La partecipazione della popolazione e dei lavoratori esposti ai rischi alla gestione della sicurezza industriale. Esercizio di un diritto o elemento centrale della prevenzione?
Gianni Marsili
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Qualora applicate al campo della sicurezza industriale e del
lavoro, oggetto di questo articolo, le conoscenze emerse dalla ricerca psicometrica
suggeriscono che una differente percezione del rischio possa essere ipotizzata
per i lavoratori dell’azienda e per la popolazione che vive nelle vicinanze
dell’impianto. Per i primi infatti elementi quali l’involontarietà dell’esposizione
e la non equità, che influiscono sul timore inerente il fattore di rischio,
sono attenuati rispetto ai secondi in virtù del fatto che la sorgente di rischio
rappresenta per loro una fonte di reddito e conseguentemente un beneficio intimamente
connesso con il rischio stesso. Considerazioni così meccanicistiche risultano
però improponibili qualora si tenti di comprendere l’eventuale enfatizzazione
dei rischi da parte della popolazione. In questo caso, esiste infatti una grossa
influenza sulla percezione del gruppo sociale di appartenenza che può far ragionevolmente
ipotizzare una seria diversificazione di attitudini tra le persone che vivono
in aree in cui esiste una storica cultura industriale rispetto a quelle che
vivono in aree più recentemente coinvolte nel processo di industrializzazione.
In ogni caso, le evidenze emergenti da questi studi sono alla base dell’enfasi
attribuita dalle normative vigenti all’informazione ed alla formazione e costituiscono
la presa d’atto che elementi quali la conoscenza dei rischi da parte degli esposti
e la loro controllabilità influiscono consistentemente sulla percezione portando
gli individui a non enfatizzare i rischi cui sono esposti.
Due problematiche restano però aperte una volta stabilito che
un processo di comunicazione del rischio può realmente influenzare la percezione
e conseguentemente la sua accettabilità. La prima di esse è relativa all’approccio
cui tale comunicazione deve ispirarsi. In altre parole, una volta stabilito
che fattori sociali e culturali possono indurre distorsioni nella percezione
portando gli individui ad enfatizzare o a sottovalutare i rischi, il quesito
che si pone è se sia corretto assumere che il rischio reale sia quello oggettivo
stimato dagli esperti e, conseguentemente, guardare al processo informativo
come allo strumento con cui tentare di modificare il rischio percepito per portarlo
a coincidere con quello oggettivo. L’esperienza dimostra che questo approccio,
che ha tentato e tenta tuttora molti responsabili pubblici per la sua semplicità
interpretativa, risulta fallimentare per la forte resistenza che gli individui
dimostrano nel cambiare la propria opinione. Tale resistenza, che si alimenta
anche di fattori psicologici quali la tendenza di ciascuno di noi di interpretare
le informazioni che ci vengono fornite in funzione del nostro punto di vista
preesistente, trova una sua giustificazione logica, nella tematica inerente
la sicurezza industriale, nel diverso significato che individui ed esperti attribuiscono
al rischio. Tale variabile non è infatti per gli individui staccata dall’intero
contesto di vita ed il rischio è quindi visto come elemento globale e non singolare.
L’esposizione ad un fattore di rischio che comporta benefici, ad esempio, può
influire significativamente su altri fattori di rischio cui ognuno è esposto
e risultare quindi in un bilancio complessivo positivo. Al contrario, la valutazione
degli esperti è per sua natura estremamente specifica e finalizzata a formulare
giudizi di accettabilità fondati esclusivamente su una base numerica, spesso
astratta. Ne consegue che un approccio comunicativo più efficace dovrebbe basarsi
sul concetto che ognuna delle parti in causa, esperti e popolazione, può apportare
un positivo contributo al processo di gestione del rischio e ispirarsi quindi
al confronto piuttosto che alla trasmissione di nozioni.
La seconda problematica di interesse per la gestione dei rischi
tecnologici è relativa alla possibilità di superare la conflittualità che le
iniziative in questo settore generalmente suscitano. In altre parole, il quesito
cui si deve rispondere è se un corretto processo informativo possa eliminare
o no la conflittualità tra proponenti di un’iniziativa, autorità e popolazione.
