I governi di centro-sinistra emersi dopo la consultazione
elettorale del 1996 hanno sfiorato il tema delle pensioni e poi, per ragioni
varie - in parte di mera opportunità politica, in parte per talune
modificazioni riguardanti le prospettive dell’INPS - hanno preferito glissare
e rimandare il tutto alla verifica del 2001, come la cosiddetta riforma Dini del
1995 prevedeva.
I malumori espressi, subito, da molte organizzazioni dei
lavoratori per la prospettiva di un anticipo della verifica prevista dalla
riforma Dini si sono, infatti, abbinati ad un aumento del gettito dell’INPS
derivante da due concomitanti fenomeni: a) la crescita della domanda di lavoro
regolare - seppure molto precario - da parte delle imprese e la riduzione del
trend del sommerso (il quale, beninteso, sta solo rallentando); b) le entrate
dovute all’assoggettamento di molte figure cosiddette atipiche a versamenti
che, per ora e nel recentissimo passato, hanno oscillato tra il 10 e il 13%
della retribuzione corrisposta.
Rimane aperto, anzi, si aggrava il problema dei lavoratori,
più o meno precari, che non potranno arrivare - in mancanza di coraggiosi (e
socialmente necessari) interventi - ad una vera e propria pensione, qualsiasi
tipologia “tecnica” si definisca. Il perché di tale fosca prospettiva
appare molto semplice e, forse, evidente: fino a pochi anni fa, l’aumento dell’età
al lavoro (ad un lavoro che consentisse versamenti pensionistici adeguati),
poteva venir compensata - si tratta, beninteso, di una riflessione più teorica
che pratica - da un pari aumento dell’età alla pensione.
Da circa tre anni, invece, accade che le imprese tendano ad
assumere giovani con buoni titoli di studio, sottopagandoli, per poi licenziarli
ed assumere lavoratori ancora più giovani con titoli di studio più elevati ed
offrendo paghe relativamente decrescenti.
Dietro questi preoccupanti fenomeni che comportano l’espulsione
dal mercato del lavoro degli ultratrentacinquenni e l’utilizzo degli
ammortizzatori sociali per la fascia di età attorno ai 45, si trovano tre cause
che sembrano avere ben poco in comune con la globalizzazione e la competitività
delle imprese: a) l’assenza di vere e proprie politiche industriali da parte
del governo, b) un sistema della formazione professionale non focalizzato sull’esigenza
di costituire una forza lavoro che risponda alla domanda di collaborazione
qualificata da parte delle imprese, c) l’assegnazione al management delle
imprese, da parte della proprietà, di obiettivi di profitto da conseguire, nell’immediato,
anche a costo di sacrificare, nel futuro, le prospettive di crescita e di
competitività delle stesse imprese.
La storia economica insegna che proprio la resistenza
sindacale alla naturale tendenza del capitale a voler ridurre le paghe determina
reazioni nella composizione della forza lavoro stessa che vede crescere la
propria produttività; al contrario, lo scadimento nella condizione anche
retributiva dei lavoratori - pur consentendo, nell’immediato, un aumento dei
profitti - causa perdite di competitività internazionale e, successivamente,
crisi economica.
Il libro di Rita Martufi e Luciano Vasapollo - Le pensioni a
Fondo, Media Print, gennaio 2000 - mette in luce tali problematiche, fornendo
una guida utile e interessante che, una volta, si sarebbe fatta rientrare nell’ambito
della categoria della controinformazione.
Infatti, secondo gli autori, il tema di una riforma delle
pensioni non andrebbe confuso con l’obiettivo della privatizzazione del
sistema pensionistico. Il problema della riforma delle pensioni (pubbliche e a
ripartizione) si pose quando si osservò che il trend di coloro che andavano in
pensione superava - e avrebbe potuto superare ancora di più nel tempo - il
trend di coloro che ottenevano un lavoro (in modo di consentire versamenti
adeguati al raggiungimento della pensione stessa).
La crescita del lavoro nero, la precarizzazione della
forza-lavoro, la disoccupazione o, principalmente, l’insufficiente crescita di
posti di lavoro “buoni” erano la causa di un possibile dissesto finanziario;
non sarebbe stato, quindi, il sistema pensionistico pubblico e a ripartizione a
rivelarsi insufficiente e inefficace rispetto ai tempi, ma le politiche
economiche, monetarie, occupazionali, degli investimenti.
Purtroppo, la confusione e, a volte, la mancanza di buona
informazione o, se si vuole, di controinformazione efficace, si abbinò con i
cambiamenti culturali (e di massa) di tipo liberistico o, per essere più
precisi, antisociali e individualistici.
Da un punto di vista prettamente individuale (che non è, di
per sé, antisociale, ma che può diventarlo), infatti, il sistema pensionistico
a capitalizzazione “non fa una piega”: tanto il singolo lavoratore versa di
contributi durante la vita, di tanto si valorizzano tali somme alle condizioni
del mercato finanziario e tanto il lavoratore riceverà al momento della
pensione.
Rita Martufi e Luciano Vasapollo richiamano l’attenzione
del lettore sul fatto che la apparentemente logica conseguenza delle pensioni a
capitalizzazione, vale a dire la privatizzazione (sempre per la cultura
corrente, infatti, la redditività assicurata da un gestore privato è maggiore,
per definizione, rispetto a quella di un gestore non privato) può produrre
conseguenze nefaste quando ci si avvicina a situazioni caratterizzate da crisi
finanziarie.
Per quanto riguarda i fondi pensione, infatti, c’è da
osservare come la ricerca di performances migliori di quelle assicurate dal
mercato obbligazionario (quando i tassi di interesse sono bassi) finisce per
porre un limite alla crescita economica più forte di quella corrispondente al
costo del danaro.
Introducendo la tematica della riforma del TFR, infatti, gli
autori di “Le pensioni a Fondo”, hanno presenti i rischi propri della
privatizzazione pensionistica che potrebbero vanificare proprio la funzione
sociale di tali istituti che consiste nell’assicurare un aiuto - seppure in
funzione di quanto ciascuno ha risparmiato forzatamente - a coloro che lasciano
l’attività produttiva e, invecchiando, hanno anche maggiori probabilità di
incorrere in difficoltà, malattie ed acciacchi vari.
Una maggiore regolarizzazione del lavoro sommerso
(attualmente le misure varate dal governo appaiono ancora troppo timide sebbene
abbiano dato risultati anche per l’azione che, pure, andrebbe potenziata di
più, dagli ispettorati del Lavoro, dell’INPS e dell’INAIL); una politica
dell’occupazione e della formazione che riduca il precariato e la precarietà
del rapporto di lavoro; un aumento - almeno fino al 20% - dei versamenti dei
datori di lavoro sui contratti cosiddetti atipici; la separazione gestionale tra
la parte previdenziale (di cui si sta cercando di parlare qui) e quella
assistenziale (che determina il fabbisogno finanziario del sistema pensionistico
pubblico), sono tutte misure e politiche che consentirebbero un ritorno al
sistema a ripartizione gestito dall’INPS.
I dati più recenti, infatti, dimostrano come la famosa “gobba”
che descriveva la spesa pensionistica rispetto al PIL si appiattisca quasi del
tutto introducendo variabili quali: a) la crescita dell’occupazione femminile
fino al raggiungimento della media europea; b) i versamenti dei nuovi occupati
(ex precari, ex lavoratori in nero, ex disoccupati); c) un aumento del PIL
stesso, rispetto alle previsioni di qualche tempo fa, dello 0,4% - 0,5% all’anno,
vale a dire per una media non del 2%, ma del 2,4 - 2,5%.