contraddizione immanente si manifesta, trasformandosi in qualcosa che può
essere eliminato attraverso la gestione statale. In questa maniera la dialettica
è ridotta ad un gioco d’opposti, buono/cattivo, soggetti ad essere soppressi
attraverso l’eliminazione di uno dei suoi poli. Ma, l’eliminazione (al
contrario del superamento dialettico) dal gioco, attraverso la cancellazione
politica dell’aspetto cattivo, permetterebbe di ricreare la realtà su una
nuova base. Il risultato di quest’operazione è una costante riproduzione di
ciò che già esiste, attraverso un processo di perfezionamento e armonizzazione
del reale.
Ricorderemo ciò che Gramsci disse riguardo alla “dialettica”
proudhoniana:
“Si ha nel Proudhon una stessa mutilazione dell’hegelismo
e della dialettica che nei moderati italiani e pertanto la critica a questa
concezione politico-storiografica è la stessa, sempre viva e attuale,
contenuta nella Misura della filosofia. L’errore filosofico (d’origine
pratica!) di tale concezione consiste in ciò che nel processo dialettico si
presuppone “meccanicamente” che la tesi debba essere “conservata” dall’antitesi
per non distruggere il processo stesso, che pertanto viene “preveduto”
come una ripetizione all’infinito, meccanica, arbitrariamente prefissata.”
(Gramsci, 1977, p. 1220-1221)
Se utilizziamo come metodo una dialettica mutilata, come
programma politico otteniamo una rivoluzione passiva. Questo, e nient’altro,
è il contenuto del programma petista: l’attualizzazione graduale della
struttura economica del capitalismo attraverso fasi successive volute dallo
Stato, evitando in questo processo l’intervento attivo delle classi minori.
Quindi, attualizzazione e non superamento del capitalismo, come spiega
chiaramente il ministro Mantega nella sua dichiarazione. Questa strategia
riproduce, con un nuovo ordine politico, la storia dello stesso sviluppo
capitalista brasiliano, segnato da trasformazioni passive permanenti concluse da
uno Stato guida. Lontano dall’aver realizzato la speranza del Brasile come “paese
del futuro”, tali processi non farebbero altro che ricreare il passato
attraverso la gestione del presente.
3. Il social-liberalismo come programma
La prospettiva della rivoluzione passiva sopra accennata è
ciò che orienta il Programe de Governo 2002 Coligação Lula Presidente
(PT, 2002). Nonostante qualche riferimento al socialismo (la parola non compare
nelle 88 pagine del documento), il programma petista, per uscire dalla crisi del
neoliberalismo, si basa principalmente sulla proposta più ampia d’implementazione
del “nuovo contratto sociale”, tutelato da uno Stato proudhoniano di tipo
social-liberale. Spoglio di qualunque governo, lo Stato social-liberale
assumerebbe, attraverso il nuovo contratto sociale, il ruolo di mediatore tra le
rigide leggi del mercato e i fabbisogni della società, e tra gli interessi
delle classi più alte e di quelle minori:
“Il nuovo modello non potrà essere il prodotto di
decisioni unilaterali del governo, come già accade oggi, né dovrà essere
implementato per decreto in maniera volontaristica. Sarà frutto di un’ampia
negoziazione nazionale, che dovrà condurre ad un’autentica alleanza per il
paese e ad un nuovo contratto sociale capace di assicurargli una crescita
stabile. Le premesse per questo cambiamento saranno naturalmente il rispetto
dei contratti e degli obblighi del paese.” (Lula da Silva, 2002)
Moderatrice di conflitti e forza motrice della “speranza”,
l’economia, con la diffusione di questa politica amministrativa improntata
sull’azione di un governo proteso allo sviluppo, smetterebbe di essere
concepita come un’istanza autonoma. Cercando di incorporare pacificamente la
classe lavoratrice, lo Stato social-liberale modellerebbe l’universo
mercantile feticcio a forza d’iniziative tese a regolare i prezzi, i salari,
gli investimenti, i sussidi, eccetera. Così come indicato nel Programma de
Governo 2002 “il gran compito di creare un’alternativa economica per
affrontare e vincere la sfida storica dell’esclusione sociale, esige la
presenza attiva e l’azione regolatrice dello Stato sui mercati, così da
evitare comportamenti monopolistici ed oligopolistici predatori” (PT, 2002, p.
