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JAFFE HOSEA
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Caos o ordine in Cina?

JAFFE HOSEA

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1. Introduzione

La crescita numerica di quelli che sono definiti “incidenti di massa” dal 1994 al 2006 è diventata un argomento principale per chi sostiene la necessità di un cambiamento politico in Cina. È stata oggetto di argomentazioni anche nell’articolo Cina ed India. I nuovi miliardari, scritto dal noto saggista marxista esperto di America latina James Petras [in questo numero, N.d.R.]. Il 9 dicembre 2006 il Daily India.com annunciava che per la prima volta il governo cinese aveva diffuso un documento politico pubblico sull’argomento, arrivando a dire che «le ribellioni in Cina stanno minacciando la possibilità di governare del Partito comunista». La stampa imperialista statunitense, europea e giapponese, ha cominciato a dare importanza a tale fenomeno sin dal 2004, quando proclamava che i funzionari cinesi ammettevano che vi fossero stati in quell’anno 74.000 “incidenti di massa”. La “sinistra” eurocentrica - sia a livello di partiti che di alcuni settori d’opinione - non ha tardato a seguire tali indicazioni. Tutte le congetture, le previsioni e le linee politiche si basano sulla convinzione che gli “incidenti di massa” stiano, alfine, destabilizzando lo Stato cinese sorto nel 1949 dalla rivoluzione socialista condotta dal Partito comunista guidato da Mao Zedong. Alcuni militanti della sinistra eucentrica e finanche di quella antimperialista, hanno previsto oppure propugnato una nuova rivoluzione cinese.

2. Entropia: la Cina è un sistema “aperto” o “chiuso”?

Prima di esaminare le statistiche sugli “incidenti di massa” potrebbe risultare concettualmente e politicamente utile interrogarsi sulla tipologia di “sistema cinese” che prendiamo in considerazione: la Cina, infatti, è un sistema “aperto” o “chiuso”; sono questi inoltre termini filosofici e/o fisici? Se pensiamo che la Cina sia “chiusa”, come il sistema chiuso della fisica termodinamica, allora l’intera questione di cosa stia accadendo alla sua entropia come misura dell’Ordine diviene pertinente. Perché? Perché, se questo fosse il caso, la sua entropia, ovvero condizione totale di ordine, non potrebbe decrescere ma nemmeno essere costante nello stato massimo di disordine o altrimenti crescere fino al suo massimo stato di disordine o “caos”. Per principio, nient’altro sarebbe allora possibile per il resto della sua esistenza. Sarebbe, cioè, destinata a cadere in uno stato di caos permanente, , se rimanesse “chiusa” per sempre. Parlando politicamente ciò implicherebbe la fine della società creata nel 1949. I marxisti antimperialisti hanno buone ragioni, fondate sulla teoria dell’entropia, nell’asserire che l’ipotesi di una nuova rivoluzione interna ad un modo di produzione chiuso, per la Cina, significherebbe il ritorno al caos barbarico del capitalismo del pre-1949 sotto invasioni ed occupazioni imperialistiche (in tutta probabilità da parte del Giappone, che per 62 anni si è rifiutato di porgere le proprie scuse e ricompensare i 20 milioni di cinesi assassinati e lo stesso numero di donne stuprate dall’“eroica” soldataglia haeikari giapponese. Il Giappone non ha realmente trasformato la sua basilare, soggiacente natura imperialistica, come tali rifiuti perpetrati ancora oggi dimostrano). Pensare alla Cina come ad un sistema chiuso è pericolosamente sbagliato sia da un punto di vista pratico che politico. La Cina non è un sistema chiuso, bensì muta la propria “molecolare” struttura di classe grazie alle vaste dimensioni delle proprie interazioni con l’economia mondiale capitalistico-imperialistica che rilevano sempre più dal punto di vista economico, culturale e politico.

