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Tendenze della competizione globale

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José Luis Fiori
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Professore all’Università di S. Paulo (Brasile)

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Sul potere globale e l’egemonia

José Luis Fiori

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“La mera preservazione dell’esistenza sociale esige, nella libera competizione, una espansione costante. Chi non sale cade. E l’espansione significa il dominio sui più vicini e la loro riduzione a stato di dipendenza (...) In termini molto rigorosi, ciò che abbiamo è un meccanismo sociale molto semplice che, una volta posto in movimento, funziona con la regolarità di un orologio.”

Norbert Elias, Processo Civilizzatore, p. 94

1. Egemonie, regimi e governi internazionali

Fu all’inizio degli anni ’70, che Charles Kindelberg e Robert Gilpin formularono la tesi fondamentale che poi si chiamò della “teoria della stabilità egemonica”. Il mondo affrontava le prime manifestazioni della crisi internazionale che seguì la fine del Sistema di Bretton Woods e la sconfitta degli Stati Uniti nel Vietnam, ed i due autori erano preoccupati che si ripetesse la crisi e la grande depressione degli anni 30, per mancanza di una leadership mondiale. Fu allora che Kindelberger affermò che il buon funzionamento di “una economia liberale mondiale, ha bisogno di uno stabilizzatore; un solo paese stabilizzatore”. Un paese che assumesse la responsabilità e provvedesse il sistema mondiale di alcuni “beni pubblici” indispensabili per il loro funzionamento, come è nel caso di una moneta internazionale e del libero commercio, o della coordinazione delle politiche economiche nazionali e della promozione delle politiche anti-cicliche di efficacia globale. La tesi di Kindelberg aveva una natura chiaramente normativa, ma si appoggiava su una lettura teorica e comparativa della storia del sistema capitalista. Come sintetizzò Robert Gilpin: “l’esperienza storica suggerisce che in assenza di una potenza liberale dominante, la cooperazione economica internazionale si mostra estremamente difficile da raggiungere o da mantenere...”

Kindelberg parlò inizialmente di una “leadership” o “supremazia”, ma poi, un numero sempre maggiore di autori passò ad utilizzare il concetto di “egemonia mondiale”. A volte, con la connotazione pura e semplice di un potere al di sopra di tutti gli altri poteri, altre volte, con una connotazione più “gramsciana”, di un potere globale legittimato dalla maggior parte degli altri stati, grazie all’efficacia “convergente” dei loro governi mondiali.

La tesi non era completamente nuova, già era stata formulata quasi letteralmente da Edward Carr, nel 1939, nel suo saggio classico sul “The twenty years crises”. Carr era un realista e stava discutendo il problema della Pace tra stati sovrani - nel momento in cui cominciava la Seconda Guerra Mondiale - ma la sua conclusione era molto simile a quella di Kindelberger e Gilpin: “the condition of international ligislation is the world super-state”(1939: p211). Una traduzione verso il campo internazionale del vecchio e conosciuto argomento hobbesiano: “ prima che si determini il giusto e l’ingiusto ci deve essere della forza coercitiva”. Alcuni anni dopo, Raymond Aron dirà praticamente la stessa cosa, nell’affermare che non potrà esserci pace mondiale “fin quando l’umanità non si sarà unita in uno Stato Universale” (1962: p 47). Aron privilegiava “l’impero della legge”, con la visione cosmopolita e liberale di Kant, ma riconosceva l’importanza della “politica di potere”, come anche Kant che a suo tempo disse, che “l’uomo è un animale che vivendo tra altri della stessa specie, ha la necessità di un signore che lo obblighi ad obbedire ad un volere universalmente valido”. Tutti stavano parlando della preservazione della pace e non del buon funzionamento dell’economia internazionale, come Kindelberger e Gilpin, ma tutti riconoscono, in ultima istanza, la necessità di un potere politico sopranazionale come condizione di un ordine mondiale stabile, sia esso economico o politico.

Durante gli anni ottanta, la “teoria della stabilità egemonica” fu sottomessa ad una critica minuziosa per le sue inconsistenze teoriche e storiche (Mc Keown, 1983; Ragowski, 1983; Stein, 1984; Russet, 1985; Snidal, 1985; Strange, 1987; Walter, 1993). Vari autori sostennero l’idea che l’Inghilterra avesse promosso intenzionalmente, nel secolo XIX, l’adesione della maggior parte dei paesi al modello-oro; e dimostrarono storicamente, che nella maggior parte dei casi il comportamento dei paesi egemonici si orientò verso i propri interessi nazionali, trasformandosi, a volte, in ostacolo più che in condizione di stabilità internazionale.