8)
Con l’eliminazione delle incoerenze, integrando in seno al
suo apparato elementi che provengano dalle classi minori, lo Stato
social-liberale sarebbe in grado di costruire una corrispondenza tra obiettivi
economici e politici, in modo da garantire la circolarità della politica
amministrativa, la quale, a sua volta, attraverso aspetti puramente economici,
promuova politiche sociali e miri anche, per mezzo dell’espansione del mercato
interno, al perfezionamento della stessa economia. L’autorità dello Stato si
troverebbe immersa nell’economia per la gestione della domanda globale, nel
momento in cui le coercizioni del mercato sarebbero conservate all’interno
dello Stato social-liberale:
“Lo Stato non può limitare la sua azione all’amministrazione
di breve termine e alle questioni d’emergenza, ma deve improntarsi ad una
visione strategica di lungo termine, articolando gli interessi e coordinando
gli investimenti pubblici e privati affinché imbocchino la strada di una
crescita sostenuta. Questo comporta la reintroduzione di una pianificazione
economica che assicuri un orizzonte più lungo agli investimenti” (Idem,
p. 42)
Attraverso la pianificazione economica, la cosmologia petista
cerca di combattere gli “irrazionalismi estemporanei” di una storia lacerata
dagli scontri sociali. “_ possibile prevedere soltanto la lotta”, direbbe
Gramsci. Basta. “_ possibile prevedere soltanto il consenso” conclude il
programma del PT. Sotto il primato della “crescita stabile” non si tratta
più d’imporre con forza, da qui in avanti, un mondo migliore, ma si cerca
anzi di facilitare quelle fasi di transizioni che ci permettano progressivamente
di approssimarvisi. Questa rappresentazione della storia non si dissocia dal
feticismo dello Stato. _ esattamente un “attore principale” con il quale
condurre tale strategia, obbligare i compagni ad accettare “obiettivi sensati”,
aver cura del “rispetto per i contratti”, promuovere la trasformazione dei
suoi dirigenti, e garantire infine il nuovo contratto sociale.
Il governo petista cercherà di costituirsi come alternativa
per eccellenza, sia tra coloro che difendono la passività della classe
lavoratrice di fronte allo sfruttamento (il blocco di potere articolato dal
governo di Fernando Henrique Cardoso), sia tra i sostenitori della lotta di
classe (l’MST e le correnti politiche integrate petiste e non petiste della
sinistra). Uniti nel rifiutare la negoziazione, neoliberali e “esquerdistas”
si troverebbero prigionieri di un’intesa limitata, sacrificata dalle ampie
possibilità di crescita stabile del compromesso sociale, nel crepuscolo di un
periodo storico segnato dalla crisi contemporanea.
Nel pieno della crisi del progetto sociale neoliberale, gli
accordi originari sulla istituzionalizzazione del contenuto delle lotte sociali
garantirebbero spazio per una nuova focalizzazione del problema della “esclusione
sociale”. I conflitti non sarebbero più risolti attraverso la “gestione
monetaria” degli accoliti del mercato, né la società sarebbe sovvertita
dalla sindacalizzazione delle lotte. Si tratterà di negoziare un nuovo
contratto sociale in grado di superare l’emarginazione sociale, evitando, in
questo modo l’estremismo dei “sostenitori” della violenza classista:
“Soltanto un nuovo contratto sociale che favorisca la
nascita di una cultura politica di difesa delle libertà civili, dei diritti
umani e della costruzione di un paese più giusto economicamente e
socialmente, permetterà di approfondire la democratizzazione della società,
combattendo l’autoritarismo, la disuguaglianza e il clientelismo” (Idem,
p. 8)
La vecchia problematica riformista sul rispetto dell’integrazione
delle classi nel “destino comune” del progetto di sviluppo nazionale, emerge
con forza dal discorso del PT. La sua interpretazione del ruolo di Stato
social-liberale, che si ponga come terza parte tra gruppi con interessi
contrastanti, esprimerebbe il modo di agire specifico di un modello statale che
gestisca sia il conflitto che la riappacificazione. In altre parole, la politica
del governo Lula sarà segnata dalla mobilitazione, ma con fiscale contesa, di
una parte dei beni della nazione, nel tentativo di assicurare il loro controllo
e la loro coesione interna:
“Il rafforzamento dell’economia nazionale è il secondo
asse di sviluppo proposto. Al di là di un ruolo più attivo nel conseguimento
degli obiettivi relativi alla ridistribuzione dei redditi, all’appoggio alle
cooperative di credito e di lavoro e alle piccole e medie imprese, lo Stato
dovrà impegnarsi in un ruolo strategico per la costruzione d’infrastrutture,
e per il finanziamento alla ricerca scientifica e tecnologica, che è di
fondamentale importanza per aumentare l’efficienza di un qualsiasi sistema
economico. Lo Stato inoltre ha una responsabilità essenziale nell’articolazione
di politiche che aumentino le capacità competitive e le esportazioni del
Paese” (Idem, p. 42).
Il nuovo contratto sociale, voluto da Lula, tende a
radicalizzare l’apparente esteriorità gestionale di uno Stato legittimato dal
rinnovamento di un preciso concetto di sviluppo (detto “neodesenvolvimentista”)
che sia in grado di condurre l’investimento produttivo, in maniera
possibilmente accessibile “a tutti”, nella direzione della crescita
economica e del progresso materiale. Non si tratta di una grande novità.