3. Attacco alla Cina o difesa della Cina?

Assieme al socialismo eurocentrico, pochi, se non nessuno, hanno difeso il socialismo cubano e quello cinese, non importa se le origini politiche fossero da rintracciare nella nuova socialdemocrazia, negli ex-stalinisti come il gruppo di Bertinotti facente parte del governo europeista di Prodi successivo alla caduta di Berlusconi, nei trotskjisti che hanno seguito Mandel nella tomba, nell’inglese SWP ed in altri attivisti ispirati dalla teoria del “capitalismo di Stato” di Tony Cliff o i residuati fedeli di Bordiga in Italia, tutti hanno concorso a gettare il bambino socialista insieme all’acqua sporca stalinista in Jugoslavia, nell’Europa dell’Est e nella stessa URSS nel periodo 1989-1991. L’assenza di un fattivo sostegno socialista alla Cina resta la maggiore minaccia nei confronti dello Stato fondato dalla rivoluzione sociale del 1949, venuta fuori dalla lunga e dura lotta contro la borghesia nazionale di Jiang Jeshi1 e l’imperialismo giapponese. È quasi miracoloso che l’entropia non abbia ancora sconfitto il socialismo e la nazionalizzazione ed, insieme ad essi, il numerosissimo Partito comunista cinese.

4. I famosi 87.000 “incidenti di massa”

Per rendere le cose ancora più difficili alle prospettive politiche cinesi, ma più agevoli per le possibilità di vittoria del caos e del disordine nella guerra entropica2 (Burkett, 1999, 2005; Bellamy Foster, 1999, 2000, 2002; Burkett, Bellamy Foster, 2006), sopraggiunge il meschino argomento degli “incidenti di massa” ed il massiccio uso propagandistico che di essi fanno i media, gli stati occidentali e le multinazionali statunitensi, europee e giapponesi. Centinaia di queste imprese supersfruttano più di 50 milioni di lavoratori cinesi a basso costo, ma altamente addestrati e qualificati, pagati in media l’equivalente di 10 dollari al giorno o meno per produrre in media superprofitti 9 volte o più dei salari percepiti. Gli imperialistici IDE (Investimenti Diretti Esteri) netti tra il 1985 ed il 2004 ammontano a 460 miliardi di dollari (HART-LANDSBERG, BURKETT, 2004, 2006), il che significa soltanto l’1, 5% circa del capitale imperialista totale in giro per il mondo [calcoli dell’A.]. La quota statunitense, europea e giapponese nelle vendite del settore manifatturiero cinese è cresciuta dal 2, 3% nel 1990 al 31% nel 2000, e la loro quota d’esportazioni dal 12, 4% nel 1990 al 55% nel 2003 (IVI). Il numero dei lavoratori attivi nelle imprese di stato che operano in joint venture col capitale straniero è caduto dal 62% del totale nazionale del 1996 al 38% del 2003. Nel 2005 38 milioni di lavoratori lavoravano nelle manifatture urbane e 71 milioni in quelle rurali o suburbane mentre 100 milioni erano lavoratori migranti. Il 33% dell’export veniva prodotto nel Guangdong (IVI). La rapida crescita della penetrazione del capitale straniero non è avvenuta senza frizioni: i “conflitti di lavoro”, inclusi molti scioperi, nelle imprese di Stato sono cresciuti da 25 ogni 100.000 lavoratori nel 1998 a 56 ogni 100.000 lavoratori nel 2001, mentre nelle imprese non controllate dallo Stato essi sono saliti da 500 nel 1998 a 900 nel 2001. Il capitale straniero ha fatto sì che crescesse il livello di povertà per 800 milioni di contadini che oggi guadagnano circa 1 dollaro al giorno. La disuguaglianza di classe si è intensificata a seguito di tali livelli di povertà: nel 2006 la classe media veniva ufficialmente stimata intorno al 5% della popolazione (70 milioni di persone su una popolazione di 1 miliardo e 400 milioni). La lotta di classe contro il supersfruttamento operato dai capitali stranieri e quelli locali si è limitata per lo più al versante economico e non ha avuto particolare rilevanza politica. Ciò va tenuto presente non soltanto per gli scioperi ma anche per gli “incidenti di massa”, che sono stati enormemente esagerati dai media e da gran parte della sinistra occidentali. I dati ufficiali dicono che ce ne furono 10.000 nel 1994 con 730.000 partecipanti, cioè uno ogni 2.000 abitanti; 74.000 nel 2004 con 3, 8 milioni di partecipanti (uno ogni 400 abitanti); 85.000 nel 2005 e 64.000 (22, 1% in meno del 2005) nei primi 9 mesi del 2006. Le principali cause di questi relativamente piccoli “incidenti di massa” non sono politiche, essi non combattono, mettono in discussione o minacciano il modo di produzione stabilito nel 1949 dalla rivoluzione socialista cinese. Le cause principali invece sono state «la perdita dei terreni, la corruzione, il peggioramento dell’inquinamento nella vasta campagna interna, espropriazioni arbitrarie da parte dei property developer ed i licenziamenti dalle imprese di Stato» (Times on line del 10.12.2006). Ci sono quanto meno scarse ragioni per concludere come hanno fatto BURKETT ed HART-LANDSBERG nel loro lavoro del 2004: per essi «la Cina si sta muovendo inesorabilmente verso un’economia politica capitalistica e dominata dagli stranieri». Tenendo conto della natura fisica e socio-politica dello Stato cinese e, soprattutto, della natura non-capitalistica ed anti-imperialistica del modo di produzione istituito dalla rivoluzione del 1949, è ancora meno ragionevole sostenere, ad ogni modo, la crescita di un disordine e di un caos capitalistico-imperialistici. BURKETT, BELLAMY FOSTER e BARBARA FOLEY sbagliano nel sostenere che «la Cina ha scambiato il socialismo per un’economia capitalistica di mercato»3. Non è questo il caso o il momento per un’idea utopistico-anarchica che ripeta le gesta della più grande lotta di classe di tutti i tempi, la della rivolta dei Taiping del 1850-1864, condotta dai contadini e lavoratori rivoluzionari. Essa fallì perchè inibita dal dispotismo asiatico, modo di produzione esistente allora in Cina, e schiacciata dal generale Gordon al servizio dell’imperialismo britannico. Ogni tentativo fallirà e meriterà di fallire perché i lavoratori cinese ed i contadini - e quindi anche il loro Partito comunista - non sono assolutamente preparati e pronti per respingere le conquiste ottenute con la rivoluzione del 1949, a beneficio di quella che è in definitiva un’illusione eurocentrica. A tutti i costi la Cina, come Cuba, deve essere difesa, la prima contro la penetrazione e la secondo contro l’embargo del capitale imperialistico straniero.