Anche in questo caso gli studi psicometrici inerenti la percezione dei rischi
aiutano a comprendere che la conflittualità è un fenomeno intrinseco dei rischi
tecnologici la cui causa principale deve essere ricercata nella loro inevitabile
iniquità. La costruzione di una centrale elettrica, di un impianto chimico,
di un inceneritore, ecc. può infatti apportare benefici ad un’ampia comunità,
ma certamente distribuisce rischi in un ambito molto più ristretto producendo
un numero di individui per i quali il rapporto tra queste due variabili può
essere sfavorevole. Ciò spiega la generale opposizione degli individui all’accettazione
di siti tecnologici vicini alla propria residenza e suggerisce ai gestori di
non dimenticare durante il processo decisionale che a livello individuale nessun
rischio può essere accettabile se non è connesso a benefici e che il livello
di conflittualità dipende tra l’altro dall’entità di questo rapporto.
5. Alcune riflessioni conclusive
La soggettività che caratterizza l’analisi del rischio e l’incertezza
che ne affligge i risultati, i fattori sociali e psicologici che ne influenzano
percezioni e valutazioni individuali, la dimostrata correlazione tra accettabilità
del rischio e benefici connessi con l’esposizione, costituiscono quegli elementi
del processo di gestione dei rischi industriali che giustificano la partecipazione
attiva degli esposti al processo decisionale finalizzata ad ottenere quel consenso
informato che solo può garantire una razionale e non conflittuale convivenza
con i rischi tecnologici. In questo senso devono quindi essere lette le attribuzioni
del rappresentante per la sicurezza sancite agli artt. 4 e 19 del D.Lgs. 626/94,
laddove specificano che esso è consultato preventivamente e tempestivamente
dal datore di lavoro, in ordine alla valutazione dei rischi, all’individuazione,
programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione nell’azienda. Naturalmente
diversa è la situazione per quanto riguarda gli impianti a rischio di incidente
rilevante e l’informazione della popolazione che vive nelle aree limitrofe all’impianto.
In questo caso la responsabilità della comunicazione è affidata al Sindaco e
le modalità con cui condurre il processo informativo sono delineate come semplice
trasmissione di una scheda standard riportata in allegato alla legge 137/97.
L’esperienza evidenzia le notevoli difficoltà operative di tale percorso e lo
stesso dovrà presumibilmente esser rivisto in tempi brevi per poter garantire,
in fase di recepimento della Direttiva 96/82/CE, la partecipazione della popolazione
alla redazione dei piani di emergenza esterna.
Sebbene i concetti inerenti l’analisi del rischio richiesta
dalla normativa sia per la sicurezza industriale che per quella del lavoro siano
analoghi, le peculiarità dei due campi operativi e del ruolo dei soggetti sociali
coinvolti, consiglia di separare i due argomenti, in questa trattazione, allo
scopo di conferire alle riflessioni che si andranno a svolgere una dimensione
più operativa.
Mo
lteplici
fattori di rischio, sinteticamente classificabili in funzione dei tempi che
intercorrono tra l’esposizione ed il manifestarsi degli effetti avversi, coesistono
o esistono singolarmente nei luoghi di lavoro. La fig. 4, in cui questa
classificazione è schematizzata, mette in relazione la tipologia degli effetti
con la natura degli eventi da cui essi generalmente originano provvedendo così
ad una grossolana suddivisione dei problemi in quelli inerenti la sicurezza
(eventi incidentali) e quelli inerenti la tutela della salute sul posto di lavoro
(contaminazione degli ambienti di lavoro). Detti elementi costituiscono il terreno
entro il quale deve muoversi l’analisi di rischio del datore di lavoro e la
conseguente elaborazione del documento di cui all’art. 4 del D.Lgs. 626/94,
relativamente ai quali deve essere consultato il rappresentante per la sicurezza.
E’ bene sottolineare che il citato decreto, in analogia con quanto precedentemente
riportato nel definire il concetto di rischio, non stabilisce soglie al di sotto
delle quali il rischio deve essere ritenuto accettabile. Al contrario, esso
afferma, almeno per quanto riguarda gli agenti cancerogeni e quelli biologici,
che il datore di lavoro:
• sostituisce, se tecnicamente possibile, la sorgente di
pericolo con una più innocua (artt. 62 e 79 del D.Lgs. 626/94);
• aggiorna le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti
organizzativi e produttivi e al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione
e della protezione (art. 4 del D.Lgs. 626/94).
