1. Il sistema universitario e la politica per il suo funzionamento
er molti giorni ho cercato un bandolo da cui partire per una
riflessione sull’Università e il suo stato di salute. Le mie difficoltà a trovarlo
nascono da almeno due motivi. Uno personale: rispetto all’argomento avverto
come miei diversi ruoli. La compagna che diffida del vento liberista che spira
anche sull’Università, la docente che vede sempre più restringersi lo spazio
del confronto nel luogo di lavoro, la lavoratrice de “La Sapienza” che non accetta
che fatti gravi di cronaca, di costume e malcostume siano stati presentati come
ennesimo risultato della natura di piovra immonda del 1° ateneo romano, ma anche
la madre che vede nei propri figli un esempio di cattivo inserimento nell’università
(la colpa è mia, loro o del sistema?!!). Appena decido da quale punto di vista
partire, avverto il disagio di non cominciare da altro.
Un secondo motivo però, lo ascrivo al Ministro della ricerca
scientifica, continua a lanciare parole d’ordine in troppe direzioni: verrà
attuata una riforma dell’organizzazione dei corsi e dei titoli di studio, saranno
modificati i rapporti tra struttura centrale e sedi universitarie, le facoltà
daranno vita a forme contrattuali con i propri studenti, che da discenti diverranno
consapevoli contraenti del sapere, scompariranno i mega atenei, causa di ogni
male, in futuro oltre all’Autonomia avremo il Campus, il Cub, la Flessibilità,
la Valutazione, la Contrattazione....
Il ministro dichiara che “l’università deve riappropriarsi
della sua primaria funzione storica: la formazione dei quadri professionali
per la società”, (a meno che non sia indicato esplicitamente, tutte le frasi
virgolettate nel testo sono tratte da documenti firmati dal Ministro) chi ce
l’aveva rubata e cosa abbiamo fatto nel frattempo, noi e il nostro ministro,
professore e già rettore, cui non è mai mancata autorità in merito?
Eppure la flessibilità nel sistema formativo universitario
e il principio dell’autonomia dei singoli atenei erano già in leggi fondamentali,
la legge n.382 del 1980, la n. 168 del 1989 e quella del 1990, la n.341 nota
come legge Ruberti; non era meglio, anche per l’immagine della nostra classe
dirigente, indicare i punti di continuità e innovazione con quanto già iniziato
e non condotto a termine?
A titolo d’esempio di seguito mi riferisco alla questione dei
diplomi universitari, i corsi triennali, che senz’altro hanno costituito per
il nostro ordinamento un importante punto di svolta. Una questione su cui sia
il ministro che i suoi consiglieri sono spesso intervenuti e che credo di conoscere
abbastanza bene, anche perché in un corso di diploma insegno.
Rileggendo la 341, si poteva dar vita alla prevista regolamentazione
in tema di validità concorsuale del titolo di diploma universitario, volendo
si potevano dare le necessarie indicazioni ai Ministeri competenti, in armonia
con quanto previsto dall’articolo 9, comma 5 della legge 341.
Tra questi il Ministero della funzione pubblica, visto che
i diplomi universitari, pur diretti alla formazione di profili professionali,
ancora non trovano una corrispondente definizione negli ordinamenti del pubblico
impiego e neppure nella classificazione di quello privato. Ha dato direttive
all’ARAN (agenzia che stipula i contratti per la PA) affinché la posizione del
diplomato universitario trovi un riscontro negli ordinamenti (carriere e qualifiche)
delle amministrazioni pubbliche?
Il Ministro del lavoro ha provveduto affinché in sede di Uffici
di collocamento sia contemplata la qualifica professionale corrispondente al
diploma universitario?
E infine il Ministro della ricerca scientifica si è fatto carico
del problema dell’effettivo inserimento produttivo dei diplomati, prevedendo
forme d’informazione in ogni ambito lavorativo? Ma soprattutto, siamo sicuri
che tutti i corsi di diploma universitario corrispondano a figure professionali
di cui si avverte l’effettiva necessità nel mondo della produzione e nel sistema
economico?
Niente di tutto questo, che io sappia; però, in una intervista
di cui ho purtroppo perduto la documentazione, il Ministro avrebbe detto che
l’esperienza dei Diplomi Universitari è, almeno per ora, fallita. Dove sono
le analisi che ci confermano il fallimento di quella che, visto la natura profondamente
innovativa dei nuovi corsi “brevi” rispetto la nostra tradizionale organizzazione
didattica, è un’esperienza che, nella maggior parte dei casi, non ha ancora
avuto il tempo di uscire da una fase di sperimentazione?
Ma veniamo al merito di quanto il Ministro ci propone.
Le dichiarazioni d’intenti, sono esplicitamente presentate
in modo non organico, come “somma di principi ispiratori” e non atti di riforma,
su cui per altro ci è stata a volte consegnata solo o poco più di una parola
d’ordine.
E’ poco per aprire una discussione organica, ma una discussione
va aperta comunque vista la riconosciuta centralità del problema universitario
per lo sviluppo della società.
Per farlo occorre necessariamente partire da alcune considerazioni
di fatto.