Bisogna ricordare che, durante la campagna, tutti i quattro candidati con reale
possibilità di vittoria, incluso il candidato del governo Josè Serra, si sono
dichiarati sostenitori di un cambiamento nell’orientamento della politica
economica verso una ripresa dello sviluppo.
Non è difficile comprendere che l’ideologia “neodesenvolvimentista”,
alimentata dal contratto sociale petista, ha contributo alla politica di
gestione della crisi con una “autonomia” delle classi, da tempo criticata
dallo stesso PT. Lo Stato social-liberale pianifica il futuro sfruttando i
conflitti attuali, ma non si preoccupa di prestare attenzione alle esigenze di
mercato, attraverso la reiterazione di un’ortodossia monetarista: “Il nostro
governo creerà una situazione di stabilità, con inflazione sotto controllo e
solidi fondamenti macroeconomici, affinché il risparmio nazionale aumenti e sia
orientato e stimolato, attraverso la tassa sugli interessi, da investimenti
produttivi e dalla crescita. Soltanto in questo scenario la politica per
traguardi dell’inflazione può funzionare.
Infine:
“La responsabilità fiscale e la stabilità dei conti
pubblici segneranno le politiche del nostro governo. Uno scenario con solidi
fondamenti macroeconomici e con un’inflazione sotto controllo, contribuirà
alla discesa graduale della tassazione sugli interessi e alla riconversione
delle risorse del paese, per investimenti più produttivi e per la crescita
economica” (Idem, p. 48).
L’importanza durante quasi tutta la campagna elettorale, di un certo
atteggiamento “desenvolvimentista” nei concetti tradizionali neoliberali è
chiaro. Tuttavia, com’è ben evidenziato nel programma del governo “petista”,
quest’assertività rimane valida solamente nella condizione in cui sia
vincolata all’idea di un nuovo contratto sociale, che indichi un’alternativa
“progressista” alla crisi del neoliberalismo latino-americano e brasiliano.
Alternativa, questa, che collochi in primo piano il dibattito relativo alla
ripresa degli investimenti pubblici, alla gestione democratica degli apparati
dell’egemonia dello Stato e agli interventi regolatori nell’ambito dei
meccanismi del mercato. Un contratto che riorganizzi gli interventi e le
iniziative dello Stato brasiliano in modo da ottenere maggiore efficienza ed
equità nella crescita economica:
“L’implementazione di un modello di sviluppo
alternativo, che abbia il sociale come asse portante, potrà portare al
successo soltanto se accompagnato dalla democratizzazione dello Stato e delle
relazioni sociali, dalla diminuzione della dipendenza dall’esterno, e quindi
da un nuovo equilibrio nell’Unione a livello di stati ed amministrazioni
locali” (Idem, p. 8).
Il raziocinio programmatico non smette di essere così
inquadrato: nello stesso momento in cui lo Stato neoliberale sembra
irrimediabilmente malato, l’alternativa deve essere trovata... all’interno
dello Stato! Lo Stato social-liberale proposto dal “petismo”, in grado di
decentrare le sue “pratiche democratiche” e garantire una soluzione
progressista alla crisi, permetterebbe di prefigurare la strada della
transizione dalla crisi neoliberale al rinnovamento del progetto “desenvolvimentista
distributivista”:
“Il nuovo governo avrà al centro delle sue attenzioni la
costruzione e l’implementazione di strategie tese a migliorare la
ridistribuzione dei redditi e a rinforzare la conservazione delle diversità
locali, della pluralità e della singolarità delle nostre differenze
culturali” (Idem, p. 68).
Questo terreno privilegiato si troverebbe sedimentato, sempre
più profondamente, dalla diffusione dei valori della democrazia. Nell’evoluzione
di questo modo di ragionare, si svolge il dibattito sull’alternativa
pragmatica petista.
4. Tra borsa e politica della compensazione
Come già evidenziato, la proposta del nuovo contratto
sociale petista segue fondamentalmente la direzione della modernizzazione dei
compromessi istituzionali, in modo da conciliare le esigenze del mercato e
quelle sociali. In questi termini, il programma di governo di Lula ricopre un
ruolo essenziale nella proposta di rinnovamento e di rafforzamento del mercato
azionario brasiliano attraverso l’utilizzo dei fondi salariali e dei fondi
pensionistici:
“Fondi pensione devono essere costituiti come meccanismo
di crescente importanza per lo smobilizzo del risparmio dei salariati. Questo
darebbe anche l’opportunità di far confluire risorse addizionali alle
istituzioni speciali del credito, in maniera da rinforzare i fondi presi in
prestito”. (Idem, p. 43-44).