Suzan Strange, in particolare, mostrò come le crisi che si ebbero sistematicamente durante la storia furono causate da fattori interni alla società e all’economia egemonica molto più che dai comportamenti dei paesi che usufruiscono e contestano il sistema. Sulla stessa linea di Strange, l’inglese Andrew Walter conclude “the hegemonic function of rule provision and maintenance was seen to be of limited descriptive value. The distinction between roles of rule enforcement, the encouragement of policy coordination between states and the management and prudential supervision of the international monetary and financial system enabled us better to understand the different claims have been made for hegemony”. (1993; p. 249)

D’altra parte, anche la storia di questi ultimi decenni del secolo XX, ha contraddetto la “teoria della stabilità egemonica”. In questi ultimi trent’anni, in particolare dalla seconda metà degli anni 80, il mondo è stato sotto la “leadership” incontestabile di una sola potenza orientata da un forte commitment liberal. Come proponeva Kindelberger, durante questo periodo, gli Stati Uniti arbitrarono isolatamente il sistema monetario internazionale, hanno promosso attivamente l’apertura e la deregolamentazione delle economie nazionali e il libero commercio, hanno incentivato la convergenza delle politiche macro-economiche, e si sono comportati, per lo meno in parte, come last resort lender in tutte le crisi finanziarie che hanno sconvolto il mondo dei commerci, mantenendo, allo stesso tempo, un potere incontrastato sul piano industriale, tecnologico, militare, finanziario e culturale.

Nonostante tutto ciò, il mondo ha vissuto in questo periodo, una congiuntura di grande instabilità sistematica, nel campo finanziario come sul terreno delle relazioni politico-militari.

A dispetto delle critiche teoriche e le inconsistenze storiche, la preoccupazione iniziale di Kindelberger e Gilpin si trasformò nel denominatore comune di una estesa letteratura, soprattutto negli Stati Uniti, sulla “crisi dell’egemonia nord-americana”. E la sua tesi universale rispetto alla necessità mondiale di “paesi stabilizzatori” o “egemonici” si trasformò, durante un lungo dibattito accademico sul concetto e le funzioni delle “egemonie mondiali”, che si prolungò tempo dopo, nella discussione su quello che si passò a chiamare del “governo globale”. Da un lato, si allinearono, dall’inizio, i “realisti” o “neo-realisti” di vari tipi, approfondendo la discussione sull’origine e il potere degli stati egemonici e sulle forme della loro “gestione globale”, basata sulla capacità materiale e sul controllo delle materie prime strategiche, dei capitali d’investimento, delle tecnologie di punta, delle armi e dell’informazione. Kindelberger e Gilpin appartenevano a questo gruppo inaugurato da Robert Carr. Ma tra loro c’erano anche gli “strutturalisti”, come Suzan Strange, che criticavano la teoria della stabilità egemonica, ma riconoscevano l’esistenza di “poteri strutturali globali”, controllati da successive potenze dominanti, e capaci di indurre comportamenti collettivi, senza necessità dell’uso della forza. Allo stesso modo un gruppo di autori marxisti o neo-marxisti, come Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi, che partivano dal concetto del “Modern World System”, per concludere che la competizione tra gli stati nazionali europei non degenerò in caos politici e economici, solo grazie al comando, durante gli ultimi 500 anni, di tre grandi potenze egemoniche che furono capaci di organizzare o “governare” il funzionamento gerarchico del sistema mondiale creato in Europa, durante il secolo XVI. Una specie di “cicli egemonici” comandati successivamente, dalle Province Unite, nel secolo XVII; dalla Gran Bretagna, nel secolo XIX, e dagli Stati Uniti, nel secolo XX. Più recentemente, Antonio Negri e Michael Hardt hanno introdotto nel campo marxista la tesi secondo la quale il mondo già sarebbe governato da una nuova forma di “impero” post-nazionale, una specie originale di “super-struttura politica” corrispondente ad una economia mondiale che già sarebbe stata globalizzata dall’azione denazionalizzante del “Capitale”.

In una posizione opposta a quella dei realisti, si collocarono, fin dall’inizio del dibattito, i “liberali”o “pluralisti” come Joseph Nye e Robert Keohane, veri creatori dell’idea del “governo globale”. Erano convinti, come Negri e Hardt, molto più tardi, della perdita d’importanza degli stati nazionali e della possibilità della creazione di un nuovo ordine politico ed economico mondiale, stabilizzato e gestito con base nei “regimi sopranazionali” legittimi, capaci di funzionare con efficacia anche nell’assenza di potenze egemoniche. Veri “networks of rules, norms and procedures that regularize behaviour and control effects... that once established will be difficult either to eradicate or dramatically to rearrange” (1977; p. 19 e 55). Ma gli stessi Keohane e Nye riconoscevano l’esistenza di situazioni “where there are no agreed norms and procedures or when the exceptions to the rules are more important than the instances of adherence” (1977, p. 20).