5. Gli eurocentrici come Petras “dimenticano” Lenin ed il capitale straniero Un secolo fa il grande socialista rivoluzionario Lenin (1966: 9) descrisse in questi termini il capitalismo moderno: «Il capitalismo è divenuto un sistema mondiale di oppressione coloniale e di strangolamento finanziario della stragrande maggioranza della popolazione mondiale da parte di una manciata di “paesi avanzati”» [corsivo dell’A.]. L’oppressione coloniale e lo strangolamento finanziario operato dalle classi e dalle nazioni del blocco imperialistico a guida statunitense è la maggiore causa di povertà e di stenti socio-economici sopportati dal miliardo e 340 milioni di cinesi della Repubblica popolare fondata dall’allora (oggi sembrerebbe non più) universalmente definita rivoluzione socialista dei lavoratori e contadini nel 1949. I media capitalistici ed i loro socialisti che attaccano ferocemente la Cina (e Cuba), “dimenticano” la rivoluzione sociale che ha dato vita al processo di trasformazione del modo di produzione. Essi “dimenticano” il “capitale finanziario” imperialista USA, UE e giapponese che, nonostante appaia - ma appare soltanto - che stia rigenerando l’economia cinese con tassi di crescita del PIL del 10% annuo, in verità è la causa ultima e fondamentale del perdurante “strangolamento finanziario” della popolazione (povertà, miseria, caduta del coefficiente di Gini ecc.). Per non pensare che si stia esagerando, si legga l’articolo di Petras ove non si troverà un solo fatto o una sola statistica degli IDE statunitensi, europei, canadesi, australiani o giapponesi, di loro joint venture con lo Stato cinese, o del mortale debito esterno USA-UE di 315 miliardi di dollari, tutti fattori che combinati tra di loro concorrono a “strangolare finanziariamente” i poveri lavoratori e contadini cinesi. Nulla, non un singolo riferimento! E lo fanno in nome del “leninismo” e del “socialismo”?! Di seguito vengono riportati i fatti che costoro “dimenticano”. Prima di tutto gli stock di IDE imperialistici verso la Cina sono cresciuti dalla già citata cifra di 460 miliardi di dollari del 2004 ai 700 miliardi del 2007. Aggiungendo ad essi il debito esterno, che ora si aggira attorno ai 315 miliardi di dollari, possiamo calcolare il capitale totale imperialista in Cina in 1.015 miliardi di dollari, cioè più di un trilione di dollari statunitensi (CIA, 2008). La percentuale del tasso di profitto accertato del capitale USA, UE e giapponese in Cina si aggira sopra il 30%. Il tasso di plusvalore (profitti/salari = pluslavoro diviso per il lavoro necessario) è in rapporto di 3 a 1 (cioè il lavoratore cinese alle dipendenze di un’azienda statunitense a Guangzhou - la vecchia Canton - lavora per 6 delle 8 ore giornaliere per l’impresa imperialistica e per 2 ore per coprire il proprio salario). La composizione organica del capitale straniero presente in Cina può essere calcolata grazie all’equazione marxista tasso di profitto = plusvalore o profitto diviso per C che è uguale a c+v; dopo aver diviso entrambi il numeratore ed il denominatore per il capitale variabile (salari calcolati su scala annua), otteniamo tasso di profitto = tasso di plusvalore/(1+composizione organica del capitale C/V). Ad un tasso di profitto del 30% annuo e ad un tasso di pv di 3:1, la composizione organica del capitale imperialistico è 9. Siamo in presenza, pertanto, di un’industria molto moderna (ad alta composizione organica), in un’economia di bassi salari, anzi, di basso costo del lavoro e quindi altamente sfruttante. In breve, il capitalismo in Cina combina tecnologia industriale aggiornata con supersfruttamento del lavoro. Che tale capitalismo in Cina sia praticato prevalentemente dal capitale straniero imperialistico piuttosto che dal capitale cinese locale, è chiaro quando compariamo il trilione e passa di dollari imperialistici ivi investiti con i 29, 8 miliardi di dollari dei 20 miliardari cinesi di cui scrive Petras nel già citato articolo. Dati gli stessi tassi di plusvalore e di profitto ed un’eguale composizione organica del capitale, l’ammontare del plusvalore estratto dai lavoratori cinesi (ed in definitiva anche dai contadini) è il seguente: 30% di 1.015 miliardi di dollari = 304 mld dollari annui (questo è il tributo che la Cina paga all’imperialismo), e 30% di 29, 8 mld di dollari = meno di 9 mld di dollari per anno di profitti a beneficio dei miliardari locali.