2. Le difficoltà del sistema
Parto da un fatto incontrovertibile: circa il 70 % degli studenti
iscritti all’università rinuncerà allo studio universitario, dopo un periodo
più o meno lungo (e crescente) di permanenza e avendo spesso cercato di superare
e qualche volta aver superato esami. Anche il numero di esami superati dagli
studenti che abbandonano gli studi è crescente e non credo proprio che si possa
dire semplicisticamente che si tratta di ragazzi poco motivati. Chiunque abbia
analizzato dati sul rendimento dello studio universitario, non può non essere
rimasto impressionato ed essersi almeno chiesto se non fosse necessario approfondire
questa specifica questione.
Questo non è il problema di uno o pochi atenei, ma di tutti.
Viene spesso indicato come il problema del “disagio studentesco”, sorta di mal
sottile di una generazione costituzionalmente debole, forse a causa del
buco dell’ozono!!
La situazione non è mai sostanzialmente diversa, tra grandi
e piccole sedi, tra grandi e piccole facoltà, non è diversa tra facoltà umanistiche
e scientifiche, non è diversa tra Nord e Sud. Una ormai ampia letteratura [1] ci conferma la scarsa efficacia del nostro sistema universitario,
tra i meno produttivi dei paesi della Cee. Si potrebbe pensare che il sistema
assicuri, sia pure in modo così ingiusto, il necessario numero di laureati,
ma non è così, la quota di popolazione attiva in possesso di laurea (il 6% della
popolazione tra i 25 e i 65 anni secondo dati Istat del 1995), è sotto la media
europea e non corrisponde alle necessità del paese.
Nella figura 1 si può confrontare la nostra situazione
con quella di altri paesi industrializzati. Si tratta di dati di fonte OCSE,
che non si riferiscono però a situazioni perfettamente corrispondenti, per alcuni
paesi, come la Gran Bretagna e la Spagna, si tratta in prevalenza di cicli di
studi brevi, per altri come l’Italia e la Germania, di cicli prevalentemente
lunghi.
Un luogo comune recita che al Sud sono tutti laureati, ovviamente
non è vero, in termini relativi al Sud vi è il 20% di laureati in meno (Stefano
Gorelli, vedi nota 2), ma resta il fatto che il grado di efficienza degli atenei
è sostanzialmente lo stesso, poco più del 30%; ad essere diverso è il grado
della partecipazione dei giovani agli studi universitari, percentualmente minore
e non maggiore per i giovani del Sud.
Ma l’informazione, nota, di questa gravissima situazione non
viene utilizzata per cercare più adatti ausili didattici, per istituire commissioni
d’esperti dell’arte di insegnare. Viene invece richiamata (opportunisticamente)
come concausa di una “.. delle ben note anomalie del nostro sistema d’istruzione:
la concentrazione della più gran parte degli studenti in alcuni atenei e facoltà
sovraffollate”.
Ma essere in un grande ateneo (il più grande d’Europa nel caso
della Sapienza) non è solo un guaio per studenti e docenti, è anche un grande
vantaggio perché sia il ricercatore che lo studente possono trovare e di fatto
spesso hanno trovato, risposta a bisogni di conoscenza relativi a linee di ricerca
non approfondite nella propria sede; in ogni facoltà ci sono discipline che
non divengono asfittiche proprio grazie alla presenza nello stesso ateneo di
centri di elaborazione di quel particolare sapere.
Ovviamente molti di noi sperano di poter operare in un ambiente
meno affollato e quindi più vivibile, sarà bene che si risolva il problema dell’intasamento
di sedi come “la Sapienza”, ma non è la dimensione dell’ateneo la causa dell’inefficacia
dell’insegnamento.
La facoltà in cui lavoro, Scienze Statistiche, la più piccola
dell’ateneo romano, ha quasi la stessa percentuale di successi di una delle
più grandi, Economia, come si può vedere dalla tabella 1.
Gli indicatori che è stato necessario utilizzare per valutare
l’efficacia dei corsi, i valori delle ultime due colonne, sono piuttosto grossolani,
i laureati sono rispettivamente riferiti agli iscritti e agli immatricolati
dello stesso anno accademico, un’informazione precisa si sarebbe avuta solo
considerando quanti degli immatricolati di un anno arriveranno a laurearsi,
si tratta di collettivi che devono essere seguiti spesso oltre i 12 anni per
conoscere l’esito definitivo.
Le rilevazioni effettuate in diverse sedi, Torino, Padova,
Firenze, Pisa, Bologna, Roma, Viterbo, Napoli, Bari, Palermo ed altre ancora
(e quindi lungo tutto lo stivale), confermano che analizzando le coorti (studenti
che si sono immatricolati, ossia hanno iniziato la carriera universitaria, in
uno stesso anno accademico) il risultato è più o meno, ma sempre drammaticamente,
negativo.
[1] Jannaccone
Pazzi R., Ribolzi L., 1991 Università flessibile, Etas libri, Milano;
Università degli studi di Firenze, Osservatorio studenti, 1992, Tasso di
laurea ed abbandono precoce, Firenze; Gorelli S., 1996,La formazione
universitaria: accesso, percorsi, esiti, facoltà di Economia, Università
della Tuscia ; Bottiroli, Civardi M., Camiz S., 1997, La popolazione studentesca
e le Università italiane: indagini, modelli e risultati, CLEUP editrice,
Padova.