In questi casi, la gerarchia e il potere degli stati continuerebbero ad essere decisivi per la definizione dei regimi e delle soluzioni imposte alla comunità internazionale. Una determinazione necessaria ma che riapre il problema della coordinazione o governo di un sistema che continua ad essere interstatale. Raymond Aron cercò di risolvere questa difficoltà proponendo una distinzione tra due tipi di sub-sistemi internazionali che coesisterebbero lato a lato. Uno più “omogeneo” e l’altro più “eterogeneo”, a seconda dal grado col quale gli stati coinvolti condividano o meno le stesse concezioni e valori internazionali. Ma Raymond Aron non riesce a spiegare perché le grandi divergenze e le guerre si ebbero sempre nei sistemi “omogenei”, ciò rinforza la tesi realista che afferma l’impossibilità di un governo mondiale, senza una chiara definizione della supremazia tra le Grandi Potenze.

Riassumendo, non c’è dubbio che la teoria della stabilità egemonica non resiste alla prova della storia, ed i concetti di “egemonia” e “cicli egemonici” sembrano eccessivamente associati ad una visione funzionalista del Sistema Mondiale. Come se “l’egemone” fosse un “ente virtuale” più che reale, una specie di esigenza funzionale del sistema politico, creato dalla Pace di Vestfalia, e dal sistema economico creato dall’espansione e globalizzazione delle economie nazionali europee: l’esigenza funzionale di un “potere stabilizzatore” dell’economia, e di un “potere pacificatore” delle relazioni tra gli stati sovrani.

Ma chi furono attraverso la storia questi poteri o gestori globali? Come definirono le norme e regole proprie dei “regimi di governo mondiale”? Qual’è la relazione che esiste tra questi poteri con il processo di globalizzazione dei mercati e dell’economia capitalista? Sono domande che non hanno risposta a meno che non si faccia una ricostruzione analitica attenta del processo di organizzazione dei primi stati e economie nazionali che furono capaci d’espandersi al difuori, e imporre la loro leadership o egemonia sulla maggior parte degli altri stati del Sistema Mondiale.

2.Origine ed espansione del potere e dell’economia globale

Nello studiare la formazione dei primi “mercati nazionali” europei, nel terzo volume della sua storia della “Civilizzazione Materiale, Economia e Capitalismo dei secoli XV-XVIII”, Fernand Braudel sostiene la tesi secondo la quale “ l’economia nazionale è uno spazio politico che fu trasformato dallo Stato, dovuto alle necessità e alle innovazioni della vita materiale, in uno spazio economico coerente, unificato, le cui attività passarono a svolgersi uniformemente verso la stessa direzione”(1985; p. 82). Pertanto, per Braudel, i “mercati”e le “economie nazionali” furono creati dal potere politico dello stato nazionale. Furono un’opera di potere e una strategia politica dello Stato, che modella il nuovo “spazio economico” dall’interno di un congiunto più ampio e pre-esistente, che Braudel chiamò “dell’economia-mondo europea”. Karl Marx descrive questo stesso momento della nascita dell’economia nazionale inglese, nel capitolo XXIV del suo Capitale, sul processo dell’Accumulazione Originaria:”le diverse tappe dell’accumulazione originaria ebbero il loro centro, con ordine cronologico più o meno preciso, in Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Ma fu in Inghilterra, alla fine del secolo XVII, che questo processo si riassunse e sintetizzò sistematicamente nel “sistema coloniale”, nel “sistema del debito pubblico”, nel “moderno sistema tributario” e nel “sistema protezionista”.

In gran misura, tutti questi metodi si basano nella più oppressiva delle forze. Tutti loro si avvalgono del potere dello stato.”(1980: p. 638) In questo nuovo contesto economico nazionale, diceva Marx, “il debito pubblico si converte in una delle più ponderose leve dell’accumulazione originaria. Funziona come una bacchetta magica che infonde virtù procreatrice al denaro improduttivo e lo converte in capitale senza esporlo ai rischi...come se fosse un capitale piovuto dal cielo...”(idem; p. 685)

