U	na  nuova  mitologia  circola  nelle  culture  politi-  che oggi prevalenti in Italia, ed è la convinzione  che  il  lavoro  non  costituisca  più  un  ancoraggio
solido  poiché  l’estrazione  del  plusvalore  avviene  ormai   fuori  dell’Europa,  che  può  dedicarsi  così  alla  leggerezza  della finanza e del consumo e può permettersi di non pen-  sare più alla dura produzione dei beni. Questa fuga dal la-  voro come base di un progetto politico è stata anche l’illu-  sione di Blair che comunque vantava una centralità finan-  ziaria  dell’Inghilterra  difficile  da  imitare  altrove.  La  sua  sconfitta, così come la palude del “nuovo centro” matura-  to in Germania, non sembrano però aver scalfito le certez-  ze  dei  neofiti  della  concorrenza  come  ultimo  traguardo  delle libertà di una economia che non produce, non scam-  bia beni ma conosce flussi monetari. I corollari del discor-  so sono  piuttosto trasparenti. La concorrenza al posto del-  la produzione. Il consumatore al posto del lavoratore. Pro-  blemi di eguaglianza non sono all’ordine del giorno della  società degli individui declinata come raggiunto paradiso  della abbondanza delle chances di vita. Che il disagio so-  ciale esista solo in Africa o nel sud est asiatico e che in Eu-  ropa  non  resti  più  nulla  da  fare  è  una  caricatura  terzo-  mondista che purtroppo sta regalando alla destra un paese  dopo  l’altro.  Il  sistema  sociale  è  in  realtà  sempre  più  un  meccanismo unico. L’85 per cento dei personal computer  oggi viene prodotto in Cina da lavoratori che non percepi-  scono più di 80 dollari al mese e vengono rivenduti in oc-  cidente a 1500 euro. Questa è la nuova vocazione del capi-  tale globale: far navigare gli investimenti verso paesi sen-  za diritti umani e  sociali in cui la forza lavoro è pressoché  gratuita rispetto ai parametri dei paesi evoluti e riportare  nei paesi ricchi i prodotti semilavorati per rivenderli al lo-  ro giusto prezzo di mercato, quello occidentale ovviamen-  te, dopo averli ricoperti con etichette alla moda.
Non solo chi è fuori dei processi produttivi (diversi mi-  lioni  di  anziani  con  pensioni  minime  vicine  ai  500  euro  mensili: l’80 per cento dei pensionati è al di sotto dei mil-  le euro), ma anche chi è dentro i meccanismi creativi del-  la ricchezza versa in condizioni oggettive di disagio e per-  sino di privazione. Le opportunità di consumo sono sem-  pre  più  mantenute  vive  solo  grazie  all’indebitamento.  Il  credito al consumo è il segreto di una propensione al con-  sumo  peraltro  contratta  con  la  decapitazione  del  potere  d’acquisto dei salari seguita all’euro. L’incertezza nella col-  locazione lavorativa, con la proliferazione di contratti pre-  cari che esaltano la flessibilità, determina ansie, insicurez-   ze, contrazione degli orizzonti temporali della vita. Gli in-  terventi legislativi degli ultimi anni hanno completato una  sperimentazione ardita che ha istituzionalizzato la forma  del lavoro intermittente. Grazie alle nuove figure contrat-  tuali la legge assimila gli imperativi della domanda e del-  l’offerta fin dentro gli schemi giuridici: si lavora solo quan-  do serve. Il passaggio dal diritto del lavoro al mercato del  lavoro è drastico: l’impresa compera la mera disponibilità  a lavorare e in cambio di questo acquisto a buon mercato  del tempo di lavoro potenziale nessuna copertura più in-  terviene a proteggere il soggetto. Si acquista sul mercato  non più il tempo di lavoro che produce merce ma la mera  disponibilità a recarsi alle dipendenze di un’impresa quan-  do essa ne avrà effettivo bisogno. Il lavoro a chiamata è l’e-  sasperazione della follia del contratto: l’impresa non ricor-
re al contratto per determinare l’utilizzo dell’energia lavo-  rativa per un certo tempo di lavoro, essa sigla contratti su  una chiamata ipotetica e senza alcuna predeterminazione  del periodo di prestazione lavorativa. Il vincolo di subordi-  nazione  che  abbraccia  la  prestazione  di  lavoro  viene  così  disarticolato e privato di antiche garanzie. Il soggetto co-  me lavoratore intermittente è completamente ridotto a va-  riabile del mercato e per contratto vende un tempo di non  lavoro e di attesa senza avvalersi di alcuna significativa co-  pertura economica e normativa.
