“La mera preservazione dell’esistenza sociale
esige, nella libera competizione, una espansione costante. Chi non sale
cade. E l’espansione significa il dominio sui più vicini e la loro
riduzione a stato di dipendenza (...) In termini molto rigorosi, ciò
che abbiamo è un meccanismo sociale molto semplice che, una volta posto
in movimento, funziona con la regolarità di un orologio.”
Norbert Elias, Processo Civilizzatore, p. 94
1. Egemonie, regimi e governi internazionali
Fu all’inizio degli anni ’70, che Charles Kindelberg e
Robert Gilpin formularono la tesi fondamentale che poi si chiamò della “teoria
della stabilità egemonica”. Il mondo affrontava le prime manifestazioni della
crisi internazionale che seguì la fine del Sistema di Bretton Woods e la
sconfitta degli Stati Uniti nel Vietnam, ed i due autori erano preoccupati che
si ripetesse la crisi e la grande depressione degli anni 30, per mancanza di una
leadership mondiale. Fu allora che Kindelberger affermò che il buon
funzionamento di “una economia liberale mondiale, ha bisogno di uno
stabilizzatore; un solo paese stabilizzatore”. Un paese che assumesse la
responsabilità e provvedesse il sistema mondiale di alcuni “beni pubblici”
indispensabili per il loro funzionamento, come è nel caso di una moneta
internazionale e del libero commercio, o della coordinazione delle politiche
economiche nazionali e della promozione delle politiche anti-cicliche di
efficacia globale. La tesi di Kindelberg aveva una natura chiaramente normativa,
ma si appoggiava su una lettura teorica e comparativa della storia del sistema
capitalista. Come sintetizzò Robert Gilpin: “l’esperienza storica
suggerisce che in assenza di una potenza liberale dominante, la cooperazione
economica internazionale si mostra estremamente difficile da raggiungere o da
mantenere...”
Kindelberg parlò inizialmente di una “leadership” o “supremazia”,
ma poi, un numero sempre maggiore di autori passò ad utilizzare il concetto di
“egemonia mondiale”. A volte, con la connotazione pura e semplice di un
potere al di sopra di tutti gli altri poteri, altre volte, con una connotazione
più “gramsciana”, di un potere globale legittimato dalla maggior parte
degli altri stati, grazie all’efficacia “convergente” dei loro governi
mondiali.
La tesi non era completamente nuova, già era stata formulata
quasi letteralmente da Edward Carr, nel 1939, nel suo saggio classico sul “The
twenty years crises”. Carr era un realista e stava discutendo il problema
della Pace tra stati sovrani - nel momento in cui cominciava la Seconda Guerra
Mondiale - ma la sua conclusione era molto simile a quella di Kindelberger e
Gilpin: “the condition of international ligislation is the world super-state”(1939:
p211). Una traduzione verso il campo internazionale del vecchio e conosciuto
argomento hobbesiano: “ prima che si determini il giusto e l’ingiusto ci
deve essere della forza coercitiva”. Alcuni anni dopo, Raymond Aron dirà
praticamente la stessa cosa, nell’affermare che non potrà esserci pace
mondiale “fin quando l’umanità non si sarà unita in uno Stato Universale”
(1962: p 47). Aron privilegiava “l’impero della legge”, con la visione
cosmopolita e liberale di Kant, ma riconosceva l’importanza della “politica
di potere”, come anche Kant che a suo tempo disse, che “l’uomo è un
animale che vivendo tra altri della stessa specie, ha la necessità di un
signore che lo obblighi ad obbedire ad un volere universalmente valido”. Tutti
stavano parlando della preservazione della pace e non del buon funzionamento
dell’economia internazionale, come Kindelberger e Gilpin, ma tutti
riconoscono, in ultima istanza, la necessità di un potere politico
sopranazionale come condizione di un ordine mondiale stabile, sia esso economico
o politico.