Fare in modo che il mercato azionario brasiliano si trasformi
in un efficace strumento di stimolo per investimenti produttivi mostra, in gran
misura, l’intenzione centrale del programma di Lula, di un coinvolgimento,
stimolato dai lavoratori brasiliani, nel sentimento di “rafforzamento futuro
del mercato interno”. La proposta petista sul finanziamento delle garanzie
salariali propone l’utilizzo di fondi pensione - in particolare, ma non solo,
d’accantonamenti provenienti dai fondi salariali (ad esempio il Fundo de
Garantia por Tempo de Serviço brasiliano) - in investimenti azionari con
presumibile partecipazione dei lavoratori nella gestione di beni realmente
smobilizzati o potenzialmente utilizzabili.
Non si deve inoltre dimenticare che il governo di Fernando
Henrique Cardoso è stato pioniere nell’utilizzazione di accantonamenti di
fondi salariali per la capitalizzazione di imprese statali come la Petrobrás o
di imprese privatizzate come la Companhia Vale do Rio Doce. Più recentemente,
è stato autorizzato l’impiego di accantonamenti provenienti dal Fondo de
Garantia por Tempo de Serviço per l’acquisto di azioni del Banco do Brasil.
Quindi il rafforzamento del mercato dei capitali brasiliano attraverso l’utilizzazione
degli accantonamenti dei fondi salariali o dei fondi pensione si ricollega ad
una politica già iniziata dal governo precedente, e in termini concettuali non
rappresenta una grande novità.
La novità politica, tuttavia, consiste nell’aver fatta
propria di un partito della sinistra, la proposta di finanziamento dei fondi
salariali attraverso un programma di governo, con l’oggettiva intenzione di
avviare la controriforma previdenziale. In verità, la stessa tesi sul nuovo
contratto sociale, secondo la quale la collaborazione tra classi garantirebbe
una prosperità comune, incontra, nella proposta petista, una mediazione
sufficientemente emblematica su quale terreno potrebbe possibilmente consolidare
entrambi gli interessi del mercato e quelli dei lavoratori: il terreno dello “sviluppo
nazionale”, Da un lato, il mercato dei capitali avrebbe accesso a fondi dell’ordine
di 27.5 miliardi di Real (circa 7,4 miliardi di Euro) e dall’altro i
lavoratori potrebbero prevedere, sempre per ipotesi, un miglior pensionamento.
In accordo con il Programma de Governo da Coligação Lula
Presidente:
“ Quanto al terzo pilastro del sistema previdenziale
attuale, la previdenza complementare, che può essere esercitata attraverso
due fondi pensione, patrocinati dalle imprese o istituiti dai sindacati (in
conformità alla Lei Complementar 109), e rivolta a quei lavoratori che
vogliono rendimenti addizionali oltre quelli garantiti dal regime base, deve
essere intesa anche come un poderoso strumento di rafforzamento futuro del
mercato interno e come una fonte di risparmio a lungo termine per lo sviluppo
del paese. È una forma necessaria di crescita e di rafforzamento per quest’istituzione
attraverso meccanismi d’incentivazione” (Idem, p. 27).
Non c’è dubbio che il messaggio petista è
sufficientemente chiaro: sarà possibile umanizzare il capitale solamente con
astuzia e rassegnazione, e infine la pianificazione concorrerà in favore del
progresso. Senza fretta o avvenimenti spettacolari, la politica riesce a
trasformarsi in una tecnica di negoziazione. Il finanziamento di garanzie
salariali, sulla base della gestione dei fondi pensione, sintetizza l’iniziativa
petista di tentare di articolare gli interessi dei risparmiatori e dei
lavoratori. I sindacati brasiliani, per esempio, incontrerebbero nei fondi
salariali o nei fondi pensione una mediazione decisiva capace d’influenzare le
norme del pensionamento. Di fronte ad un appello così chiaro alla
collaborazione tra classi, è sempre utile ricordare le parole di François
Chesnais sulla versione francese di questa proposta:
“L’acquistare credito dei nostri governanti e dei loro
assessori, sarebbe, nel frattempo, quell’investimento in azioni, che
porterebbe ora alla soluzione miracolosa del “problema dei pensionamenti”,
mentre la borsa sarebbe il luogo nel quale si produrrebbe in maniera indolore
la magia della “moltiplicazione dei pani” nella sua versione
contemporanea. Pura menzogna che nessun sindacalista può appoggiare o
trasmettere senza demoralizzarsi completamente. Prima di essere ripartito
sotto forma di dividendi, il valore, o la ricchezza, deve essere prodotta. Per
chi? Per i salariati nazionali o per gli stranieri che lavorano nelle imprese
che faranno tutto per abbassare i salari e imporre la massima flessibilità
nel lavoro. È così che le borse si trasformeranno nel cavallo di Troia di
tutte le forze che chiedono la distruzione del sistema pensionistico ripartito
e realizzare, con pochi salariati privilegiati, il vecchio sogno capitalista
della collaborazione capitale-lavoro, o infine una nuova formula di
partecipazione dei salariati nella gestione capitalista delle imprese maggiori”
(1999, p. 15).