In media il tasso di profitto tende ad essere più alto per la borghesia nazionale rispetto a quella internazionale, perché il capitale investito dalla prima è a più bassa composizione organica essendo meno “moderno”. Ciò fa sembrare la borghesia nazionale più ricca di quanto sia in realtà in termini di capitale posseduto. Questi dati fanno sembrare la borghesia nazionale peggiore e più vasta di quella internazionale che opera in Cina. Nella vita reale, la borghesia nazionale è un agente politico ed un servo politico-economico degli imperialisti stranieri. L’imperialista è un gigante che si serve di un po’ di “nani” nazional-borghesi per fare il lavoro sporco. Quando tali soggetti diventano abbastanza grossi come il caso Mittel in India, il cui proprietario è considerato l’uomo più ricco al mondo, essi non fanno altro che entrare a far parte, come membri, del club imperialista. Coloro che attaccano violentemente la Cina vedono la borghesia nazionale semi-coloniale (o socialista) come il nemico di classe internazionale. Costoro sono inevitabilmente eurocentrici. Mascherano, nascondono e pertanto giustificano l’imperialismo e lo sollevano da tutti i suoi crimini e responsabilità mostruosi. È triste e spiacevole vedere Petras diventare uno di loro.

6. La Cina è imperialista?

Le “centinaia di migliaia” di multimilionari di cui parla Petras possono anche possedere, ipotizziamo, un capitale totale equivalente a quello, diciamo, di 200 miliardari, cioè un capitale totale dieci volte quello di 20 mld $ dei 20 miliardari, e cioè 200 mld $. Tuttavia anche grazie a tale sforzo d’immaginazione non raggiungiamo il trilione di dollari imperialistici investiti in IDE a cui va aggiunto il debito estero - detenuto dagli imperialisti - che, quello sì, “strangola” davvero. Così cosa fanno gli “antimperialisti” (sic!) che considerano la Cina un paese capitalistico per far apparire la Cina post-maoista con il peggior volto possibile? Scoprono che «appena la borghesia si è consolidate ha spostato i propri investimenti oltremare nelle risorse minerarie (15%) e in joint venture (nel settore immobiliare, manifatturiero e dell’alta tecnologia)». In altre parole, sostengono che la Cina sia una potenza imperialistica. Il fatto che milioni di cittadini del “Terzo Mondo” e molti dei loro Stati abbiano investimenti in compagnie imperialistiche è dovuto all’interconnessione stessa del capitale su scala planetaria. Tuttavia ciò non li rende in alcun modo più capitalisti di quanto io possa, acquistando azioni in un’azienda automobilistica, diventare un azionista imperialista ed un devastatore dell’ambiente. La Cina non possiede colonie o semi-colonie. Essa può essere considerata uno Stato dei lavoratori e dei contadini burocraticamente deformato. Essa non potrà essere socialista finché le maggiori potenze imperialistiche non verranno sconfitte dalla lotta internazionale anti-imperialista. La Cina non è un paese ed una nazione capitalistica ed ancora meno imperialistica.