Durante gli anni ottanta, la “teoria della stabilità
egemonica” fu sottomessa ad una critica minuziosa per le sue inconsistenze
teoriche e storiche (Mc Keown, 1983; Ragowski, 1983; Stein, 1984; Russet, 1985;
Snidal, 1985; Strange, 1987; Walter, 1993). Vari autori sostennero l’idea che
l’Inghilterra avesse promosso intenzionalmente, nel secolo XIX, l’adesione
della maggior parte dei paesi al modello-oro; e dimostrarono storicamente, che
nella maggior parte dei casi il comportamento dei paesi egemonici si orientò
verso i propri interessi nazionali, trasformandosi, a volte, in ostacolo più
che in condizione di stabilità internazionale.
Suzan Strange, in particolare, mostrò come le crisi che si
ebbero sistematicamente durante la storia furono causate da fattori interni alla
società e all’economia egemonica molto più che dai comportamenti dei paesi
che usufruiscono e contestano il sistema. Sulla stessa linea di Strange, l’inglese
Andrew Walter conclude “the hegemonic function of rule provision and
maintenance was seen to be of limited descriptive value. The distinction between
roles of rule enforcement, the encouragement of policy coordination between
states and the management and prudential supervision of the international
monetary and financial system enabled us better to understand the different
claims have been made for hegemony”. (1993; p. 249)
D’altra parte, anche la storia di questi ultimi decenni del
secolo XX, ha contraddetto la “teoria della stabilità egemonica”. In questi
ultimi trent’anni, in particolare dalla seconda metà degli anni 80, il mondo
è stato sotto la “leadership” incontestabile di una sola potenza orientata
da un forte commitment liberal. Come proponeva Kindelberger, durante
questo periodo, gli Stati Uniti arbitrarono isolatamente il sistema monetario
internazionale, hanno promosso attivamente l’apertura e la deregolamentazione
delle economie nazionali e il libero commercio, hanno incentivato la convergenza
delle politiche macro-economiche, e si sono comportati, per lo meno in parte,
come last resort lender in tutte le crisi finanziarie che hanno sconvolto
il mondo dei commerci, mantenendo, allo stesso tempo, un potere incontrastato
sul piano industriale, tecnologico, militare, finanziario e culturale.
Nonostante tutto ciò, il mondo ha vissuto in questo periodo,
una congiuntura di grande instabilità sistematica, nel campo finanziario come
sul terreno delle relazioni politico-militari.
A dispetto delle critiche teoriche e le inconsistenze
storiche, la preoccupazione iniziale di Kindelberger e Gilpin si trasformò nel
denominatore comune di una estesa letteratura, soprattutto negli Stati Uniti,
sulla “crisi dell’egemonia nord-americana”. E la sua tesi universale
rispetto alla necessità mondiale di “paesi stabilizzatori” o “egemonici”
si trasformò, durante un lungo dibattito accademico sul concetto e le funzioni
delle “egemonie mondiali”, che si prolungò tempo dopo, nella discussione su
quello che si passò a chiamare del “governo globale”. Da un lato, si
allinearono, dall’inizio, i “realisti” o “neo-realisti” di vari tipi,
approfondendo la discussione sull’origine e il potere degli stati egemonici e
sulle forme della loro “gestione globale”, basata sulla capacità materiale
e sul controllo delle materie prime strategiche, dei capitali d’investimento,
delle tecnologie di punta, delle armi e dell’informazione. Kindelberger e
Gilpin appartenevano a questo gruppo inaugurato da Robert Carr. Ma tra loro c’erano
anche gli “strutturalisti”, come Suzan Strange, che criticavano la teoria
della stabilità egemonica, ma riconoscevano l’esistenza di “poteri
strutturali globali”, controllati da successive potenze dominanti, e capaci di
indurre comportamenti collettivi, senza necessità dell’uso della forza. Allo
stesso modo un gruppo di autori marxisti o neo-marxisti, come Immanuel
Wallerstein e Giovanni Arrighi, che partivano dal concetto del “Modern World
System”, per concludere che la competizione tra gli stati nazionali europei
non degenerò in caos politici e economici, solo grazie al comando, durante gli
ultimi 500 anni, di tre grandi potenze egemoniche che furono capaci di
organizzare o “governare” il funzionamento gerarchico del sistema mondiale
creato in Europa, durante il secolo XVI. Una specie di “cicli egemonici”
comandati successivamente, dalle Province Unite, nel secolo XVII; dalla Gran
Bretagna, nel secolo XIX, e dagli Stati Uniti, nel secolo XX. Più recentemente,
Antonio Negri e Michael Hardt hanno introdotto nel campo marxista la tesi
secondo la quale il mondo già sarebbe governato da una nuova forma di “impero”
post-nazionale, una specie originale di “super-struttura politica”
corrispondente ad una economia mondiale che già sarebbe stata globalizzata dall’azione
denazionalizzante del “Capitale”.