Per democratizzare lo Stato e assicurare la crescita stabile,
il programma del governo Lula diffonde apertamente il vecchio sogno capitalista
della collaborazione tra classe lavoratrice e borghese. Qui risiede il grande
obiettivo della realizzazione di un nuovo contratto sociale negoziato tra
imprese e sindacati, intorno alle proposte del nuovo modello di sviluppo con
crescita, al finanziamento di fondi salariali, alla riabilitazione della
competitività nazionale o di qualsiasi altra mistificazione.
Inoltre, il nuovo contratto sociale si deve mostrare in grado
di mantenere il lavoro come valore principale per l’integrazione sociale.
Pertanto, la principale battaglia del nuovo modello di sviluppo sarà intavolata
nell’ambito della lotta contro l’esclusione. Bisognerà chiarire e
diffondere i principi ugualitari nella ripartizione dei redditi, in modo che la
ridistribuzione del valore aggiunto non sia più così sfavorevole alle classi
minori. Lo Stato social-liberale, in questi termini, deve assumere, “il ruolo
di induttore dei progetti in grado di stimolare lo sviluppo di politiche d’integrazione
e la protezione dei segmenti sociali più fragili”, in conformità a quanto
detto da Antonio Palocci, ex sindaco della città paulista di Ribeirão Preto,
coordinatore del gruppo di transizione del nuovo governo e attuale ministro
delle Finanze del governo Lula. (cfr. Palocci, 2002)
In sostanza, tutto l’aspetto radicale del programma di Lula
deve essere considerato in base alla sua capacità di distribuire ricchezza ai
“segmenti sociali più fragili”. Si tratta di creare mezzi economici adatti
a sostenere i diritti incondizionati del cittadino, evitando che gli aspetti
negativi prevalgano su quelli positivi. In base al progetto d’inclusione
petista, spiccano le politiche sociali di compensazione come il programma Fame
Zero, presentato dal gruppo di transizione petista tra i principali interventi
della politica pubblica, nel primo anno del nuovo governo. Si tratta, per il PT,
di un’iniziativa affinata con i nuovi tempi, poiché in grado di combinare le
esigenze del mercato e quelle sociali, nel tentativo di correggere le brutali
disuguaglianze verificatesi nella formazione della società brasiliana, come nel
caso del flagello della fame che colpisce all’incirca 10 milioni di famiglie.
Nelle parole di Frei Betto, attuale coordinatore della mobilitazione sociale per
il progetto Fame Zero: “Il progetto Fame Zero, voluto dal governo Lula, si
prefigge lo scopo di ridurre significativamente le discriminazioni sociali che
fanno del Brasile uno dei tre paesi più ingiusti del mondo” (Betto, 2002).
Dopo l’annuncio fatto da Lula, il primo dalla sua elezione
a presidente, in cui si evidenzia la lotta alla fame come priorità del suo
governo, il programma Fame Zero, uno dei molti programmi presentati durante
tutta la campagna presidenziale, assume un ruolo di risalto. Ottiene l’attenzione
di tutte le maggiori testate giornalistiche e un’ampia copertura da parte di
tutti i mezzi di comunicazione di massa. Il dibattito sul problema della fame in
Brasile si riaccende. Rapidamente ottiene un grande consenso nazionale ed
internazionale. Nonostante alcune critiche, arrivano consensi in abbondanza dai
più disparati settori della società brasiliana e dalle strutture del potere
transnazionale.
In una recente visita allo Stato brasiliano del Pará, per
esempio, James Wolfensohn, presidente della Banca Mondiale, ha dichiarato di
essere entusiasta dello sforzo del governo, recentemente eletto, nel combattere
la fame in Brasile. Ha elogiato Fame Zero e confermato l’intenzione di “sostenere
e comprendere” il governo Lula: “Noi [della Banca Mondiale]” è arrivato a
dire Wolfenshon “intendiamo interpretare un ruolo migliore per il paese, se il
governo lo desidera. Il progetto [Fame Zero] è di estrema urgenza, possibile e
pratico da applicare” (Folha de S. Paulo, 27 Novembre 2002).
Evidentemente, l’approvazione del presidente di uno dei principali strumenti
dell’imperialismo capitalista mondiale rappresenta molto in termini di risorse
e credibilità internazionale. Importante contributo al consolidamento del
consenso intorno al programma petista.