In altre parole emerge dalle normative il ruolo di strumento
decisionale della valutazione del rischio, inserito in un processo di gestione
della sicurezza e della salute dei lavoratori i cui obiettivi non sono quelli
del raggiungimento di uno standard ma dell’instaurazione di un’azione continua
di riduzione del rischio. Ne scaturisce un sistema di gestione ciclico (fig.
5), integrato nel più complessivo sistema di gestione dell’azienda, in cui
il Servizio di Prevenzione e Protezione, insieme al datore di lavoro e con il
controllo del rappresentante per la sicurezza, identifica i fattori di rischio
e procede alla loro valutazione, alla conseguente identificazione delle misure
di sicurezza e di protezione più appropriate ed alla verifica della loro efficacia
ed efficienza. E’ in questo contesto che deve essere ricercato il ruolo attivo
del rappresentante per la sicurezza, che non deve limitarsi al semplice controllo
del rispetto della normativa, ma farsi portatore delle valutazioni di rischio
provenienti dai lavoratori in quell’ottica di integrazione tra valutazioni soggettive
ed oggettive di cui si è trattato nel precedente paragrafo. E’ stato sottolineato
in precedenza che uno dei passaggi più delicati ed incerti della valutazione
del rischio è costituito proprio dalla fase di identificazione la quale risulta
per sua natura generalmente incompleta. Tale identificazione, che spetta al
datore di lavoro, deve seguire u
n
protocollo sistematico alla cui redazione dovrebbero dare un contributo significativo
tutti i lavoratori interessati. Esso consiste in un’elencazione di tutte le
sorgenti di pericolo presenti in azienda (sostanze chimiche classificate per
la loro pericolosità, macchine in movimento, impalcature, sorgenti di radiazioni
ionizzanti o no, ecc.) e di tutti gli elementi che possono comportare danni
per la salute nel breve e/o nel lungo periodo. Tale elencazione deve prescindere
dalle misure di protezione esistenti la cui efficacia ed affidabilità dovrà
essere valutata in fase di analisi del rischio. Si rammenti a tal fine la distinzione
tra rischio e pericolo discussa nei paragrafi precedenti. Naturalmente, una
separazione tra sicurezza e tutela della salute deve essere attuata nella fase
di identificazione dei fattori di rischio. Per esemplificare, la presenza di
una sostanza tossica o cancerogena imporrà di considerare sia il rilascio continuo
dai dispositivi che la contengono sia la possibilità che eventi incidentali
possano portare ad un suo rilascio consistente. Gli scenari che ne conseguono
sono infatti estremamente diversi configurandosi:
• nel primo caso, una contaminazione dell’ambiente di lavoro
che, pur permanendo i contaminanti in concentrazioni contenute, induce un’esposizione
dei lavoratori che ivi operano che può durare anche per tutta la vita lavorativa;
• nel secondo caso, un’esposizione unica e di durata limitata
del lavoratori presenti al momento dell’evento incidentale a concentrazioni
del contaminante estremamente elevate.
Analogamente sono diversi anche gli effetti avversi che ne
conseguono, in quanto funzione sia della concentrazione del contaminante nel
mezzo al quale si è esposti sia della durata dell’esposizione. Le sostanze pericolose
presenti in azienda sono facilmente riconoscibili dalle etichette che devono
essere presenti sui loro contenitori e che devono riportare, oltre alla classificazione,
anche le frasi di rischio e le avvertenze di pericolo. Tutti i lavoratori che
frequentano l’ambiente in cui queste sostanze sono presenti dovrebbero inoltre
prendere visione della scheda di sicurezza la quale oltre all’identificazione
della sostanza riporta le proprietà chimico-fisiche, tossicologiche ed ecotossicologiche,
ed i limiti di concentrazione al di sotto dei quali si ritiene che non dovrebbero
evidenziarsi effetti avversi sulle persone (TLV, MAC, ecc.). A tal proposito,
è bene ricordare che per le sostanze classificate cancerogene detti limiti,
qualora esistenti, hanno uno scarso significato pratico in quanto si può teoricamente
ritenere, particolarmente quando esse sono genotossiche, che anche una sola
molecola possa essere in grado di provocare l’insorgenza di un tumore.