In una posizione opposta a quella dei realisti, si
collocarono, fin dall’inizio del dibattito, i “liberali”o “pluralisti”
come Joseph Nye e Robert Keohane, veri creatori dell’idea del “governo
globale”. Erano convinti, come Negri e Hardt, molto più tardi, della perdita
d’importanza degli stati nazionali e della possibilità della creazione di un
nuovo ordine politico ed economico mondiale, stabilizzato e gestito con base nei
“regimi sopranazionali” legittimi, capaci di funzionare con efficacia anche
nell’assenza di potenze egemoniche. Veri “networks of rules, norms and
procedures that regularize behaviour and control effects... that once
established will be difficult either to eradicate or dramatically to rearrange”
(1977; p. 19 e 55). Ma gli stessi Keohane e Nye riconoscevano l’esistenza di
situazioni “where there are no agreed norms and procedures or when the
exceptions to the rules are more important than the instances of adherence”
(1977, p. 20).
In questi casi, la gerarchia e il potere degli stati
continuerebbero ad essere decisivi per la definizione dei regimi e delle
soluzioni imposte alla comunità internazionale. Una determinazione necessaria
ma che riapre il problema della coordinazione o governo di un sistema che
continua ad essere interstatale. Raymond Aron cercò di risolvere questa
difficoltà proponendo una distinzione tra due tipi di sub-sistemi
internazionali che coesisterebbero lato a lato. Uno più “omogeneo” e l’altro
più “eterogeneo”, a seconda dal grado col quale gli stati coinvolti
condividano o meno le stesse concezioni e valori internazionali. Ma Raymond Aron
non riesce a spiegare perché le grandi divergenze e le guerre si ebbero sempre
nei sistemi “omogenei”, ciò rinforza la tesi realista che afferma l’impossibilità
di un governo mondiale, senza una chiara definizione della supremazia tra le
Grandi Potenze.
Riassumendo, non c’è dubbio che la teoria della stabilità
egemonica non resiste alla prova della storia, ed i concetti di “egemonia” e
“cicli egemonici” sembrano eccessivamente associati ad una visione
funzionalista del Sistema Mondiale. Come se “l’egemone” fosse un “ente
virtuale” più che reale, una specie di esigenza funzionale del sistema
politico, creato dalla Pace di Vestfalia, e dal sistema economico creato dall’espansione
e globalizzazione delle economie nazionali europee: l’esigenza funzionale di
un “potere stabilizzatore” dell’economia, e di un “potere pacificatore”
delle relazioni tra gli stati sovrani.
Ma chi furono attraverso la storia questi poteri o gestori
globali? Come definirono le norme e regole proprie dei “regimi di governo
mondiale”? Qual’è la relazione che esiste tra questi poteri con il processo
di globalizzazione dei mercati e dell’economia capitalista? Sono domande che
non hanno risposta a meno che non si faccia una ricostruzione analitica attenta
del processo di organizzazione dei primi stati e economie nazionali che furono
capaci d’espandersi al difuori, e imporre la loro leadership o egemonia sulla
maggior parte degli altri stati del Sistema Mondiale.