7. Il Modo di Produzione Cinese

Le questioni di maggior rilevanza riguardanti la Cina sono: a) se ci sia stata o meno una rivoluzione sociale nel 1949; b) se c’è stata che tipo di rivoluzione sociale fu: “socialista” o “democratico-borghese” o a “capitalismo di Stato”; c) se ci fu in Cina una rivoluzione sociale nel 1949 e successivamente essa è diventata “capitalistica”, allora ci deve essere stata una controrivoluzione capitalista. Quando sarebbe accaduto? Questo è quanto attendono o vogliono i socialisti che bacchettano la Cina?; d) o costoro attaccano la Cina semplicemente per il piacere in sé stesso e per dimostrare quanto siano essi stessi di “sinistra” rispetto ai comunisti cinesi o, ad esempio, a Castro o ad altri difensori della Cina come quest’ultimo?; e) sostengono, costoro, che se c’è stata davvero una rivoluzione sociale nel 1949 allora i) o essa non fu maoista bensì “a capitalismo di Stato”; ii) oppure che il capitalismo di Stato semplicemente si “sviluppò” nel seno della rivoluzione guidata da Mao; iii) o che, in un modo o nell’altro - Dio solo sa come - il capitalismo si è sviluppato in Cina dal suo interno; iv) ancora, infine, se non da dentro, esso si sarebbe sviluppato perché importato, ad esempio - è chiaro - dall’“imperialismo” straniero. Potrebbero esserci ulteriori possibilità che ignoriamo, ma ci si permetta di considerare quelle appena citate, una alla volta. a) Tutti gli osservatori seri, marxisti-leninisti o meno, per lungo tempo hanno convenuto: i) sul fatto che nel 1949 ci sia stata una massiccia rivoluzione di centinaia di milioni di lavoratori e contadini in tutte le città cinesi e nella maggior parte delle campagne; ii) che tale rivoluzione abbatté il potere del Guomintang, partito della borghesia e dei proprietari territori cinesi, guidato da Jiang Jeshi; iii) e che gli imperialisti statunitensi, europei e giapponesi condannarono tale rivoluzione come “comunista” o “socialista” e che, nel definirla tale, valutavano correttamente la rivoluzione in quanto Mao e tutti i leader del Partito comunista cinese che guidarono la rivoluzione, dichiararono al mondo intero dalla loro capitale, Beijing, che il nuovo Stato cinese doveva essere chiamato “Repubblica popolare” che definirono “socialista”. Tale dichiarazione fu condivisa dall’intero mondo antimperialista. b) Né Mao né alcun altro esponente del PCC definirono mai la rivoluzione o il programma del partito come “democratico-borghese”, per non dire “a capitalismo di Stato”. Una parte della “sinistra” eurocentrica ha utilizzato tale termine in accezioni politiche accusatorie. In realtà la nazionalizzazione della terra, la sua redistribuzione egualitaria ai contadini, organizzata dapprima in comuni e successivamente in cooperative, erano provvedimento congruenti con la migliore tradizione dei programmi “democratico-borghesi” marxisti-leninisti. L’accusa di “capitalismo di Stato” avanzata dal Socialist Workers Party britannico fu considerata un falso dai maoisti che avevano letto la Rivoluzione tradita di Trotskij (1936). Questa teoria del “capitalismo di Stato” per la prima volta utilizzata nei confronti dell’URRS da Tony Cliff, in un libro fortemente critico dello “stalinismo” sul finire degli anni ’50 e nei primi anni ’60, fu in seguito estesa anche nei confronti della Cina dai socialisti eurostatunitensi di vario colore per via dell’infelice conclusione della rivoluzione culturale maoista della metà degli anni ’60, per mezzo della quale Mao vanamente cercò di frenare i burocrati di partito e dall’altro lato gli anarchici interni allo stesso si scagliarono contro i burocrati