Un volta identificate le sorgenti di pericolo si procede alla
fase di valutazione dei rischi che, come detto in precedenza, consiste nella
stima della probabilità che gli eventi avversi prevedibili abbiano realmente
a verificarsi. Due diversi approcci devono essere utilizzati nella valutazione
se ci si riferisce alla tutela della salute o alla sicurezza. Nel primo caso,
infatti, è possibile controllare l’entità delle esposizioni e l’efficacia dei
dispositivi di protezione attraverso un monitoraggio sia della contaminazione
ambientale sia delle condizioni di salute dei lavoratori (medico competente).
Nel secondo caso, trattandosi di eventi incidentali, non è possibile alcun monitoraggio
e la valutazione deve pertanto riguardare l’efficacia e l’efficienza dei dispositivi
di sicurezza adottati. Un principio generale che non deve essere mai dimenticato
quando si identifica una sorgente di pericolo è che ogni sistema di gestione,
o sua componente meccanica, elettrica, umana, ecc. è caratterizzato da una propria
affidabilità definibile come la probabilità che il sistema, o la componente,
sia in grado di operare correttamente dopo un certo tempo. In altre parole,
l’affidabilità non è altro che il complemento a uno della probabilità di quel
sistema di guastarsi o di non rispondere correttamente ad una sollecitazione
dopo un definito tempo di vita o numero di sollecitazioni.
Non è certo questa la sede per entrare in dettaglio nell’analisi
di affidabilità né si ritiene che questo possa essere un compito del rappresentante
della sicurezza. Data però l’importanza dell’argomento per la valutazione del
rischio, sembra giusto procedere ad una sintetica trattazione mirata a rilevare
gli aspetti importanti di cui si dovrebbe tener conto nella gestione della sicurezza.
Sul piano teorico un qualsiasi sistema tecnologico, sia esso
un impianto chimico, un automezzo, una macchina di produzione, ecc., può essere
visto, come un insieme di sottosistemi più o meno complessi, costituiti da componenti
elementari, il cui corretto funzionamento assicura il raggiungimento degli obiettivi
previsti per il sistema stesso nella fase di progetto. Nella realtà ciò non
è però completamente vero poiché ogni sistema tecnologico, sia esso anche il
più automatizzato, interagisce con l’uomo la cui azione può influenzarne il
funzionamento. Ne consegue che l’affidabilità del sistema risulti funzione sia
dell’affidabilità di ognuno dei suoi componenti tecnologici, sia dell’affidabilità
degli individui che con esso interagiscono a vari livelli (gestione, controllo,
manutenzione, ecc.). Dati relativi all’affidabilità dei componenti sono generalmente
disponibili nella lettura specialistica e sono spesso forniti insieme al componente
dal suo produttore. Essi non saranno quindi ulteriormente trattati in questo
articolo. Al contrario, pur a fronte di un’analisi storica degli incidenti industriali
che suggerisce una crescente frequenza di errori umani quale causa di malfunzionamento
dei sistemi, l’interazione uomo-sistema tecnologico è quasi sempre trascurata
nelle valutazioni di rischio spingendo conseguentemente la tematica ad essere
trattata più sul piano delle responsabilità individuali che della valutazione
di affidabilità. Essa merita pertanto alcune considerazioni ed una certa attenzione
da parte dei rappresentanti della sicurezza.
In fig. 6 è riportato uno schema d’interazione uomo-sistema
tecnologico del tipo a ciclo chiuso che caratterizza i sistemi semiautomatici
nei quali l’operatore può correggere il funzionamento di uno o più componenti
tecnologici al fine di assicurare il rispetto delle specifiche di output predefinite.
Naturalmente, sistemi tecnologici interamente automatizzati, i quali sono in
grado di autoregolarsi una volta avviati, prevedono una diversa interazione
con l’uomo al quale è affidato più un ruolo di monitoraggio che di intervent
o
diretto. In ogni caso, anche i sistemi spinti al massimo grado di automazione
non possono certo fare a meno dell’uomo, al quale è in ogni caso affidato almeno
il compito di vigilare sul corretto funzionamento dei dispositivi automatici
di controllo e di provvedere al mantenimento dell’efficienza dell’intero sistema.
Lungi quindi dallo sminuire l’importanza del fattore umano, la crescente automazione
affida all’uomo compiti più gravosi:
• rendendolo sempre più l’anello debole nell’affidabilità
del sistema uomo-macchina, attraverso il costante incremento dell’affidabilità
delle componenti tecnologiche;
• ponendogli problemi relativi alla capacità di mantenere
un sempre più alto livello di vigilanza, necessario per il monitoraggio di
sistemi sempre più complessi;
• richiedendogli la valutazione di una quantità di informazioni
di controllo che diviene sempre più elevata all’aumentare della complessità
dei sistemi tecnologici.