La relazione tra il Potere ed il Denaro, o tra i Principi e i Banchieri è molto antica, e risale alle città del nord d’Italia, dove nasce il sistema bancario moderno legato al commercio di lunga distanza e all’amministrazione dei debiti del Vaticano. Da li vengono i primi prestiti per le guerre dei capi del potere, come Edoardo II d’Inghilterra, che si indebitò con la Banca di Siena, nel secolo XIV, per finanziare la presa del paese dei Galli. Uscì vittorioso dalla guerra, ma non pagò il suo debito e portò il sistema bancario di Siena al fallimento, trasferendo a Firenze, l’egemonia finanziaria dell’Italia. La stessa cosa si ripeté più volte, come nella relazione di Carlo V con i banchieri tedeschi che finanziavano l’espansione continua delle loro guerre e territori, fin quando egli decretò la moratoria del 1557, responsabile del fallimento della Casa dei Fuergers. Ma ciò che Marx descrive nel secolo XVII, è una relazione assolutamente differente tra il potere e il denaro, che fu possibile soltanto dopo la “rivoluzione economica”, di cui parla Braudel. Una volta che l’Inghilterra costituì una sua economia nazionale, la relazione tra i governanti e i banchieri cambiò natura. Non si trattava più di una relazione e di un indebitamento personale del Principe con una casa bancaria di una qualunque nazionalità. In questa nuova realtà, la relazione di indebitamento era tra lo stato e le banche di una stessa unità territoriale, o di una stessa economia nazionale, per questo, il Debito Pubblico era interno, amministrato da un modello precursore della Banca Centrale e poté trasformarsi nella base del sistema bancario e di credito dell’Inghilterra. Come conseguenza, nasce un”interesse nazionale” inglese, che è simultaneamente economico e politico, e questa unità si trasforma in una forza propulsiva gigantesca e senza eguali nella storia passata dell’accumulazione del potere e della ricchezza, una forza che oltrapasserà le frontiere nazionali dell’Inghilterra. Fu un vero salto qualitativo nella storia del potere, del denaro e del sistema mondiale. Cominciò in quel momento, la scalata del potere nazionale inglese, verso il potere globale, o della egemonia mondiale. Ed è questa espansione che creerà le basi “materiali” di una nuova “economia mondiale”, differente dall’“economia-mondo” della quale parla Braudel, che ancora era organizzata attorno alle grandi città mercantili dell’Italia e del nord Europa. All’epoca di questa rivoluzione l’Inghilterra non era sola. Al contrario, già esisteva un “sistema politico” ed una rete di stati europei, che si consolidarono, dal secolo XIV, attraverso una successione quasi infinita di conflitti che culminarono nella “Guerra dei 30 Anni”, tra il 1618 ed il 1648, vera culla delle sovranità nazionali. Con la Pace di Vestfalia, firmata nel 1648, si consacrò il principio della “sovranità nazionale” e si diede inizio al “sistema politico-statale europeo”. Ma, nel consacrare il principio della sovranità, creò un sistema di potere anarchico, dove l’esercizio “dell’equilibrio di potere” o della guerra si trasformarono nelle due forme conosciute e possibili di risoluzione dei conflitti tra gli stati sovrani. Una prima forma primitiva di governo sopranazionale. Pertanto, il nuovo sistema statale nacque competitivo mosso dalla possibilità permanente della guerra.

È in questo contesto, che si deve comprendere la radicalizzazione del mercantilismo inglese, praticato da Cromwell subito dopo la rivoluzione del 1648. In quel momento, creare un’economia nazionale, fu soprattutto una strategia di guerra, di un paese inferiore rispetto al potere economico olandese, e di fronte al potere militare di Luigi XIV. A partire da lì, e dall’esplosione del potere inglese, la maggior parte degli stati europei tentarono di ripetere la stessa strategia, moltiplicando così il numero delle economie nazionali, ma già allora, senza lo stesso successo degli inglesi. In sintesi, le prime “economie nazionali” nacquero come una strategia difensiva di guerra, dei primi stati territoriali europei, e dopo si trasformarono in una imposizione del sistema politico inter-statale la cui regola numero uno, era la continuità e intensificazione permanente della competizione politico-militare tra i suoi stati-membri. Come risultato, dall’inizio, il sistema politico europeo poggiò sul controllo compartito o competitivo di un piccolo numero di stati che imposero alla maggior parte la loro leadership politico-militare ed economica. Furono le grandi potenze, che non furono mai più di sei o sette e che si trasformarono, fin dal principio, nel nucleo dominante di tutto il sistema. All’inizio del secolo XVIII, dopo la decadenza di Portogallo, Spagna, Svezia e Polonia, il potere restò confinato a Francia, Olanda, Inghilterra, Russia, Austria e Prussia, delimitati dalle loro frontiere militarizzate con l’impero Ottomano. Ma anche tra loro esisteva una gerarchia, dove si distingueva tra tutte, la Francia di Luigi XIV, al lato dell’Olanda e dell’Inghilterra. Nel 1478, Federico II di Prussia diceva, senza dubbio “l’Inghilterra e la Francia con la loro volontà determinano ciò che succede in Europa”. D’altra parte, la mobilità in questo sistema è stata sempre molto lenta, e le “barriere all’entrata” di nuovi “soci”, create dalle potenze vincitrici, furono sempre molto alte.


[1] Questo lavoro è stato scritto per il Seminario “the first Conference Innovation Systems and Development Strategies for the Third Millenium”, realizzato a Rio de Janeiro, dal 3 al 5 novembre 2003 e inviato a Proteo per la pubblicazione autorizzata.