filocapitalisti con violenti - spesso mortali - attacchi fisici senza distinzione di sorta. In seguito giunse al potere la fazione politica di Deng Xiaoping che promuoveva la “coesistenza pacifica” con il blocco imperialista della NATO a guida statunitense, pur non essendo mai un sostenitore del “capitalismo di Stato”. Gli antimperialisti difesero sia Mao che Deng contro le accuse della “sinistra” euro-statunitense-centrica. c) Non c’è mai stata alcuna seria o vincente contro-rivoluzione in Cina, del tipo di quella del 1990 dei burocrati filocapitalisti di El’cin, le cui operazioni politiche furono personalmente guidate al Presidente Bush Senior. d) Certo, non ci sono seri militanti leninisti, antimperialisti, bensì soltanto quelli troppo “furbi”. e) (i-iii) La borghesia esterna cinese è un agente ben navigato o un alleato dell’imperialismo ed ha collegamenti finanziari o familiari con l’intera borghesia cinese interna. Quest’ultima non è nazionale, ma vuole esserlo, nel senso che vorrebbe esserlo, ma non lo è in termini di potere politico. Potrebbe annoverare tra le sue file decine di milioni di aspiranti capitalisti, che comunque non sarebbero che un quindicesimo dell’intera popolazione. Il loro capitale complessivo è - come abbiamo indicato - al più nell’ordine di poche centinaia di miliardi di dollari (è questa la moneta che essi preferiscono detenere in contante e nei propri conti bancari, piuttosto che la moneta nazionale: lo yuan, dal momento che non sono una “borghesia nazionale” nel senso patriottico). La loro quota di plusvalore estratto dal lavoro a basso costo dei lavoratori cinesi - e dei contadini produttivi - è proporzionale al loro capitale, che, si calcola, non sia superiore ad un terzo dei capitali imperialistici USA, UE, giapponesi, canadesi, australiani (israeliani?) investiti in Cina. (iv) È in questo imperialismo piuttosto che nella “borghesia nazionale” che, stando alla teoria leniniana, giace il pericolo potenziale per l’indipendenza cinese.

I comunisti cinesi sono ben coscienti di ciò. Sapevano che questo sarebbe stato il dilemma della loro gigantesca “Nuova Politica Economica”, lezione già impartita da Lenin anche se su scala decisamente più ridotta con la sua NEP. Stalin e Bucharin invitarono i contadini kulaki a “diventare ricchi in fretta” e sappiamo che tale politica causò così tanto problemi all’URSS che gli economisti di Stalin, guidati da Varga, ricorsero alla politica dello stacanovismo, fondata sulla base di una figura di operaio altamente efficiente, privilegiato, che produsse a sua volta nuovi problemi alla produzione pianificata. La Cina, con i suoi 1,34 miliardi di abitanti, ha problemi ancora più grandi da risolvere. Siamo sicuri di restare al suo fianco! Ogni politica di collaborazione economica con l’imperialismo ha comportato la nascita di difficoltà e pericoli per le economie statalmente pianificate guidate dai socialisti. L’URSS ebbe un’economia pianificata. Grazie all’“antistalinismo” sostenuto dall’imperialismo, nel quale la sinistra eurocentrica ha svolto un ruolo di guida, il modo di produzione capitalistico-imperialistico ha rovesciato l’economia pianificata socialista del modo di produzione adottato con la rivoluzione russa del 1917. Il principale obiettivo degli antimperialisti fedeli alla rivoluzione cinese del 1949 è di difende le Repubblica popolare cinese contro un’altra contro-rivoluzione del genere. La NEP cinese riguarda la RPC. Il nostro compito non è quello di essere in linea con quella sinistra che ha disertato e continua a farlo oggi passando dall’altro lato delle barricate internazionali.