Nonostante l’obbiettivo del programma sia quello di
affrontare effettivamente la drammaticità della situazione delle classi minori
brasiliane, un’analisi un po’ più dettagliata della sua struttura e delle
sue modalità di funzionamento, ne evidenzierebbero decisamente i problemi. In
primo luogo, tenendo conto delle limitazioni preventive riconosciute ed
accettate dal nuovo governo, le modalità di finanziamento di Fame Zero
corrisponderebbero, senza molte alterazioni, alla logica neoliberale della “razionalizzazione”
dei beni per garantire la normalità fiscale. Fondamentalmente, il denaro
dovrebbe arrivare da fonti già esistenti ed essere utilizzato attraverso le
antiche politiche sociali di compensazione implementate dal vecchio governo.
Se andassimo a considerare gli ultimi dibattiti sull’adeguamento
del salario minimo brasiliano al costo della vita, sulle negoziazioni per la
riforma della previdenza e sulla riforma fiscale, non ci sarebbero dubbi sulla
mancanza delle risorse per progetto proposto dal PT. In questo senso, Fame Zero
non va molto oltre le politiche sociali di compensazione, già esistenti o già
concordate e quindi ampiamente insufficienti a risolvere il problema brasiliano
della fame. Quindi, oltre al discorso sul rispetto “morale” dell’utilizzo
del denaro pubblico, lo sfruttamento delle risorse non va molto oltre ciò che
già esiste o si trova a disposizione del governo. Il mutamento avverrebbe
tramite un’alterazione della “focalizzazione” delle politiche di
compensazione. La lotta al flagello della fame si trasforma in “priorità”,
per la politica sociale petista e molteplici programmi si focalizzano su di
essa.
In verità difronte alla crisi politica e alla certezza di un
inizio di mandato incentrato sulla gestione di questa crisi economica, Fame Zero
interpreta un ruolo essenziale: garantisce, davanti alle classi minori
brasiliane, una “cortina di fumo” al primo anno di governo Lula. L’adeguamento
salariale al costo della vita degli impiegati pubblici federali (da otto anni
senza adeguamenti), l’aumento del minimo salariale, il debito pubblico
statale, la crisi del debito estero, l’aumento dell’occupazione, il calo
degli investimenti esteri, la possibilità di nuove guerre, la recessione, il
ritorno dell’inflazione, eccetera. Lo scenario della crisi risulta in pratica
tutta una montatura e, ad esempio, la “speranza”, chiaramente manifestata
dai lavoratori brasiliani per il cambiamento d’orientamento della politica
economica recessiva, non tarda ad esaurirsi di fronte al consenso petista alle
“regole” imposte dall’accordo con il FMI. Ora, se la crisi arriverà con
la forza attesa e appariranno fatalmente esazioni, si potrà sempre affermare
che il governo Lula è principalmente occupato a combattere la fame.
In questo senso, Fame Zero differisce dalla politica di
compensazione del governo di Fernando Henrique Cardoso: il richiamo alla logica
di mercato e a quella politica è molto più efficiente. Il programma è in
grado di far in modo che la logica neoliberale dell’amministrazione della
crisi sociale ottenga un evidente appello del popolo. Oltre a tentare di
incorporare trasformisticamente l’MST, attraverso la riattivazione della
piccola agricoltura, la politica dello Stato nella gestione della crisi, deve
depoliticizzare parte della sua tattica in un chiaro tentativo di frenare la
lotta sul campo. Non è a caso che l’insediamento dei senza terra e l’appoggio
ai piccoli agricoltori si trovano tra le priorità sollevate da Fame Zero per il
prossimo anno.
Insomma, Fame Zero rappresenta uno strumento sufficientemente
ingegnoso di diminuzione dei potenziali conflitti tra PT e classi minori. La
delusione popolare per un governo di sinistra, che si rifiuta di vedere che il
tutto comporta un risultato minimo in direzione di un piano anteriormente difeso
dagli stessi parlamentari petisti, potrà essere realmente ridotta con una
propaganda frutto dell’implementazione del programma. Lo sforzo
controriformista del governo eletto, sarà ugualmente rafforzato, e alla fine le
riforme sul lavoro, quella tributaria e fiscale, ma prima di tutto, la riforma
previdenziale - lasciata incompleta dal vecchio governo - avranno una funzione
“sociale” sufficientemente visibile.
Quindi la lotta alla fame sarà realizzata sulla base dell’eliminazione
dei diritti e delle garanzie sociali - soprattutto nel caso della funzione
pubblica - conquistati dalle classi minori brasiliane durante decenni di lotte.