2.Origine ed espansione del potere e dell’economia globale
Nello studiare la formazione dei primi “mercati nazionali”
europei, nel terzo volume della sua storia della “Civilizzazione Materiale,
Economia e Capitalismo dei secoli XV-XVIII”, Fernand Braudel sostiene la tesi
secondo la quale “ l’economia nazionale è uno spazio politico che fu
trasformato dallo Stato, dovuto alle necessità e alle innovazioni della vita
materiale, in uno spazio economico coerente, unificato, le cui attività
passarono a svolgersi uniformemente verso la stessa direzione”(1985; p. 82).
Pertanto, per Braudel, i “mercati”e le “economie nazionali” furono
creati dal potere politico dello stato nazionale. Furono un’opera di potere e
una strategia politica dello Stato, che modella il nuovo “spazio economico”
dall’interno di un congiunto più ampio e pre-esistente, che Braudel chiamò
“dell’economia-mondo europea”. Karl Marx descrive questo stesso momento
della nascita dell’economia nazionale inglese, nel capitolo XXIV del suo Capitale,
sul processo dell’Accumulazione Originaria:”le diverse tappe dell’accumulazione
originaria ebbero il loro centro, con ordine cronologico più o meno preciso, in
Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Ma fu in Inghilterra, alla
fine del secolo XVII, che questo processo si riassunse e sintetizzò
sistematicamente nel “sistema coloniale”, nel “sistema del debito pubblico”,
nel “moderno sistema tributario” e nel “sistema protezionista”.
In gran misura, tutti questi metodi si basano nella più
oppressiva delle forze. Tutti loro si avvalgono del potere dello stato.”(1980:
p. 638) In questo nuovo contesto economico nazionale, diceva Marx, “il debito
pubblico si converte in una delle più ponderose leve dell’accumulazione
originaria. Funziona come una bacchetta magica che infonde virtù procreatrice
al denaro improduttivo e lo converte in capitale senza esporlo ai rischi...come
se fosse un capitale piovuto dal cielo...”(idem; p. 685)
La relazione tra il Potere ed il Denaro, o tra i Principi e i
Banchieri è molto antica, e risale alle città del nord d’Italia, dove nasce
il sistema bancario moderno legato al commercio di lunga distanza e all’amministrazione
dei debiti del Vaticano. Da li vengono i primi prestiti per le guerre dei capi
del potere, come Edoardo II d’Inghilterra, che si indebitò con la Banca di
Siena, nel secolo XIV, per finanziare la presa del paese dei Galli. Uscì
vittorioso dalla guerra, ma non pagò il suo debito e portò il sistema bancario
di Siena al fallimento, trasferendo a Firenze, l’egemonia finanziaria dell’Italia.
La stessa cosa si ripeté più volte, come nella relazione di Carlo V con i
banchieri tedeschi che finanziavano l’espansione continua delle loro guerre e
territori, fin quando egli decretò la moratoria del 1557, responsabile del
fallimento della Casa dei Fuergers. Ma ciò che Marx descrive nel secolo XVII,
è una relazione assolutamente differente tra il potere e il denaro, che fu
possibile soltanto dopo la “rivoluzione economica”, di cui parla Braudel.
Una volta che l’Inghilterra costituì una sua economia nazionale, la relazione
tra i governanti e i banchieri cambiò natura. Non si trattava più di una
relazione e di un indebitamento personale del Principe con una casa bancaria di
una qualunque nazionalità. In questa nuova realtà, la relazione di
indebitamento era tra lo stato e le banche di una stessa unità territoriale, o
di una stessa economia nazionale, per questo, il Debito Pubblico era interno,
amministrato da un modello precursore della Banca Centrale e poté trasformarsi
nella base del sistema bancario e di credito dell’Inghilterra. Come
conseguenza, nasce un”interesse nazionale” inglese, che è simultaneamente
economico e politico, e questa unità si trasforma in una forza propulsiva
gigantesca e senza eguali nella storia passata dell’accumulazione del potere e
della ricchezza, una forza che oltrapasserà le frontiere nazionali dell’Inghilterra.