Un giovane che supera gli scogli dei contratti a termi-  ne, schiva le angustie dei lavori a progetto, scavalca la mi-  seria dell’indennità di disponibilità legata al lavoro a chia-  mata e riesce a ottenere un impiego regolare, non prende  più di mille euro al mese. Se vuole mettere su casa e però  vive in una grande città, non gli bastano 900 euro per un  monolocale. Chi in città si trova per studiare deve sborsa-  re anche 500 euro per un posto letto. A proposito di case.  Che  fine  hanno  fatto  le  politiche  pubbliche  per  le  abita-  zioni dopo che l’aggressione liberista ha sbeffeggiato ogni  equo canone? Nelle città infinite si versano oceani di ce-  mento,  immensi  spazi  vengono  ricoperti  da  centri  com-  merciali,  da  edilizia  residenziale  che  fa  spuntare  micro  città periferiche come funghi, ma mancano investimenti  per la casa. Perché le bolle speculative legate al mattone  contano di più del diritto alla casa? Sotto le leggerezze ap-  parenti  di  politiche  simboliche,  di  notti  bianche  si  na-  sconde una nuova costituzione materiale delle metropoli,  che  non  è  troppo  diversa  da  quella  che  negli  anni  cin-  quanta decideva il sacco delle città.
Sarà anche vero, come pretende il senso comune do-  minante, che è molto vecchio insistere sul disagio socia-  le. Ma se il disagio esiste per davvero e non se ne parla la  politica diventa falsa coscienza e viene respinta come oc-  cupazione  privilegiata  di  una  casta  ostile.  E’  troppo  co-  modo scorgere ovunque antipolitica se poi l’agire politico  non  incide  sulla  vita  e  suscita  apatia  o  rigonfia  con  le  schede le facili promesse di sicurezza e di tolleranza zero  fatte dalla destra. C’è una retorica della società della co-  noscenza che ostruisce la visibilità del mondo reale e dei  suoi nuovi poteri. Conta certo il sapere, il cervello sociale  che si oggettiva nelle macchine e nelle merci. I laureati in  materie tecniche e scientifiche sono però oggi inferiori ri-  spetto a quelli di quindici anni. I lavori che offre la società  della conoscenza si esauriscono spesso in un call center.  L’innovazione  tecnologica  e  la  ricerca  sono  sempre  più  centrali e la tecnoignoranza rappresenta una nuova pos-  sente macchina di esclusione sociale. Ma un ricercatore,  che non entra in ruolo prima dei 40 anni e un lungo pre-  cariato, prende 1500 euro. Non arrivano oltre questa so-  glia, dopo decenni di carriera, gli insegnanti. Molti giova-  ni ingegneri  non sfiorano gli 800 euro. E poi c’è una fuga  dei cervelli perché il mercato non richiede se non in ma-  niera  marginale  lavori  di  qualità  e  non  offre  mansioni  a  competenza   elevata.   Nella   società   dell’informazione  quanto  prendono, e che contratto hanno, le migliaia di ra-  gazzi che lavoro per giornali, agenzie, tv?