Lo schema proposto in figura 6, secondo il quale l’uomo:
• acquisisce informazioni dal sistema tecnologico attraverso
i dispositivi di misura dei suoi parametri di funzionamento;
• decide l’azione da intraprendere per mantenere le specifiche
di progetto dell’output;
• regola il sistema agendo sui suoi dispositivi di comando
e controllo;
propone un elemento di eccessiva semplificazione relativamente
all’interazione uomo-sistema tecnologico. Un sistema reale, infatti, è generalmente
costituito da più sottosistemi controllati da specifici operatori. Ciò può complicare
ulteriormente l’attività di controllo ed intervento del singolo operatore il
quale, a causa delle interazioni tra i sottosistemi e gli individui, può trovarsi
ad assumere decisioni che devono tener conto di variabili controllate da altri.
Per identificare le operazioni nelle quali l’individuo può
più facilmente sbagliare, per quantificare la probabilità dell’errore (affidabilità
umana) e per comprendere le cause di eventuali errori numerosi metodi di valutazione
delle variabili psicologiche e fisiologiche individuali e dell’ambiente in cui
l’uomo si trova ad operare sono stati proposti in letteratura e dovrebbero essere
utilizzati nelle analisi di rischio degli impianti, sia a livello progettuale
che operativo. Pur non essendo questa la sede per entrare nei dettagli di tali
metodi appare opportuno procedere ad una descrizione qualitativa di almeno uno
di essi per fornire elementi che consentano di controllare la congruità della
valutazione e di portare un contributo conoscitivo.
Uno degli approcci valutativi più conosciuti, e quindi più
largamente usati, è quello denominato Paradigma S-O-R il quale si basa
su un modello secondo cui tutti i comportamenti umani potrebbero essere rappresentati
con numerose catene, variamente interconnesse ed interagenti tra loro, composte
da tre elementi concatenati nell’ordine Stimolo (S) azione
organica (O) risposta (R). In altre parole, l’individuo
riceve uno stimolo, lo interpreta ed elabora, e reagisce con un risposta. Più
precisamente, gli elementi del paradigma possono essere così definiti:
- per Stimolo (S) si intende ogni cambiamento dell’ambiente
circostante, o evento che tale è percepito dall’individuo. Esso proviene quindi
generalmente dall’esterno dell’organismo umano (segnale luminoso, spia acustica,
ecc.) ma può anche originare all’interno di esso come sensazione che nasce
dalla valutazione di diversi elementi;
- per azione organica (O) si intende l’azione di elaborazione
condotta dall’individuo per pervenire ad una decisione. Nel caso in questione,
essa comprende quindi l’interpretazione dello stimolo, l’associazione con
le conoscenze possedute e l’adozione di una decisione;
- per risposta (R) si intende ovviamente l’azione
intrapresa per attuare la decisione precedentemente assunta.
Secondo questo approccio è possibile spiegare l’errore umano
semplicemente come il fallimento di una delle catene, o di uno degli elementi
che le costituiscono. In un comportamento semplice rappresentato da una sola
catena, l’errore umano può quindi dipendere dalla mancata o erronea percezione
di uno stimolo, dall’inabilità a discriminare tra più stimoli, dall’ignorare
la risposta da dare ad un definito stimolo, dall’impossibilità fisica a realizzare
l’azione conseguente alla risposta decisa, ecc. Ne consegue che tra le numerose
variabili che possono influire sulla possibilità di errore umano siano certamente
da inserire:
• i problemi fisiologici connessi con il funzionamento degli
organi di senso dell’individuo;
• la disposizione della strumentazione con la quale vengono
evidenziati i parametri di stato del sistema tecnologico;
• le modalità con le quali dette informazioni sono fornite
all’operatore (indicatori dicotomici luminosi o acustici, intensità e luminosità
dei segnali, indicatori quantitativi digitali, a scala mobile, a scala fissa,
ecc.);
• i fattori di stress psicologico quali ad esempio l’assunzione
di decisioni in condizioni di pericolo, di affaticamento, ecc.;
• i fattori di stress connessi con l’ambiente nel quale si
opera (luminosità, clima, rumore, vibrazioni, ecc.);
• ecc.