Fu un vero salto qualitativo nella storia del potere, del denaro e del sistema
mondiale. Cominciò in quel momento, la scalata del potere nazionale inglese,
verso il potere globale, o della egemonia mondiale. Ed è questa espansione che
creerà le basi “materiali” di una nuova “economia mondiale”, differente
dall’“economia-mondo” della quale parla Braudel, che ancora era
organizzata attorno alle grandi città mercantili dell’Italia e del nord
Europa. All’epoca di questa rivoluzione l’Inghilterra non era sola. Al
contrario, già esisteva un “sistema politico” ed una rete di stati europei,
che si consolidarono, dal secolo XIV, attraverso una successione quasi infinita
di conflitti che culminarono nella “Guerra dei 30 Anni”, tra il 1618 ed il
1648, vera culla delle sovranità nazionali. Con la Pace di Vestfalia, firmata
nel 1648, si consacrò il principio della “sovranità nazionale” e si diede
inizio al “sistema politico-statale europeo”. Ma, nel consacrare il
principio della sovranità, creò un sistema di potere anarchico, dove l’esercizio
“dell’equilibrio di potere” o della guerra si trasformarono nelle due
forme conosciute e possibili di risoluzione dei conflitti tra gli stati sovrani.
Una prima forma primitiva di governo sopranazionale. Pertanto, il nuovo sistema
statale nacque competitivo mosso dalla possibilità permanente della guerra.
È in questo contesto, che si deve comprendere la
radicalizzazione del mercantilismo inglese, praticato da Cromwell subito dopo la
rivoluzione del 1648. In quel momento, creare un’economia nazionale, fu
soprattutto una strategia di guerra, di un paese inferiore rispetto al potere
economico olandese, e di fronte al potere militare di Luigi XIV. A partire da
lì, e dall’esplosione del potere inglese, la maggior parte degli stati
europei tentarono di ripetere la stessa strategia, moltiplicando così il numero
delle economie nazionali, ma già allora, senza lo stesso successo degli
inglesi. In sintesi, le prime “economie nazionali” nacquero come una
strategia difensiva di guerra, dei primi stati territoriali europei, e dopo si
trasformarono in una imposizione del sistema politico inter-statale la cui
regola numero uno, era la continuità e intensificazione permanente della
competizione politico-militare tra i suoi stati-membri. Come risultato, dall’inizio,
il sistema politico europeo poggiò sul controllo compartito o competitivo di un
piccolo numero di stati che imposero alla maggior parte la loro leadership
politico-militare ed economica. Furono le grandi potenze, che non furono mai
più di sei o sette e che si trasformarono, fin dal principio, nel nucleo
dominante di tutto il sistema. All’inizio del secolo XVIII, dopo la decadenza
di Portogallo, Spagna, Svezia e Polonia, il potere restò confinato a Francia,
Olanda, Inghilterra, Russia, Austria e Prussia, delimitati dalle loro frontiere
militarizzate con l’impero Ottomano. Ma anche tra loro esisteva una gerarchia,
dove si distingueva tra tutte, la Francia di Luigi XIV, al lato dell’Olanda e
dell’Inghilterra. Nel 1478, Federico II di Prussia diceva, senza dubbio “l’Inghilterra
e la Francia con la loro volontà determinano ciò che succede in Europa”. D’altra
parte, la mobilità in questo sistema è stata sempre molto lenta, e le “barriere
all’entrata” di nuovi “soci”, create dalle potenze vincitrici, furono
sempre molto alte.
[1] Questo lavoro è stato scritto per il Seminario “the first Conference Innovation Systems and Development Strategies for the Third Millenium”, realizzato a Rio de Janeiro, dal 3 al 5 novembre 2003 e inviato a Proteo per la pubblicazione autorizzata.