La realtà è che il postmoderno produce delle struttu-  rali forme di povertà sociale in chi lavora, non solo negli  esclusi. I nuovi lavoratori non solo andranno in pensione  molto  più  tardi,  ma  con  cedolini  da  fame,  pari  al  45  per cento del loro misero stipendio. Dietro questo c’è il noc-  ciolo duro del capitalismo globale che immette sul merca-  to immense quantità di forza lavoro priva di diritti che in-  tascano anche due o tre dollari al giorno. Ma i riformisti  italiani  inventano  la  nozione  del  conflitto  generazionale  come diversivo di comodo. Sarà pure retrò, ma le forme di  vita espresse dal capitalismo immateriale non possono es-  sere ridotte alla contesa tra padri e figli, esse continuano a  reclamare conflitto, lotta sociale per il miglioramento del-  le condizioni dell’esistere. C’è un peggioramento effettivo  della situazione del lavoro che non produce rivolta, ma si-  lenziosa  disperazione,  senso  di  frustrazione  per  la  man-  canza di ogni pubblica visibilità. La favola della fine del la-  voro e della impossibilità di un consenso a politiche eco-  nomiche espansive nasconde che i dipendenti sono ben 18  milioni e 5 milioni sono gli operai d’industria. Resta tre-  mendamente  vero  che  l’essere  del  soggetto  dipende  dal  suo avere. La forma della merce domina ogni poro del so-  ciale,  non  solo  si  impossessa  di  ogni  bene  comune  (aria,  acqua) ma anche la spazzatura diventa merce lucrosa.
Sbagliava  Keynes  a  pronosticare  un  accorciamento  drastico del tempo di lavoro (15 ore settimanali come tet-  to massimo) entro il 2020. Si ingannava perché l’econo-  mia politica reale non coincide mai con la promessa della  tecnologia. Malgrado la tecnologia, e forse anche in virtù  delle nuove tecnologie, si lavora di più, non di meno e si  riceve di meno, non certo di più. Altro che fannulloni: i  dati Ocse mostrano che i dipendenti italiani lavorano più  di quelli europei, raggiungono le stesse ore di lavoro de-  gli americani, ricevendo salari molto inferiori, sia a quel-  li della media  europea che a quelli ameircani. C’è per tut-  ti lo spettro del lavoro infinito anche perché con i fax, con  i cellulari, con internet si è sempre reperibili. Anche il li-  cenziamento, non solo la chiamata, viene comunicato con  l’Sms. Il tempo di lavoro inghiotte ogni tempo di vita. E il  sapere, la scienza, entro relazioni sociali dominate dal pri-  vato,   garantiscono   l’innovazione   solo   esprimendo   nel  contempo momenti di esclusione e dipendenza. Per que-  sto alla mera crescita economica stimolata dalla competi-  zione di mercato occorre aggiungere una forte guida pub-  blica per scongiurare gravi privazioni sociali e per riaffer-  mare la dignità del sapere e della conoscenza come bene  pubblico. Senza una grande funzione pubblica la crescita  economica non porta affatto al miglioramento della vita.  Basta calcolare con quanti stipendi si poteva comprare ca-  sa trent’anni fa e con quanti anni di mutuo si riesce inve-  ce a coprire oggi il costo di una casa minuscola.