BURKETT, PAUL (1999), Marx and Nature. A Red and Green Perspective, New York, Palgrave Macmillan


(2005), “Entropy in Ecological Economics: A Marxist Interpretation”, in Historical Materialism, vol. 13, n. 1, pp. 125-152 BELLAMY FOSTER, JOHN (1999), The Vulnerable Planet. A Short Economic History of the Environment, New York, Monthly Review Press
(2000), Marx’s Ecology. Materialism and Nature, New York, Monthly Review Press
(2002), Ecology Against Capitalism, New York, Monthly Review Press BURKETT, PAUL, BELLAMY FOSTER, JOHN (2004), “Ecological Economics and Classical Marxism: The “Podolinsky Business” Reconsidered”, in Organisation & Environment, vol. 17, n. 1
(2006), “Metabolism, Energy and Entropy in Marx’s Critique of Political Economy: Beyond the Podolinsky Myth”, in Theory and Society, vol. 35, n. 1, pp. 109-156 CIA (2008), The CIA World Factbook, New York, Shyhorse Publishing HART-LANDSBERG, MARTIN, BURKETT, PAUL (2004), “China and Socialism: Market Reforms and Class Struggle”, in Monthly Review, vol. 56, n.3
(2006), “China’s Dynamic of Transnational Accumulation: Causes and Consequences of Global Restructuring”, in Historical Materialism, vol. 14, n. 3 LENIN, V. I. (1966), Imperialism the Highest Stage of Capitalism, Mosca, Progress RABINBACH, ANSON (1994), “The Human Motor”, in Theory and Society, vol. 23, n. 4

Prof. Univ. di Cape Town Sudafrica

Con il nuovo sistema di trascrizione nell’alfabeto latino del cinese, il metodo pinyin adottato nella RPC ed oramai prevalente nel mondo intero, alcuni nomi comuni di cose e di persone differiscono abbondantemente dal precedente metodo precedentemente usato: per cui Chiang Kai-shek diviene Jiang Jeshi, Mao Tse-tung invece Mao Zedong, Teng Hsiao-ping diventa Deng Xiaoping e Pechino, ad esempio, Beijing. In questa traduzione così come nelle altre e nell’intera rubrica si utilizzerà il metodo pinyin [N.d.R.].

Un socialista nonché fisico ucraino, Sergei Podolinsky (1850-1891) avanzò una teoria economica fondata sull’ecologia che Marx ed Engels non accettarono (v. BURKETT, BELLAMY FOSTER, 2004). Questi lavori cercano di spiegare che il concetto di entropia era dialettico e non alieno al marxismo. Non usano il concetto di entropia come un concetto fondamentale dell’economia politica marxista. La teoria entropica di Marx si sviluppò molto tardi per poter essere integrata nella sua economia politica o nella sua filosofia dialettico materialistica. I principali scienziati del periodo nella teoria della termodinamica erano Maxwell (1831-1879) e Boltzmann (1844-1906). L’entropia è solitamente definita come S, dove S=H/T dove H è il calore emesso o assorbito in un processo termodinamico reversibile e T la temperatura Kelvin (cioè la temperatura con -273 gradi centigradi come zero). S inoltre è la misura statistica del disordine di un sistema chiuso (v. RABINBACH, 1994).

Interventi degli autori alla conferenza di Wuhan del 12-15 ottobre del 2005.