5. Conclusione: per un’”antitesi vigorosa”
Il bandito prezzolato Ribaldo, del maestro Guimarães Rosa,
aveva pienamente ragione. Avviare questo progetto di umanizzazione del
capitalismo attraverso la rivoluzione passiva alla brasiliana può essere molto
più pericoloso di quanto immaginato dalla direzione del Partido dos
Trabalhiadores. Il movimento molecolare delle transizioni graduali richiede
tempo ed è questo ciò che il nuovo governo sta chiedendo. Ma non otterrà il
tempo che richiede. Chi gli ha negato questa opportunità è stato lo stesso
Fernando Henrique Cardoso che termina il suo mandato in una situazione economica
critica, con il ritorno dell’inflazione, con livelli di indebitamento interno
ed estero allarmanti, con lo svuotamento delle riserve di valuta estera, con la
distruzione di una parte importante delle capacità produttive nazionali e con
circa 1,8 milioni di disoccupati soltanto nella regione del Grande São Paulo.
Come se non bastasse la pressione causata dalla situazione
impone una certa urgenza nell’agenda. Nei primi mesi di governo, Lula dovrà
prendere alcune decisioni d’importanza cruciale per le sue relazioni con i
movimenti sociali, tra le quali partecipare alle negoziazioni sull’Área de
Livre Comèrcio das Américas (Alca) e definire il valore del nuovo salario
minimo.
Il governo Lula dovrà accettare le negoziazioni sull’Alca?
Bisogna ricordare che a settembre del 2002, più di 10 milioni di brasiliani,
oltre ad un gran numero di sindacati, hanno partecipato ad un plebiscito non
ufficiale organizzato dall’MST, per la Conferência Nacional dos Bispos do
Brasil (CNBB). Adesso, gli organizzatori del movimento hanno insistito affinché
il nuovo governo si faccia urgentemente promotore di un plebiscito ufficiale
sulla questione.
Già durante la preparazione del plebiscito, il PT si era
ritirato dalla commissione organizzatrice. Le divergenze d’opinione tra i
sostenitori della candidatura di Lula e gli organizzatori del movimento contro l’Alca
erano ricorrenti. Lo sdoppiamento politico degli interventi programmatici
petisti implica un evidente appello indirizzato ai lavoratori in direzione di
una difesa possibilmente più attiva degli “interessi nazionali” nella
competizione, coinvolgendo gruppi corporativi nazionali e blocchi commerciali
suddivisi per aree geografiche, come per esempi nell’Alca: “Le negoziazioni
nell’Alca non saranno effettuate in un clima di dibattito ideologico, ma
saranno messi in conto essenzialmente gli interessi nazionali del Brasile”
(PT, 2002, p. 13).
Alcuni mesi fa Lula è arrivato ad affermare che “il PT è
un partito pronto ad ottenere il primato alle elezioni nazionali e non può
permettersi di scherzare sul plebiscito”, (Folha de S. Paulo, 25
agosto. 2002). Non è stata soltanto una contraddizione nel modo di condurre la
lotta, come aveva chiaramente dimostrato l’allora candidato alla
vicepresidenza, che aveva inoltre sostenuto che le persone si schieravano contro
l’Alca senza sapere cosa significasse e che aveva concluso il suo intervento
con l’elogio liberale: “Libero commercio significa, per l’esattezza, la
fine delle frontiere economiche. Significa che i paesi vivranno in una economia
rigorosamente aperta. È questa una cosa buona per il Brasile? Io penso di si”
(Folha de S. Paulo, 26 ottobre, 2002).
Il valore del nuovo salario minimo è l’altro tema
delicato. Durante la campagna elettorale, il programma della candidatura
annunciava il raddoppio del salario minimo pari attualmente a 200,00 Real (circa
54 Euro). La proposta del programma andava bene secondo quanto determinato dalla
stessa Costituzione, che definiva il salario minimo come l’indispensabile per
il mantenimento di una famiglia, sopperendo alle spese per l’alimentazione, l’abitazione,
l’educazione, la salute, i trasporti, il vestiario, l’igiene, il tempo
libero e la previdenza, ed equivalente, secondo il Departamento Intersindical de
Estudos Sócio-Econômicos (Dieese), a 1.357,43 Real (circa 364 Euro) nel mese
di novembre del 2002. Ma anche questa proposta è in difficoltà. Per
raggiungere la meta del 3,75% del PIL concordata con il FMI, il nuovo governo
avrà bisogno di ridurre i salari.
José Dirceu, ex presidente del PT, aveva avvertito subito
che difficilmente ci sarebbe stato un aumento significativo in questo momento
del salario minimo:
“L’impegno del candidato Lula fu di raddoppiare il
salario minimo in quattro anni. Quando si discutono proposte che fece il PT,
si dimentica che quello scenario economico non esiste più, in una situazione
sperata che non esiste più. (...) Discuteremo con la società la situazione
che stiamo ereditando, non la situazione di un anno fa” (Folha de S. Paul,
5 novembre 2002).