Il mito che la ricchezza privata rende inutile ogni in-  vestimento  pubblico  deve  essere  demolito.  Questa  fun-  zione equilibratrice del pubblico è stata la scoperta euro-  pea, la più importante. Però negli ultimi decenni il rap-  porto tra politiche pubbliche e Pil si è quasi dimezzato.  Oggi la sfera pubblica è stata demolita con la retorica fa-  sulla che allo Stato tocca solo regolare e non gestire. Con  questa tavoletta, recitata con ineffabile trasporto ideolo-  gico negli anni ‘90, non esiste più un ambito pubblico e  proliferano   invece   esternalizzazioni,   amministrazioni  private  parallele.  Paradossale  è  poi  la  fortuna  della  for-  mula  scandinava  della  flexsecurity  fatta  propria  da  go-  verni  che  reclamano  come  segno  d’innovazione  proprio  la riduzione delle tasse. Nei paese scandinavi (collocati al  vertice degli indici di sviluppo umano) gli interventi sul-  l’assistenza, sulla mobilità sono possibili solo perché esi-  ste avere una non trascurabile pressione fiscale superio-  re al 50 per cento del pil. Senza un ritorno del pubblico  non si garantiscono diritti e beni pubblici. La sanità pub-  blica  fornisce  prestazioni  così  a  rilento  che  sembra  una  succursale per il privato verso il quale dirottare facoltose  risorse.  La  sussidiarietà,  la  governance  multilivello,  la
compartecipazione pubblico privato, la nuova declinazio-  ne del pubblico come servizio erogabile anche da opera-  tori  privati  hanno  determinato  immense  fortune.  Nella  sanità  privata,  nella  scuola  privata  maturano  ricchezze  determinate proprio dal cimitero dei beni pubblici. A Ro-  ma  il  rimborso  comunale  per  ogni  posto  all’asilo  nido  privato è di 650 euro mensili, che si aggiungono alla ret-  ta che gli utenti comunque pagano.
I lavoratori intanto pagano più tasse (il 70 per cento  del  carico  fiscale  proviene  da  tassazione  alla  fonte)  per  sostenere uno Stato che diventa sempre più minimo, in-  timorito  dalla  voce  grossa  dei  governatori  delle  banche  centrali o dei tecnocrati europei che vorrebbero ridurre  il  governo  politico  a  mera  amministrazione  dell’equili-  brio finanziario. E magari sempre più lavoratori votano,  ulteriore  e  terribile  paradosso,  per  quei  politici  espres-  sione di ceti sociali che le tasse non le pagano e gridano  contro il fisco e la bancarotta dell’Inps, che invece sareb-  be in attivo senza gli impropri dirottamenti dei suoi in-  troiti  verso  l’assistenza  e  gli  oneri  non  da  lavoro.  L’eva-  sione fiscale (che raggiunge il 20 per cento del Pil, oltre  270 miliardi di euro ogni anno, addirittura 7 volte in più  rispetto  agli  anni  ‘80)  è  lo  strumento  per  distorcere  il  momento  della  concorrenza  e  per  definire  una  redistri-  buzione rovesciata del reddito tutto a favore del capitale.  E  poi  c’è  chi  si  invaghisce  tardivamente  del  mito  della  concorrenza e del consumatore finale e ritiene che solo  così si cavalca la tigre del moderno. A parte il fatto che il  consumo  è  sempre  determinato  dalla  produzione,  per  consumare  bisogna  pur  sempre  avere.  La  produzione  continua  ad  essere  la  fonte  del  sistema  delle  disugua-  glianze nell’età del riassetto del sistema economico glo-  bale. I confini della reale libertà di ognuno in una società  di mercato si arrestano dinanzi alla disponibilità di dena-  ro,  di carte di credito, di bancomat.  Contro i profeti del-  la  concorrenza  come  ultima  frontiera  della  libertà  dei  moderni, occorre riformulare un’idea altra di libertà. Una  libertà dal mercato e dalle sue crescenti incertezze. Nuo-  ve garanzia rispetto al dispotismo dell’impresa che in no-  me della flessibilità e della competitività assume linee di  comando autoritarie. Insomma una libertà socialista non  può essere derubricata come archeologia in una società  che ha nella esclusione dalla conoscenza come bene pub-  blico comune una fonte di nuova oppressione. E se inve-  ce  di  tante  futili  declamazioni  noviste  ricominciassimo  proprio da qui, da una critica radicale di tutto ciò che og-  gi  esiste  ed  è  alla  base  dei  nuovi  meccanismi  globali  di  creazione della ricchezza?