Sfortunatamente per il PT la contraddizione non può essere
eliminata dall’amministrazione dello Stato. Occupati a gestire la situazione
attuale, i dirigenti petisti rischiano d’urtare contro le speranze per il
futuro suscitate dalla stessa candidatura di Lula. La nomina alla nuova
presidenza del Banco Central (BC) di Henrique Meirelles, ex presidente della
Câmara Americana de Comércio, dirigente della BankBoston e deputato del
Partido da Social-Democracia Brasilera (PSDB), il partito di Fernando Henrique
Cardoso, quella dell’industriale Luiz Furlan come ministro dello Sviluppo e
quella di Roberto Rodrigues, rappresentante dell’agrobusiness, al
Ministero dell’Agricoltura, possono essere indicativi di ciò che accadrà
L’indicazione di Meirelles è stata particolarmente
irritante per i movimenti sociali. Il nuovo presidente del Banco Central ha
portato all’interno del nuovo governo il punto di vista degli investitori
internazionali, come lui stesso esige evidenziare:
“Oggi la tassa sugli interessi in Brasile è, in realtà,
decisa a New York o a Londra, e la gente qui in Brasile non conosce il mercato
di là. Io ho vissuto gli ultimi sei anni a Boston, seguendo e analizzando i
mercati internazionali, effettuando operazioni in Brasile, Argentina, Cile,
Messico, Corea, Indonesia e Hong Kong. Ho operato tutto il tempo in questi
mercati, La mia visione della gestione della crisi è molto più ampia della
maggior parte della gente qui in Brasile. Presso BankBoston Corporation, io
ero responsabile della tesoreria. Ero responsabile del tavolo delle
operazioni, e non solo di quello dei mercati emergenti, ma anche di quello
americano. La posizione che io gestivo là era più grande di quella che io
gestisco qui al Banco Central. Alla BankBoston gestivo 80 miliardi di dollari
e in Fleet 200 miliardi” (Barros, 2002).
Nella discussione avvenuta al Senato, Meirelles aveva
reiterato il suo discorso e aveva affermato che la sua gestione del BC sarebbe
stata segnata dalla continuità: “Se stiamo seguendo la politica del signor
Armínio Fraga [presidente del BC durante il governo Cardoso]? Si”, e poi per
concludere aveva affermato, riferendosi all’amministrazione dell’ex
presidente, “è una politica economica che condusse il Brasile verso
considerevoli progressi economici” (Folha de S. Paulo, 18 dicembre
2002). L’indicazione di Meirelles aveva generato le prime proteste provenienti
dalla sinistra. La senatrice petista Heloísa Helena aveva affermato che non
avrebbe sostenuto la candidatura del nuovo presidente del BC al Senato, neanche
sotto tortura. Anche dopo le pubbliche minacce del nuovo ministro della Casa
Civil, José Dirceu, la senatrice aveva mantenuto la sua posizione e non era
comparsa alle votazioni.
L’episodio, che coinvolge l’elezione del nuovo capo del
BC e la senatrice Heloísa Melena è indice delle tensioni che esistono nella
gestione della condizione presente e le aspettative per il futuro.
Come abbiamo messo in evidenza precedentemente, i risultati
elettorali del 2002 sono stati espressione di un profondo desiderio di mutamento
delle condizioni sociali e di un nuovo rapporto tra forze sociali. Questo
desiderio di mutamento è incompatibile con la continuità delle politiche
economiche neoliberali. Un’azione energica e immediata da parte del nuovo
governo sulla questione delle negoziazioni nell’Alca e sul dibattito per il
salario minimo, che segnalino, da un lato un atteggiamento volto ad affrontare
la politica estera nordamericana e dall’altro un’inversione di tendenza
nelle priorità della politica economica, avrebbero un impatto profondo e
potrebbero agire come catalizzatore per un processo di riattivazione dei
movimenti sociali, volto a sostegno di una trasmutazione nei contenuti e nelle
forme politiche.
Tale atteggiamento indicherebbe la possibilità di un
mutamento nel progetto sociale brasiliano, diventando elemento di rottura con i
padroni delle disuguaglianze sociali e della subordinazione esterna, prevalsi
fino ad ora. Ma questo atteggiamento implica una strategia di confronto teorico
e sociale, un rinnovamento pragmatico militante, che si sostituisce agli appelli
per una transizione passiva e graduale, portata all’estremo da una politica
antirivoluzionaria passiva in grado di opporre all’ordine attuale del capitale
una “antitesi vigorosa” (Gramsci, 1975, p. 1827). La costruzione di questa
“antitesi vigorosa” sul campo della politica e della teoria è la
disgregazione, più attuale che mai, della sinistra brasiliana.
[1] Vedere per esempio
Sader (1995)
[2] Per una critica del pragmatismo
politico in Brasile, vedere le indicazioni di Lessa (1994).
[3] Per una critica dello Stato
ambivalente, vedere cap. V de Braga (2003).